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Dedicato a Roberto Ferrari, lettore di Redacon, che nei suoi ultimi giorni della sua breve, ma intensa, vita… si è preoccupato del presepe nella parrocchia di Levizzano
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“Ego te absolvo in nomine Patri et Filii et Spiritus santi. Amen”, Filomena era particolarmente cara a don Orione. Aveva attraversato il fiume, con gli stivali di corame lunghi, incurante del freddo che si avvinghiava per le ossute gambe. Svoltando oltre la macchia, aveva preso lungo la carraia melmosa sino al mulino della Piana dei Salici. L’attendeva l’anziana madre della mugnaia che alla messa in paese non poteva più salire, piegata in due, com’era, dal lavoro di una vita. Con la formula latina, don Orione aveva assolto anche Filomena, per i suoi pochi peccati.
“Devo confessarle i miei pensieri di invidia per le donne eleganti del paese – aveva detto poc’anzi all’anziano ma arzillo sacerdote -, per l’impossibilità di essere sempre venuta a messa ma, sa reverendo, alle volte qui al mulino dobbiamo macinare quando c’è acqua,…” e altre cosucce meritorie di restare nel segreto confessionale.
Forse, la Filomena, non aveva nemmeno cinquant’anni. Caterina, la madre, non ricordava esattamente quando era nata, se non che era una ventosa mattina di primavera, quando si macinavano le ultime castagne e, quel giorno, le macine avevano incendiato per la seconda volta nella sua storia il mulino. Il terzo e ultimo incendio sarebbe stato per il troppo lavoro dopo la notizia della pace nella grande guerra.
Ma alla Piana dei Salici il tempo non era poi così necessario. Ci pensavano il sole e le stagioni a segnare l’occorrente per i lavori dell’uomo e dei campi. I riflessi verdi del frumento in levata avrebbero segnato il mese di marzo, l’odore della pula nell’aia la fine di luglio, l’olezzo, mai fastidioso, del letame che dava vita alla terra pronta a lasciarsi fecondare da nuove cariossidi, segnava la fine di agosto… I rumori e i ritmi dell’edificio, poi, facevano il resto.
“Ego te absolvo…” ma il pensiero di Filomena era già alla messa del Natale. Quest’anno ci sarebbe voluta andare. Guadare l’acqua, salire lungo la mulattiere e, con di fianco il marito, assaporare il gusto del passeggio per le vie del paese a rimirare, come le piaceva, i pochi articoli dietro i vetri appannati della merceria, della ferramenta, del panettiere. All’uscita della messa, sapeva, lui avrebbe gradito un brulé con gli amici all’osteria dell’Aquila, ma lei l’avrebbe convinto a rientrare di passo lesto verso il tepore del focolare.
Nicomaco tornò con la bigia e la rossa che il sole si era già inzuppato nell’arancione dietro il monte di Castel Gottano.
“Ancora dei sassi sul bros? ”
“Sono le piagne più belle che ho trovato per la nostra aia”.
“Sai, oggi è venuto don Orione e ha portato la comunione a mamma Caterina. Si è tanto raccomandato per la messa del Natale…”
“Ci saremo” le disse lui intento a liberare gli animali dal peso del lavoro di una giornata.
Lei lo guardò. Ne scorse i muscoli che si contraevano al sollevare i sassi. E rivide quel giorno di primavera quando se ne era innamorata. Lungo il fiume le donne con la cenere sciacquavano il bucato. Tele, abiti e lenzuola dell’inverno che, in precedenza, avevano lavato a casa, nella mastella, con acqua bollente e cenere. Lui, il figlio del mugnaio, era incaricato di abbeverare vacche e capre che il padre voleva tenere per i lavori domestici e per il latte. Lei aveva alzato il capo, dal rigagnolo chiassoso dell’irruenza delle acque delle nevi. Con fare nascosto alle vicine aveva posato il suo sguardo per ammirare il bel corpo del giovane. Nicomaco, non lontano, aveva colto in quel gesto l’attenzione su di sé. I suoi occhi, allora, erano corsi ai riflessi del sole e dell’argento del torrente e, senza troppa esitazione si erano incrociati a quelli di quella ragazza non bella, ma con il sorriso delle persone buone e la grazia dell’adolescenza. Nell’aria, quando scoccò il primo bacio, si percepiva il profumo del mosto permeato di moscerini pronto ad assurgere a vino.
