Non bisogna perdersi d’animo! I pessimismi ossessivi, le paure ingiustificate, le tristezze senili e il richiamo a ricordi vuoti o a paragoni noiosi non aiutano i giovani ad andare avanti e neppure gli adulti a stare o a tornare tra loro. I giovani si trovano bene dove si sentono accolti, amati, tra gente contenta del ruolo che vive, che guarda con speranza ed entusiasmo in avanti, senza mai uccidere o indebolire la speranza.
La Chiesa crede che Dio ama i giovani. Crede che Gesù Cristo vuole condividere la sua vita con loro. Crede nei giovani speranza di un futuro nuovo. Giovanni Paolo II li chiamava “sentinelle del mattino”. Papa Benedetto ha chiamato a raccolta la Diocesi di Roma parlando di “emergenza educativa” e dopo Colonia, dopo Loreto, andrà a trovarli in Australia. Il nostro Cardinale crede che in essi siano nascosti i semi del Regno, crede che Dio è presente in loro per cui ogni servizio reso loro, è incontrare Lui.
In forza di questa verità nessun giovane può essere escluso da noi adulti, nessuno dalla nostra speranza. Anche i più difficili! Così scrive uno di loro, Mario, di anni 14: “Penso che il Signore non voglia sradicare la zizzania perché lui spera sempre, fino alla fine, che possa trasformarsi in buon grano. Chi ha visto l’acqua diventare vino deve pure aspettare con pazienza che il cattivo diventi buono”.
Bisogna andare ai giovani con grande fiducia perché lo Spirito è presente in loro e per mezzo loro vuole edificare una più autentica comunità umana e cristiana. Come educatori, preti o genitori dobbiamo riscoprire la bellezza del cammino educativo, incontrando i giovani nella situazione in cui si trovano, ascoltandoli, vedendo il positivo che c’è in loro, per orientare e crescere con loro fino alla maturità umana: “E’ importante vedere o alle volte credere a una perla di bontà che brilla nei loro cuori”, scrive don Luigi Melesi, convinto che nell’attuale storia di salvezza “più nessun uomo è figlio del peccato, ma tutti siamo figli dell’amore di Dio in Gesù Signore”.
La strada dell’educazione alla fede è percorribile anche in quelle situazioni in cui l’annuncio di Cristo risulta difficile, impraticabile, là dove sono da creare le minime condizioni perché sia accolto. Il riferimento al Vangelo, in uno stato di precarietà e di povertà religiosa, fa sempre da ispiratore, perché il Vangelo indica i valori umani più autentici ed è sempre motivo di fiducia alle sofferte e silenziose testimonianze di quanti lavorano con i giovani.
In forza della logica evangelica il cammino di educazione alla fede parte dagli ultimi: non li esclude, non li mette al margini! La scelta di privilegiare i più poveri, chi vive in difficoltà è condizione per dialogare con tutti, anche con chi è cresciuto lontano da Cristo, dalla Chiesa. Il linguaggio facile immediato, lo stile educativo improntato a familiarità, ricco di valori umani, sono già una prima forma di evangelizzazione, buona notizia e invito per i lontani ma anche per i vicini.
Non ci si deve comunque accontentare dei piccoli risultati: si può e si deve additare il traguardo ultimo della santità, con la sensibilità per intuire che il passo non è uguale per tutti. Il fallimento educativo è pur sempre possibile, se si considera in quale contesto vivono i nostri giovani. L’importante è avere tentato in qualche modo di dare una risposta alle loro domande, alle loro fragilità.
Il modello ancora una volta è Gesù Cristo: “Io credo in Gesù”, dice Antonio, “lo vedo come una speranza per tutti noi! Ama, perdona, comprende, lo sento vicino nelle difficoltà e mi dà coraggio; nella felicità lo ringrazio”. Amare, perdonare, comprendere: sono i verbi da declinare per educare alla fede.