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Lettera / “Sessantotto: è ora di chiudere il sipario”

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Avevo 25 anni quando cominciò quella brutta stagione, avevo da poco perso mio padre e per lo stato civile ero diventato capofamiglia con me vivevano mia madre e mia sorella Franca. Degli altri due fratelli uno, Giuseppe, era sposato con 3 bambini; l'altra, Iride, era entrata in convento tredici anni prima.

Io lavoravo alle Reggiane, ci sono ancora ma per poco. Un anno quello, dove certi militanti di allora volevano cambiare il mondo. In prevalenza erano studenti e quasi tutti figli di papà (ma anche operai) e quasi tutte le università italiane e anche molti istituti superiori erano occupati, non c'era più rispetto per le autorità costituite e durante le molte manifestazioni prendevano a sassate la polizia. Io mio chiedevo, anche a fronte di un educazione cattolica moderata, quella insegnatami dai miei genitori e quella ricevuta in collegio: ma cosa vogliono quelli, studiano, frequentano l'università (magari l'avessi potuta frequentare anch'io). L'Italia era in pieno boom economico, io e tanti come me, la stragrande maggioranza degli italiani, non capivano cosa volessero.

Nei comizi, nelle assemblee e nelle dimostrazioni di piazza i cartelli che inneggiavano al comunismo e a Mao Tsetung si sprecavano. E pensare che nei paesi comunisti le proteste erano soffocate con la forza e le prigioni erano piene anche di brava gente che aveva avuto anche solo il coraggio di dissentire a parole. Insomma, noi non riuscivamo a capire.

Io ero contento, avevamo lasciato alle spalle la stagione delle privazioni, sulla nostra tavola cominciava a comparire il companatico, mio padre (che da alcuni anni aveva perso la vista) e mia madre, memori della miseria passata, anche loro erano contenti. Si cominciava anche a risparmiare e qualche buono postale finiva nelle segrete dei comò; insomma, pur con sacrifici si vedeva che le cose cominciavano a migliorare.

Anzi, nel 1967 avevamo anche comperato una Fiat 750 usata e così potevamo anche far visita a mia sorella suora a Verona. Ecco, questa storia per dire una cosa: per dire che i giornali e le televisioni non fanno che commemorare il quarantesimo di quel brutto '68 e secondo me e secondo tanti sarebbe il caso di tirare un velo pietoso su quella stagione che ha generato tanti lutti e dolori e che questa ricorrenza fosse dimenticata.

Mi risulta che molti sessantottini non vogliano più parlare di quel brutto anno e questo gioca a loro favore, anche se molti dei capi di allora figurano nell'elite nazionale, deputati, giornalisti di fama. Europarlamentari e dirigenti di enti pubblici. E noi che stavamo zitti zitti, quatti quatti, spesso eravamo anche offesi. I miei genitori mi hanno insegnato che la giustizia sociale può arrivare anche senza gli scioperi, senza violenza, rispettando gli altri e le autorità precostituite, rispettando i professori e i genitori.

Poi è capitato che molti giovani cattolici (come il sottoscritto) abbiano intrapreso l'impegno politico nelle città e nei paesi e anche nei posti di lavoro, discutendo e portando avanti i loro valori; ma spesso si veniva derisi e sopraffatti dall'arroganza di una classe politica locale che non tollerava che a livello nazionale governasse una forza opposta alla loro.

E così, sulla spinta del ciclone delle rivolte giovanili fomentate da politici che rimanevano nell'ombra, noi non avevamo localmente lo spazio sufficiente che meritava il nostro impegno di moderati cattolici e la strada che dovevamo percorrere si lastricava di ostacoli e di problemi.

Poi, vent'anni dopo, anche grazie a Sua Santita Giovanni Paolo II quasi tutti i regimi comunisti sono crollati, piano piano i partiti e alcuni dei loro dirigenti che hanno fatto fortuna con quell'ideologia hanno cominciato a ricredersi, speriamo non per convenienza, e a noi è rimasta la soddisfazione di aver creduto nei valori che i nostri genitori ci avevano trasmesso comportandoci di conseguenza e rimanendo fedeli ai nostri ideali.

(Domenico Amidati)