Riassestata l’aia, poco più tardi, nella penombra del lume, Nicomaco scostò la porta. Nelle nari, gli salì il profumo della zuppa d’erbe, ortaggi e di pane, e questo bastò a riportarlo a quando era bambino. Una sensazione che lo incantava ogni sera.
“Filomena – disse dopo aver assaporato il primo cucchiaio e cogliendo la preoccupazione della moglie - , tra venti giorni è Natale. Come saliremo al paese se anche quest’anno il fiume si ingrossa?”
“Non lo so, ma quest’anno sarà diverso dagli altri. E vedrai che alla messa saliremo anche noi”.
“E tua madre?”
“Starà bene, e potrà resistere sola mezza nottata”.
Caterina, nel correre degli anni, aveva perso l’udito. Le sue mani, deformate dal freddo, portavano orgogliose i segni di una vita, ma sapevano fare ancora molte cose. Con esse e una buona vista Caterina imbastiva orgogliosamente l’ago del ricamo. Dalla sedia della matrona, dietro il fumo della zuppa, il suo sguardo corse discreto sul viso di Filomena.
“So che vorresti pregare il Natale per un figlio – pensò in cuor senza bisogno di ascoltare le parole che non poteva udire, ma solo sentire – e, potessi, darei gli ultimi miei giorni per il tuo sogno…”
Una luce tremola insinuò un dubbio sul viso di Nicomaco: “Quale desiderio accenderai con la candela del Natale?”
“Lo sai”.
“Ormai siamo vecchi, Filomena. Un bambino non potremo averlo”
“Ma il Natale porta con sé i sogni più belli”.
Dieci giorni più in là, in crinale, le nubi avevano scoperto la neve. E un fastidioso scirocco pare si fosse divertito a sciogliere il manto bianco a favore del fiume. “E qui non si macina”, pensava Nicomaco indispettito dai contadini che, già da un po’, non si vedevano arrivare con muli o sacchi con un po’ di segale, frumento, frumentone, orzo o castagne. Prima di partire per la campagna, ebbe cura di scaricare a vuoto le acque del canale. Poi partì per Monte del Salto, dove, sulla sommità, terminava il Campo Grande. Prima dell’imbrunire finì di segare la vecchia quercia malata attorno alla quale, da bambino, più d’una volta s’era coricato a riposare nella pausa del mezzogiorno e, stanco, si lasciò abbracciare dai raggi del tramonto.
“Posso aiutarvi nel caricar legna?” questa voce lo spaventò.
Si girò, tenendo accanto a sé la scure: “chi siete voi?”
“Sono Alidore di Annosa. Mendicante sulla via per Roma”.
Non avrebbe avuto bisogno di aggiungere ‘mendicante’, pensò il mugnaio. Un cappello che da signori non lo era più, quella giacca lisa e senza bottoni, le toppe sulle braghe consunte di qualche misura di troppo, la bisaccia gonfia di miserie e di sogni perduti, il bastone per tenere lontani i randagi.
“Annosa è qui vicino, e mi pare che siate assai distante da Roma”, disse Nicomaco un poco tranquillizzato.
“Il viaggiare è la mia vita. Se mai arrivassi alla meta, con essa finirebbero i miei giorni”.
“Non è un buon motivo per passare la vita a mendicare” fece divertito il mugnaio. “Se voi non impiegaste il tempo a mendicare… potreste affrontare l’inverno con sicurezza”.
