Si era svegliato all’improvviso, in quella stanza che non gli ricordava nulla. I raggi del sole erano penetrati dalla finestra illuminando il suo viso, interrompendo un sonno ristoratore che andava avanti dalla sera precedente. Aveva dormito profondamente, come gli era capitato di rado, come se di colpo si fosse iterrotta la corrente che animava il suo vivere quotidiano. Le sensazioni, le ansie, i piccoli pensieri che lo accompagnavano in certe notti che non finivano mai, si erano sciolti, cancellati da un vuoto profondo e rigeneratore.
La mente era sgombra nel totale silenzio che lo circondava, nonostante quel torpore avvolgente che ancora lo invadeva e gli faceva tirare le lenzuola su di sé. Scostò il capo di lato per portarsi fuori dal fascio di luce diretta e potere vedere all’esterno.
Vedere fuori di sé, fuori, nelle sconfinate praterie della mente, dove spesso si trovava a percorrere viaggi avventurosi e malinconici. Socchiuse un poco le palpebre per vincere l’intensità della luce.
Dalle tendine color rosa si intravedeva la sagoma di un monte che si ergeva sopra i tetti delle case, una grande macchia verde che dall’alto dominava maestosa. Seppure in ombra, si distinguevano le prominenti chiome di castagni e di ciliegi selvatici che degradavano verso il paese. Una teleferica artigianale, che si calava a picco verso il basso fra le fronde degli alberi, stava trasportando piccoli bidoni di metallo che scivolavano lentamente, sparendo poi alla vista.
Riccardo si mise a sedere sul letto. Nella specchiera appoggiata sul comò tardo liberty posta di fronte vedeva la sua immagine riflessa, un giovane viso assonnato sotto un’abbondante chioma biondiccia e spettinata. Che cosa ci faceva lì? Forse si era voluto mettere alla prova, lui che fino allora era sempre vissuto a rimorchio di altri, che non aveva mai rischiato niente di suo. Una piccola avventura o una grande avventura, secondo i punti di vista, sicuramente qualcosa di diverso.
La stanza era bassa ma accogliente, arredata in modo semplice, un lavabo di marmo grigio dai contorni smussati era posto vicino a una piccola comoda dall’età indefinita. Da una delle travi di legno del soffitto un ragno tesseva la tela, si faceva dondolare come un acrobata, abbassandosi verso il letto, per poi risalire velocemente.
Si ricordò di essere in uno dei due piccoli alberghi del paese di Vetto, sull’appennino reggiano, dove aveva trovato alloggio la sera prima, proveniente da Milano.
Il rumore di uno sciacquone gli rammentò la presenza di altra gente che si stava alzando, anche se lui non aveva proprio voglia di muoversi. Tese l’orecchio, un mormorio festoso che proveniva dalla strada sottostante mascherava il cinguettio dei passeri che saltellavano sul tetto di fronte.
Il viaggio sul servizio pubblico non era stato dei più comodi su quella grande Fiat carica all’inverosimile di persone, di valige e cartoni piazzati su un portapacchi gigante. L’autista era stato però molto cordiale, sotto quel berretto a visiera che non si toglieva mai. Era una persona dall’aspetto bonario, con un paio di baffetti che ornavano un viso tondo, che lasciava trasparire una certa età e un carattere allegro e tranquillo. Nulla sembrava distoglierlo dal suo fare calmo e pacato e dalle sue certezze. Era appena giunto dal paese, una spola che faceva tutte le settimane, a supporto dei tanti conterranei presenti in città per lavoro. Fungeva anche da corriere, trasportando i prodotti della sua terra, col parmigiano reggiano e i salumi viaggiavano anche tante novità e pure un poco di nostalgia.
Sarebbe ora ripartito con quel carico di umanità, di bagagli e di sensazioni, per un altro ritorno verso casa.
