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Che paura quel giorno!

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monumento

C’era, effettivamente, qualcosa di nuovo nell’aria: si respirava già sentore di primavera! Aprile, mese del dolce dormire, ma anche con tutte le prospettive legate alla nuova stagione, alla vita che si rinnova, all’aria pulita e alla luminosità dei panorami. Un turbinio di pensieri e immagini, di aspirazioni, di vita nuova!

Invece non era cambiato per me l’impegno di andare a scuola. Non c’era motivo di coinvolgere il ciclo delle stagioni. Andare a scuola era semplicemente un dovere, e come tale andava mantenuto. E, guardando indietro, era anche un privilegio.  Posso aggiungere che non mi dispiaceva affatto. Sempre meglio che iniziare la giornata alle quattro del mattino per andare  davanti  alle mucche ad arare, col rischio che il sonno prendesse il sopravvento, e le conseguenze le lascio immaginare a voi.

Superato il dramma del risveglio, e presa cognizione che era già un altro giorno, mi affrettai a fare colazione, poi via lungo quella strada che da Donadiolla si insinuava alla base dei campicelli che fanno da sfondo alla borgata verso sud. Mi ero chiesto, e forse se lo erano chiesto tutti coloro che abitavano a Castellaro o a Donadiolla: perché non tracciare una strada rettilinea e piana? Già! Ma c’erano di mezzo i confini, e un metro di terreno in più, a quei tempi, aveva la sua importanza. Comunque quel tratto di strada era, tutto sommato, agevole. Un po’ peggio si presentava il versante che si affaccia a Maiola, là dove i campi si chiamano I Canneti, poi Le Morselle, fin giù alle Vene. A questo punto la carraia si allungava verso Sud-Est per poi svoltare ad angolo acuto verso Ovest, sempre ai bordi estremi delle proprietà.

Però la gente non aveva bisogno di scuola per capire che la lunghezza dell’ipotenusa è comunque minore della somma dei due cateti. Era l’istinto a dimostrarlo. Pitagora, a quei tempi, significava solo tabelline. La soluzione? Un semplice Tàja d’ travêrs. Infatti il popolo, quando andava a piedi  e senza birocci, aveva scelto di passare lungo il perimetro superiore dei campi lavorati, tra campo e bosco, per poi rientrare sulla carraia più in basso, vicino alle sorgenti.

Qui, prima di intraprendere la scorciatoia, mi incontravo con Angelo. Lui era un tantino più anziano di me (circa due anni), ma per situazioni comprensibili (lavoro asfissiante e concetto errato della scuola) era stato rimandato, poi bocciato per cumulo di assenze. Con lui mi trovavo bene. In quel tratto di circa un chilometro si chiacchierava, ci si scambiavano impressioni e informazioni, insomma si passava il tempo prima di entrare in aula.

Quel giorno però la nostra mente fu turbata e sconvolta. Appena in vista di Maiola ci rendemmo conto che dalla borgata si stava snodando giù, lungo la strada, un serpente composto da un nugolo di persone in divisa. Anzi, a guidare la lunga fila era uno strano oggetto.

Ci rendemmo conto che si trattava di soldati, quindi tedeschi o repubblichini. E restammo di sasso.  Cosa fare ora? Scappare verso casa e avvertire i paesani?  Ma se poi quelli là ci sparavano? Di sicuro ci avevano visti e potevano sospettare che fossimo dei ribelli o delle spie. Era opinione diffusa che quelli, i tedeschi, disponessero di armi di precisione e potessero colpirci da qualsiasi distanza. Superato il trambusto mentale decidemmo di proseguire per non destare sospetti, ma, soprattutto, per evitare che ci sparassero.

Jeep tedesca

Incontrammo la lunga fila proprio nel punto più basso del percorso, alle Vene, dove il sole arrivava poche ore al giorno. Vedemmo quel mostro meccanico che recava sul cofano due S stilizzate e incrociate, e che era capace di arrampicarsi anche nelle nostre carraie meglio dei nostri buoi. Disponeva di lunghe antenne che si agitavano ad ogni sobbalzo. Dopo la liberazione imparammo che quegli attrezzi si chiamavano Jeep.

