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Vecchia Castelnovo

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Ai miei tempi (ho più di ottant’anni), il centro storico di Castelnovo ne’ Monti era circoscritto tra via al Castello (dove abito), via Veneto, via Franceschini, Porta Martana, via degli Orti (ora via I Maggio) e le piazze Peretti e del Mercato (ora piazza Martiri). Allora ci si conosceva un po’ tutti, chi con il proprio nome, chi con un soprannome che mai più avrebbe abbandonato il malcapitato destinatario.

Piazza Peretti era piuttosto piccola, circondata da orti e giardini. Il giardino più bello era quello della signora Gigina Rabotti, ben curato e pieno di fiori di ogni varietà. Ricordo che, in occasione del Corpus Domini, chiedevamo in regalo rose e “palle di neve” da spargere lungo il percorso della processione.
Sopra piazza Peretti c’era un largo spazio detto “pra d’la val” adibito unicamente al mercato degli animali. Ogni lunedì i contadini dei dintorni si recavano al mercato per vendere o acquistare mucche, pecore, asini e le immancabili galline.

Adiacenti a questa piazza c’erano diverse osterie. Molto rinomata era l’“osteria dal figadin” (fegatino), gestita da tre compiacenti signore e frequentata da signori di mezz’età in cerca di conforto. Un’altra era quella dell’“Ernesta ed Tric e Trac”, con annesso gioco da bocce. L’Ernesta era persona stravagante: portava gonne arricciate in vita, bigodini sempre in testa e la sigaretta perennemente tra le labbra, tinte con la carta rossa.

L’“ustaria ed la Marieta dal Mor” vantava come specialità la zuppa con “brod ed sampett ed pursel”, apprezzatissima dai contadini che venivano al mercato: potevano infatti gustare un piatto che non era la solita polente o pasta e fagioli. Il figlio della Marietta passava tra i tavoli con una zuppiera piena di una non ben definita “roba grattugiata” e mettendone un pugno in ogni piatto diceva: “Dio av maledisa, tulè metig dal bel furmai acsè la dventa pù savurida”. In verità quella “roba” era quasi tutto pane grattugiato!
Via al Castello era una contrada piena di gente semplice ed operosa, dove non mancavano personaggi caratteristici nel loro modo di porsi.

C’era “Sburgnèti”, soprannome derivatogli dal fatto di essere sempre brillo. Suo cugino Domenico, invece, era detto “Vola colomba”, poichè recapitava i telegrammi e gli espressi per conto dell’ufficio postale.
Dall’Ida Landucci, simpatica persona proprietaria di un orticello ben rifornito, le comari della contrada compravano dieci centesimi di insalata, prezzemolo o altre verdure, mentre gratuite erano le chiacchiere che si scambiavano.

I fratelli Bagnoli, Berto – “Beretta” – un po’ sbruffone e superficiale, suo fratello Domenico – “Suseta” – serio e tutto d’un pezzo.

La “Dirce ed Lurens”, fornaia provetta, oltre al pane sfornava buonissime torte e pagnottine dolci, delizia di noi bambini: costavano venti centesimi (quanti ne ho spillati a mio zio Dario!). La Dirce aveva un fratello Dante a cui piaceva molto alzare il gomito, ma da quando il medico gli aveva proibito di bere, se per caso si trovava a passare nei pressi di un’osteria (a Castelnovo non mancavano!), proseguiva dicendo tra sè e sè: “Dante, tira drit; tal se che bevre at fa mal, à la dit anc’al dutur”!! Così ragionava Dante saggiamente, finchè un giorno si trovò a passare davanti all’osteria Silvetti, l’ultima del paese. La contentezza per aver resistito alle tentazioni fu così forte che decise di premiarsi e disse: “Bravo Dante! Te sta tant brav ch’it pag un bicer”.