Il viaggio era iniziato nella tarda mattinata da Corso Sempione, nel traffico caotico della città, fra rumori di clacson e di automobili che rombavano veloci al verde del semaforo. Avevano proceduto lentamente, facendosi spesso di lato, incoraggiando i sorpassi per intralciare il meno possibile. Lo scampanellare di un tram che chiedeva strada aveva poi fatto comprendere a Riccardo che il viaggio, vista la velocità di marcia, non sarebbe stato di breve durata.
Alti palazzi dalle vetrine colme di mercanzia scorrevano davanti ai suoi occhi in tutta la loro imponenza, fra viali alberati che ogni tanto diffondevano il profumo dei tigli e della bella stagione. Il saluto di un mondo frenetico che stavano lasciando alle spalle, così grande e caotico, ma pieno di opportunità. “VOTA PARTITO SOCIALISTA ITALIANO”, stava scritto sopra a grandi manifesti che sparivano veloci.
Fuori città si erano trovati subito sulla via Emilia, dietro ad un camion dal cassone coperto da un telone cerato carico di cassette vuote di frutta. La strada diritta si infilava fra caseggiati grigi e fumosi pieni di gente indaffarata, costeggiava alte costruzioni colorate che stavano sorgendo per annunciare forse l’arrivo di un’epoca nuova.
Andrea, così si chiamava l’autista, aveva cominciato a raccontare, con dovizia di particolari, un episodio divertente e un po’ boccaccesco che aveva causato un certo scalpore in paese, una storia di finestre scavalcate e di pantaloni strappati dal filo spinato, nel buio della notte. Aveva poi estratto dal taschino un biglietto piegato con cura, il testo della relativa satira che buontemponi avevano nottetempo diffuso. Lo porse a Riccardo. “Leggi un po’ qua, ma guardate che cosa hanno scritto!” Per fortuna che si trattava di un italiano maccheronico e non dialettale, facile da esternare. Una sottile e calda ilarità si era diffusa all’interno dell’abitacolo, mentre l’automobile rollava sugli avvallamenti del terreno come un antico veliero. Il traffico era aumentato.
Ci fu l’occasione per una prima sosta dopo Lodi, una fermata strategica, “per spendere acqua” e per uno spuntino. Erano entrati in un una vecchia osteria lungo la strada, un ambiente familiare dai muri anneriti, dai tavoli e dal bancone di formica verde. Avevano ordinato salame rosa e gongorzola. La comitiva, oltre loro due, era formata da una donna anziana e da due signore grassottelle di mezza età che dovevano tenere a bada due bambini che sul sedile posteriore dell’auto fino allora avevano fatto il finimondo, nonostante le reprimende continue. Era un’allegra comitiva, uno schiamazzo festoso che rimbombava nel locale dalle finestre ad arco consunte dal tempo.
L’oste aveva salutato Andrea come sempre, come faceva tutte le settimane da diversi anni, durante questa fermata quasi rituale. Erano stati compagni d’arme durante la guerra, ma preferivano parlare d’altro, di traffico, del tempo e di buon vino. “Senti un po’ questo, viene da Broni, dal podere di mio cugino!”
Dopo un pasto veloce si ritrovarono di nuovo tutti in vettura. La bonarda aveva lasciato un segno evidente sugli angoli della bocca di uno dei due pargoli, due baffetti alla Salvator Dalì che avevano provocato una fragorosa risata.
Avevano ripreso il cammino lungo quella strada della pianura padana che portava verso Vetto, in quella giornata di giugno della metà degli anni sessanta. La calura si faceva sentire mentre l’automobile procedeva lentamente, quasi a fatica, sorpassata da veicoli che sfrecciavano vicini per poi svanire nel nulla.
Riccardo stava pensando al tempo dei lunghi viaggi sulla diligenza trainata dai cavalli, quando la stanchezza e il senso dell’avventura andavano di pari passo e le distanze sembravano infinite. Si lasciava cullare dal ronzio del motore e si sarebbe volentieri assopito.
