L’aveva buttata per strada, mentre lo stavano portando in carcere: “Chi la raccoglie, per favore, la spedisca al tale indirizzo”. Non aveva i soldi per i francobolli. Una persona di cuore l’ha raccolta e me l’ha spedita: era la lettera di un mio ragazzo, di Salvatore “Questa volta l’ho combinata grossa. Sto andando in carcere. Non ho niente, non ho nessuno. Per favore scrivimi, anche solo una parola, ma scrivimi, non lasciarmi solo!”.
Non è solo l’appello di Salvatore, uno di quei giovani, che chiamiamo delinquenti, ai quali auguriamo la galera, perché impari la lezione. E’ l’appello di tanti ragazzi e giovani che hanno bisogno che qualcuno parli loro o, almeno, li ascolti, qualcuno con il quale confidarsi, essere capiti, perché si trovano soli in un vicolo cieco della loro esistenza e la solitudine, si sa, è una brutta bestia, perchè ti fa sentire “nessuno”, “inutile”, uno da buttare o da emarginare.
Un proverbio delle Ande peruviane ci ricorda che “se ad un condor strappi gli artigli, tagli le ali, il condor non è più condor, mentre all’uomo puoi cavare gli occhi, tagliare la lingua, le mani e i piedi ma rimane sempre uomo. Quando l’uomo non è più uomo? Quando è solo!”.
Non possiamo ignorare il problema, far finta di niente: solite crisi che passano, diventeranno grandi! Dobbiamo con loro cercare una risposta che dia valore alla vita, che sia testimoniata da adulti, che questo valore lo hanno cercato, costruito a fatica e sono in grado di costruirlo per gli altri. Dove trovarli?
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“On the road” non da soli, con una meta, un sogno da realizzare.
“Dobbiamo andare e non fermarci finchè non siamo arrivati!”; “Dove andiamo?”; “Non lo so, ma dobbiamo andare”. Così dialogavano i tre personaggi di “On the road” di Jack Kerouac, che camminavano sulla strada senza una meta, vivendo solitudine, violenza, indifferenza, morte.
Un romanzo, “Sulla strada”, che ha segnato dolorosamente l’esistenza di tanti giovani del mondo occidentale. Pensavo a loro, mentre intervenivo con una testimonianza a Bertinoro e a Forlì con giovani, che erano “sulla strada” per Loreto: i primi, percorrendo quattrocento chilometri circa a piedi in 13 giorni; i secondi, riuniti a Forlì nel Palazzo dello Sport per il gemellaggio con quella diocesi, provenienti da una quindicina di diocesi italiane, quattro giovani dalla Palestina ed altri nove una rappresentavano 9 diocesi della Francia.
Quei giovani erano sulla strada da giorni, ma avevano una meta, un sogno da realizzare, una persona, il Papa, e un Dio, Gesù Cristo, da incontrare.
C’era tanta gioia in loro: non si sentivano soli, “né minoranza”, diceva un giovane palestinese, parte di una Chiesa assediata e messa al margine.
All’arrivo a Loreto, nella grande piazza, ho incontrato i 120 che erano arrivati dall’Appennino reggiano a piedi: piangevano commossi, si abbracciavano felici, sentivano che la fatica di quei giorni li aveva uniti, gustando la gioia di essere chiesa, famiglia di Dio. Li hanno fotografati in tanti e i loro volti sono finiti sui principali quotidiani italiani,
Ce l’hanno fatta, perché con loro hanno camminato degli adulti, dei padri e delle madri di famiglia: “Era bello arrivare, dopo ore sotto il sole o bagnati per l’acquazzone, e trovare papà e mamme che avevano preparato dei buoni cappelletti in brodo o la polenta con il sugo!”,
Nella preghiera dei fedeli era più che spontaneo il grazie a questi genitori così solleciti e attenti, ai Don e agli educatori, che avevano condiviso le fatiche del pellegrinaggio.
E’ un’esperienza bellissima che consegno alle famiglie, ora che il cardinale Dionigi le invita ad essere accanto ai figli per educarli alla fede. E’ l’impegno di collaborare con lo Spirito Santo per additare un cammino, che non è un vagare sperduti per campi o boschi o deserti ma che è “via” sicura, sia pure stretta, per giungere a incontrare il Dio dell’Amore, della Speranza, della Vita.
I buoni esempi non mancano, anche se spesso sono ignorati dalle cronache giornalistiche. Accanto a donne semplici, contadine come la mamma di don Bosco, mamma Margherita, troviamo genitori che hanno studiato, come la nostra Beata Gianna Berretta Molla o dlavorato nelle grandi fabbriche, senza trascurare la famiglia, il lavoro con i poveri e la vita d’oratorio come papà Attilio Giordani.
I loro figli non hanno avuto vergogna di avere genitori credenti, che pregavano insieme a loro, indicando la Chiesa come la famiglia di Dio, alla quale erano orgogliosi di appartenere e sentire “mater et magistra”, madre e maestra.
Come i pellegrini di Loreto, i figli, anche se incontrano momenti di crisi e di apparente rifiuto, ci tengono ad essere accompagnati e sentire accanto a loro papà e mamma, sicurezza non solo economica (nonostante le apparenze, è quella che apprezzano di meno!), ma affettiva, di cuore, d’amore.