Ci eravamo messi al bordo della carraia, in attesa che quella lunga fila di uomini ci oltrepassasse. Passò il mostro meccanico, poi uno dei tre capi che guidavano la lunga fila si avvicinò al mio amico, lo prese per la giacca e cominciò a domandargli, minaccioso, dove si trovavano i partigiani. Il mio amico finse di cadere dalle nuvole. Partigiani? E che cosa sono? Io non li ho mai visti e neppure ne ho sentito parlare! Da parte mia cercai di dare una mano all’amico asserendo che noi non avevamo mai sentito parlare di partigiani. Forse aveva creduto alla nostra parola perché mollò la presa e continuò a camminare.

Giungemmo a scuola. C’era anche la maestra che veniva a piedi da Rosano. Quel giorno però non fu possibile fare lezione. Ci provò alcune volte l’insegnante, ma poi il discorso ritornava su quell’argomento. Chi erano? Chi cercavano? Anche l’insegnante sembrava più irrequieta del solito. La sua famiglia era considerata benestante, e la paura di rappresaglie la si respirava un po’ ovunque.

Al termine dell’orario io e il mio amico riprendemmo la strada verso casa, ma il discorso ricadeva sempre su quella sfilza di soldati e sulla loro meta.

Una sinistra nomea accompagnava la presenza dei tedeschi e dei fascisti nel nostro territorio. Avevamo visto la colonna di fumo alzarsi sopra Toano, e anche l’aereo scendere a bassa quota per lanciare taniche di benzina su Barazzone mentre, da terra, i tedeschi attizzavano il fuoco. Di sicuro non ci si poteva aspettare qualcosa di bello dalla loro presenza. Invece no. La loro meta non era Castellaro ma Gombio. A Castellaro c’erano venuti per completare l’accerchiamento. Salutai l’amico e giunsi in vista del borgo e notai che la mia casa era intatta e in giro non vi era traccia di fumo. E scorsi, da lontano, che, davanti a casa, c’era quel mostriciattolo meccanico. Capii dopo. La posizione di Castellaro era ottima per piazzarvi lo Stato Maggiore che, dalla cima del Martino, poteva seguire le mosse delle altre squadre che operavano a Gombio e dirigerle via radio. L’unico danno (chiamiamolo così) fu quello arrecato ai pollai del villaggio. I capi ordinarono alle donne del borgo di uccidere un bel numero di galline e preparare il brodo per il pranzo di tutti quei ragazzotti infagottati in una divisa che non era della loro taglia. Solo l’equipaggio della Jeep appariva con abiti di giusta taglia, attillati e stirati, e indossati con gusto. Ma quelli erano tedeschi.

lapide legoreccio

La giornata era splendida, decisamente primaverile. C’era un gran viavai davanti a casa.

Verso le cinque tutta la truppa riprese il cammino verso Castelnovo. Nei nostri borghi non presero nessuno. Gli uomini avevano fatto in tempo a nascondersi. Solo una pattuglia rientrò con un prigioniero preso, pare, dalle parti del Mulino Zannoni. Sapemmo poi che anche questo era stato rilasciato. Un grande punto interrogativo ci teneva in ansia. Da Gombio avevamo sentito degli spari. Abbiamo imparato in seguito che Gombio era l’obiettivo del rastrellamento e che lì erano state uccise almeno tre persone, una delle quali proveniente da Majola, dove c’era la scuola. Il paese e la gente erano stati risparmiati grazie alla presenza di due donne tedesche nel paese. Ma questa storia la potete leggere sull’opuscolo di G. Giovanelli ECCIDIO E SALVEZZA, pubblicato nel 2011 quando fu inaugurato il Memoriale sul Monte Battuta.

monumentoLegoreccio: Monumento ai partigiani

1 COMMENT

  1. L’ansia di un bambino la si vive leggendo. Non ho vissuto la guerra, sono stata fortunata a nascere dopo. E’ incredibile però come l’occupazione fosse capillare, distribuendosi anche nei piccolissimi paesi come Castellaro o Donadiolla. Di Barazzone dato completamente a fuoco ho sentito parlare spesso.

    (Ilde Rosati)

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