Dario era uno dei calzolai che lavoravano in via al Castello, era di buon carattere, spesso cantava allegramente battendo sulle suole e la sua bottega era un po’ il ritrovo dei buontemponi del posto. Un giorno capitò che “Grespin ‘d Rabot”, uomo curioso oltre ogni dire, al quale piaceva origliare dietro le porte altrui, raccontò a Dario che la Clelia Ferri stava ripassando la parte di Fedora, commedia che sarebbe stata rappresentata in teatro. Nella foga del racconto, ripetè la fatale battuta “Loris amore mio... ” facendo un passo indietro e finendo miseramente a sedere nel mastello pieno d’acqua in cui si immergeva il cuoio. Alzandosi inviperito imprecò: “Dio at manda un toc anc’a la Fedora”. Le risate dei presenti durarono tre giorni.

Agelao Azzolini detto “Giara” e Giuseppe Teneggi detto “Al Giudse” (giudice) erano persone spassose che oltre l’amicizia condividevano l’interesse per il buon cibo e per le feste. Quando c’era il Gran Ballo nel teatro (di cui erano soci), si contendevano l’onore di guidare la quadriglia, così parlavano in francese (lingua sconosciuta ad entrambi). Uno diceva all’altro: “Làsa far a me che te tan se mia al frances”. E l’altro: “Sansé le dam! Alarié”. La gente si divertiva a sentirli battibeccare, erano simpatici, gaudenti, invitati alle sagre più importanti, poichè in loro compagnia il divertimento era assicurato.

“Al Giudse” era mio nonno, chiamato così perchè lo consultavano per aver consigli e pareri. Amava tenersi aggiornato leggendo il giornale o “al föi” come diceva lui. Appassionato cacciatore con poca fortuna, quando raramente capitava che prendesse una lepre, la sistemava nella cacciatora con le zampe bene in vista. Chi lo incontrava gli si rivolgeva così: “Giudse dua l’iv cumprada cla levra lè”?. Questo per dire quanto poco si fosse abituati a vederlo con il carniere pieno. Il nonno cantava anche molto bene ed è da lui che ho imparato l’amore per l’opera lirica e per le romanze ottocentesche.

“Franschin al barber”, invece, era soprannominato “mignin scureza”. Petomane incallito, rumoreggiava ovunque senza ritegno. Una volta gli dissero: “Che tromba”! e lui di rimando: “Cusa vöt pretender da un cûl, la marcia reale”?

Il Caffè della Zelinda era l’unico di via Veneto, molto frequentato dalla gente del posto. La Zelinda era alta e grossa ed aveva sempre il sigaro tra le labbra. A quel tempo la macchina per fare il caffè espresso non esisteva, così la Zelinda risolveva con una grossa caffettiera tenuta costantemente sul fornello e quando doveva versarlo, vi immergeva un dito per saggiarne la temperatura e diceva: “Sè sè, al va ben”.

Ambrogio Pinna, invece, era un sardo capitato a Castelnovo per caso, faceva il calzolaio, era un attaccabrighe matricolato, preso di mira dai monelli locali. Si arrabbiava davvero ai loro scherzi e soleva dire: “In che paese son capitato, io che discendo da nobile famiglia”! E puntualmente ecco comparire la satira, di cui ricordo solamente questi versi:

“Partiva dall’isola un capraio,
verso l’azzurra costa di Marsiglia,
lasciando là l’ovile, il letamaio
e l’asino nobile fratel della famiglia”.

Altro personaggio era “Pipetta”, un omino magro sempre su di giri poichè carburava a lambrusco. Sua moglie Luigina era una brava donna che, oltre a crescere i figli, andava di casa in casa a fare il bucato per arrotondare le scarse entrate familiari. Tutto questo non impediva a Pipetta di dargliele di santa ragione quando era ubriaco. La cosa era risaputa, così un giorno il notaio, incontrandolo, gli disse: “Perchè trattate male vostra moglie che non lo merita”? Rispose Pipetta: “C’al staga a sentir dutur, in quanto alla Luviginazione ci penso io e lei stia sul suo piè”. Modo piuttosto pittoresco per dire “si faccia gli affari suoi”.