“Non c’è inverno più freddo di quello che si ha nel cuore” aggiunse Alidore, intento a caricare sul carro il primo pezzo della vecchia quercia.
“Non ho soldi per ripagare il vostro lavoro, Alidore”.
“Se vorrete, mi accontenterò di un po’ del vostro pane”.
“Sarete accontentato”.
Raccolsero quanta legna potevano sul carro, accatastarono al bordo del campo l’altra e, con cura, Nicomaco in ultimo ripose la radice.
Scesero da Campo Grande e lo sguardo del mugnaio corse alle terrazze realizzate, gli diceva il padre, dal padre del padre di suo nonno. Giunti al fiume, le due vacche, entrarono in acqua con un poco di esitazione, ma sostenute dalla consuetudine che il padrone non le avrebbe condotte male. Alidore si disimpegnò coi trampoli di Nicomaco che, invece, restò sul carro.
“Filomena, abbiamo un ospite”. Lei le sorrise. L’anziana madre, solo dalla vista, capì che si trattava di un mendicante. Filomena, rispettosa della volontà del marito, aggiunse un tondo nel tavolo, mentre Alidore non si staccava dal grosso camino, intirizzito per le acque alte che ne avevano schizzato le povere scarpe. A tavola il nuovo ospite deliziò, a voce alta, Caterina coi racconti di paesi non troppo lontani. E a ogni nome nuovo che proferiva, l’anziana donna diceva “ma il mondo arriva anche là?”. Più di tutti, comunque, incuriosì il racconto del mare. Delle lampare che salpavano quando ancora era notte e di quella miriade di animali che vivevano nell’acqua. Alcuni, bellissimi, altri orribili “e alle volte le lampare non tornano e le donne, sconsolate coi bambini attaccati alla sottana, restano a riva o negli oratori a pregare per un miracolo che non avverrà”.
Finita la cena, Nicomaco volle tornare alla vita di tutti i giorni. Si avvicinò a Filomena: “Questo è per te”.
“Ha davvero le sembianze di una grotta, è meravigliosa” disse la moglie accogliendo la radice, mentre il bagliore del camino rischiarava la sua veste. Con fare delicato, pose il legno a lato della cucina, sopra il muschio che durante il giorno aveva ripreso dalla soffitta e ravvivato con quello raccolto ai bordi del canale. Un po’ di licheni parevano fari di luce nella penombra del nascente presepe. Le statuine, in legno antico, erano grandi un palmo. Caterina, anche quest’anno, all’uncinetto aveva potuto migliorare le vesti dei pastori e il lungo vestito di San Giuseppe e la Madonna. I topi e i tarli, però, non avevano avuto rispetto dei più indifesi. E all’avo artigiano che, su legno tenero e con mano abile, aveva scolpito dolcissimi lineamenti a Gesù Bambino forse sarebbe venuto male. La statuina del piccolo si sbriciolò del tutto. Un garbato velo di malinconia invase la stanza.
Tic tic, prima piano, poi sempre più forte. Le piagne del tetto non nascosero l’arrivo della pioggia. La tramontana fischiava nel passagatto chiuso alla benemeglio. Alidore, fu accolto in un giaciglio nella stalla. La notte Filomena non dormì: domani era l’antivigilia e il fiume minacciava ancora più acqua.
Quando Nicomaco aprì la porta urlò. “Corri a vedere!”. Intirizzita per il freddo, Filomena si avvolse nella vestaglia e, da dietro al marito, allungò il viso fuori dalla porta. Era la magia della prima neve!
Sul melo lontano gli uccellini del Nord cercavano cibo sui rami. C’erano cardellini, pettirossi, scriccioli e, con loro, i passerotti nostrani. Il silenzio ovattato era rotto dalla miriade soffice dei fiocchi che avevano preso il posto della pioggia. Il torrente, ora troppo lontano, nemmeno lasciava ascoltare il gorgoglio delle acque. Dai finestrini della stalla usciva il vapore degli animali. Anche il vaso da notte, sul davanzale, s’era congelato.