Ma furono sul ponte del Po, sul grande fiume che scorreva placido nella sua immensità, una bellezza chiara e trasparente che incuteva un poco di paura. Sulle sue sponde si intravedevano giovani bagnanti che affondavano i piedi nell’acqua, all’ombra di pioppi verdeggianti sulla rena fine trasportata dalle piene primaverili. Si fermarono per rimirare da vicino questa meraviglia della natura. “GELATI ELDORADO” riportava il chiosco posto sulla golena, era circondato da giovani in costume e rimirato dall’alto con invidia dai bambini scesi dall’automobile.
Il viaggio era ripreso sul territorio emiliano, dominato dalla vasta campagna che si perdeva alla vista lungo quel nastro d’asfalto che la squarciava a metà, fra case, campi di grano, paesi e prati infiniti.
Fiorenzuola e poi Fidenza, il bivio per Fontanellato con la sua Madonna e gli aneddoti di Andrea. Si fermarono a Parma per il rifornimento di carburante e una rifocillata, mentre qualcuno già sentiva aria di casa. “Ste un po bun, ragaset, chi sem quasi arivaa!“ sbottò Andrea in dialetto Vettese. Era ormai un’impresa ardua trattenerli in quella gabbia di ferro,non bastava più dondolarli sulle ginocchia fra una filastrocca e l’altra. ”La Marièta dal Burcal la gà un bus in t’al grumbiàl, l’ag n’à iun, du, tri, quatre, l’ag n’à iun cà fà miràcle…”
L’aria fresca del fiume Enza sul ponte di San Polo fece uscire Riccardo dal torpore che lo aveva attanagliato fin dal primo pomeriggio. Era quasi il tramonto, il sole illuminava ancora i castelli di Rossena e di Canossa che da sempre si ergevano a guardiani della valle, testimoni di antichi splendori, mentre a sud lassù in alto il monte Ventasso indicava il cammino verso l’arrivo.
La strada per un tratto aveva costeggiato il fiume, per poi cominciare a salire tortuosa e a strapiombo sui fianchi della montagna, lasciando solo alla vista più in basso un rigagnolo trasparente che scorreva solitario fra il biancore di sassi smerigliati e macchie di vimini. Ai lati alte file di acacie dai grappoli argentei diffondevano un intenso profumo che penetrava dal finestrino col turbinio dell’aria. Boschi, prati e ancora boschi, di quercia, di carpino, di castagno, fin dove la vista poteva vedere, un verde dalle tonalità diverse fra gli alti muri di sasso della scarpata che sorreggevano la montagna come giganti di pietra.
Giunsero alla meta prima dell’ora di cena. Il paese era comparso all’improvviso, dopo una serie di curve a picco sull’Enza, un misto un po’ casuale di vecchie e nuove costruzioni ai lati della strada. Ad attenderli sulla piazza del municipio diverse persone, fra cui il suo amico Renato, coetaneo conosciuto l’anno precedente in piazza del Duomo. Che gli aveva parlato in termini entusiastici di Vetto, della bella estate piena di gente, tanto da convincerlo a questa avventura in campagna, in una nuova stagione tutta da vivere.
Riccardo era sceso dall’automobile un po’ frastornato, fra la concitazione dei presenti e lo smistamento delle valige. “Vedrai che non ti pentirai!”, aveva detto Renato salutandolo.
Articolo molto bello e ricco di particolari. Complimenti al sig. Fiori. Gradirei sapere se è un articolo singolo o se fa parte di un libro o di una raccolta. Grazie.
(Mariuccia)
Sei fantastico!!!!!
Basta leggere e chiudere gli occhi e… c’è tutta l’emozione della tua sensibilità! Bravo e continua!
(Gio)
Come mi ricorda i miei viaggi e lo scorrere di quelle strade e dei paesi ancora semplici e innocenti…
(sg.i)