Sotto il voltone abitava “Anslet”, ciabattino in un piccolo bugigattolo dove lavorava da mane a sera. Ogni mattina passavano di lì due pie sorelle che andavano a Messa all’oratorio e, fermandosi, gli domandavano: “Anslet, saiv che sant l’è incö”? “Incö l’è San Biagio” rispondeva, e loro: “Suvra a cus el”? e lui: “Suvra al mal ‘d gula”. Oppure: “E’ Santa Lucia” e loro: “Suvra a cus ela”? e lui di rimando: “Suvra ai occ” e così per ogni giorno dell’anno. Una volta però, forse stufo della solita domanda, rispose: “Incö l’è Sant Oss Sacre” e loro: “Suvra a cus el”? e Anslet: “L’è suvra al cül”. Immagino che da quella volta le pie donne non lo avranno disturbato più.

Porta Martana e via degli Orti sono senza dubbio le vie più antiche di Castelnovo, poichè proseguivano verso i paesi più lontani. Ai tempi del Duca di Modena, via degli Orti era presidiata dagli armigeri e il voltone d’accesso alla sera veniva chiuso. Anche i palazzi che vi si affacciano sono molto antichi, specialmente quello abitato dalle suore che, per tanti anni, è stato sede dell’asilo e di molte altre attività per la gioventù di quel tempo. Era (ormai è stato demolito) una bella costruzione in sasso, con grate in ferro battuto e grosse travi esterne di sostegno in legno finemente lavorato.

E’ davvero un peccato che nessun ente si sia preoccupato di salvaguardarlo. Al suo interno, oltre ad un bel cortile, c’era un grazioso teatrino nel quale, in diverse occasioni, si svolgevano recite e feste parrocchiali. All’epoca del cinema muto, la domenica vi si proiettava un film e don Ferretti, parroco di Cagnola, vegliava sul pubblico... Quando gli attori si scambiavano un bacio, nel silenzio della sala si udiva la sua voce che diceva: “Fratello e sorella”! Secondo don Ferretti erano scene troppo osé (se ci fosse oggi poveretto!). La visione di questi film era una delle poche occasioni di divertimento a quei tempi. Un’altra era rappresentata dalla festa di S. Pancrazio, patrono del paese. Ogni anno, a maggio, per celebrare il patrono a cui era dedicato un oratorio, gli abitanti della parte vecchia del paese si ritrovavano sulla pineta di monte Castello per consumare la merenda a base “ed brasadela e scarpasun”.

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Ho descritto alcuni personaggi tipici del centro storico: quelli che ricordo e quelli dei quali ho sentito raccontare e che hanno colpito la mia fantasia giovanile facendomi sorridere e divertire.
Quando ricordo quel tempo lontano non posso fare a meno di rimpiangere la genuinità e la semplicità delle persone d’allora. La solidarietà tra gli abitanti del borgo era tangibile. Oggi non conosciamo nemmeno chi abita di fronte a noi. Ma si sa, i tempi evolvono e nel nostro correre quotidiano non c’è tempo per gli altri nè per sorridere di facezie come quelle che ho ricordato, che sono ormai parte di un tempo lontano come lontano è il tempo in cui mio nonno “Al Giudse”, socialista convinto, nonostante i mezzi fossero limitati, invitava a pranzo persone per intrattenerle, poi, con comizi sull’uguaglianza, la libertà e la pace.
Termino questi ricordi con le parole che “Al Giudse” proferiva prima di iniziare a parlare: “ALZATEVI O VOI CHE SIETE PICCINI”.

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NOTA
Diverse persone sono state menzionate coi “soprannomi” con i quali, generalmente e pubblicamente, erano conosciute e chiamate. Mi scuso anticipatamente e sinceramente se ciò potrà ferire la sensibilità di qualche discendente, ma ho voluto narrare le cose com’erano e col nome che avevano.

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La redazione desidera ringraziare la Signora Prati per avere messo gentilmente il brano a disposizione nostra e dei lettori.