“Alidore!” i due guardarono, ma il mendicante non rispose. “Guarda quelle orme…”
“E’ partito nella notte… - aggiunse Nicomaco avviandosi alla mungitura nella stalla - avrà provato a riattraversare il fiume finché si poteva. Roma l’aspetta, ma non andrà lontano. Speriamo trovi accoglienza in qualche casa per la prossima notte”.
“Alzo mamma, preparo la colazione e riattizzo il fuoco. Poi vieni in casa?” Nicomaco, colse nelle parole di Filomena la malinconia per il presagio della messa di mezzanotte. Anche quest’anno il paese era lontano solo pochi chilometri e un torrente che ambiva sempre, d’inverno, a essere fiume. Impossibile da guadare la notte, se non con pericolo.
“Guarda!” disse entrando il mugnaio di corsa.
“Cosa è?”
“Prendilo tra le mani”
“Cs’a lè?” fece eco Caterina che posò la tazza di caffèlatte incuriosita dalla scena.
“E’ Gesù bambino… è meraviglioso”.
“Quel mendicante aveva dei lineamenti dolci. Non sapevo avesse mani altrettanto nobili”, aggiunse Nicomaco. Caterina si alzò a fatica e non trattenne le lacrime nel prendere in mano la statuetta, intagliata in un pezzo della vecchia quercia. Alidore, aveva dovuto dormire proprio poco. E solo con la luce della luna era riuscito a modellare quel prodigio di quel bambinello, ora nudo.
“Ci pensate voi, mamma?”. Lei non sentì, ma sapeva cosa doveva fare: gli aghi già sferruzzavano tra le sue scarne dita. Il giorno della Vigilia la neve aveva sorpassato il metro e gli uccellini si presentavano coraggiosi sulla soglia della finestra.
Quando fu sera il mugnaio ridestò il fuoco con un legno di castagno più grande degli altri. Si avvicinò a Filomena e le mostrò compiaciuto il lavoro di una giornata di Caterina: “Quanto è bello e candido”. Al crepitio del camino, Filomena si avvicinò alla culla. Caterina l’ammirava commossa. Tenne tra le mani la statuina e Nicomaco le pose il braccio attorno. Posero il Gesù bambino al suo posto e, vicino, il primo pastore. Assieme, i tre, guardarono il presepe. Lontano, quando fu mezzanotte, si sentì il rintocco delle campane. O forse non si sentivano, perché fuori nevicava, ma a tutti nel mulino parve di vedere il campanaro di don Orione all’opera e fu come sentire il din don rischiarare la notte più bella. Anche quell’anno, al mulino della Piana dei Salici, era Natale.
Bello. Complimenti.
(gd)
Il piacere di leggere
Bravo Gabriele! Scritto bene, molto sentito, bei personaggi, bell’ambientazione e bell’intreccio. Con tutte le schifezze semipornofecali che ci vengono ultimamente propinate per narrativa, un racconto così è come un piatto di cappelletti fatti in casa nel brodo di cappone a Natale: ristoro, convivialità gioiosa e caldo piacere.
Complimenti, continua!
(n.a.)
Molto, molto bello. Bravo, Gabri, non ti smentisci mai.
(Simone Calani)
Un bel racconto
Sì, proprio un bel racconto per questo “nostro tempo” ciarliero, distratto, irriverente, dissacrato e saccente che tutto presume spiegare, dimentico del dantesco: “Se potuto aveste saper tutto, mestier non era partorir Maria”.
Per fortuna, caro Gabriele, come hai scritto tu: ” …il Natale porta con sè i sogni più belli”… uniti ai sentimenti migliori delle persone più sensibili e… vere!
(u.m.)