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Elda racconta: parliamo ancora di bambini

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Dei bambini di una volta, i così detti “umèt” ometti per l’aiuto che davano in famiglia.

Stavolta non è farina del mio sacco, tutto questo l’ha raccontato un signore che ha passato parte della sua vita sulle montagne della Val D’Enza, ma da molti anni abita lontano.

Anche lui come gran parte delle persone anziane, vive di ricordi e di una velata nostalgia.

Parla spesso dei suoi nonni che vivevano sulle alture del monte Faillo, che personalmente ho solo una vaga idea di dove si trovi.

Ultimamente mi ha mandato questa storia, che poi è la sua storia di quando era bambino e sono rimasta colpita dalla somiglianza con la mia vita, che vi ho raccontato parecchie volte.

Lui racconta:

Nei primi anni sessanta, ma anche anni prima la mia infanzia l’ho trascorsa a casa dei nonni.

Loro aiutati da due mucche, lavoravano un appezzamento di terra sul Monte Faillo di Vetto d’Enza, per loro come per tanti contadini in quel tempo, le mucche, erano una risorsa a 360 gradi.

le mucche dei nonni riprodotte in un plastico

Quelle bestiole, sì perché anche se grandi e grosse, io le ho sempre considerate così, perché mi facevano tenerezza, quando vedevo che rigorosamente affiancate, aravano i campi trainando dei pesanti aratri, a un vomere solo, in legno o in ferro, trainavano carri di letame, di foraggi, di acqua.

Sì in poche parole facevano i lavori più umili e faticosi che in quegli anni i contadini dovevano svolgere, prima dell’arrivo dei famosi mezzi motorizzati i così detti “trattori”.

Un’altra loro importante risorsa era il latte, ogni mattina presto e ogni pomeriggio sul tardi con pazienza, si lasciavano mungere, in quegli anni l’uso delle mungitrici era ancora raro, magari si trovavano nelle grandi stalle della bassa, sul Faillo ancora non c’erano.

Le mucche, sempre chiamate da me “bestiole” riconoscevano chi le mungeva e non sto dicendo delle stupidaggini, se chi mungeva aveva la mano delicata, stavano ferme e continuavano a ruminare, se la mano era aggressiva agitavano la coda e giravano la testa verso il mungitore come per richiamarlo ad usare più delicatezza.

Io questo lavoro non lo facevo, quando ho iniziato ad aiutare i nonni ero ancora piccolo, ma il mio aiuto penso che fosse prezioso.

Ogni mattina molto presto e tutte le sere, portavo due “basel” di latte appena munto dalla casa dei nonni al punto di raccolta più vicino, dove arrivava un casaro col furgone a ritirarlo e portarlo al caseificio.

Vi chiederete, perché usavo due “basel”? Perché i due secchi di latte munto, per me piccolo e gracilino, pesavano troppo allora ne facevo quattro mezzi e dividevo il peso sulle due spalle.

Era un impegno faticoso, la mungitura veniva effettuata due volte al giorno, tutti i giorni anche quelli festivi e due volte al giorno dovevo percorrere tre chilometri fra andata e ritorno.

Vi dirò che io lo facevo molto volentieri, anche perché il casaro ancor prima di pesare il latte, tirava fuori dalle tasche qualcosa per me: Poteva essere un gommone “caramella morbida ricoperta di zucchero” o qualche pezzo di “tosone” che era il rifilato del formaggio grana che debordava dal contenitore.

Quel tosone oltre a piacermi moltissimo, mi dava anche energia per il cammino di ritorno, perché a metà strada dovevo fermarmi ad attingere acqua da un pozzo, quattro “mezzi” secchi da portare a casa, acqua che serviva alla nonna per fare il pane o cucinare.

A quel lavoro, anche se mi ha tolto il piacere di vivere la mia fanciullezza, io ne sarò eternamente grato, perché mi ha insegnato cos’è la fatica, il sacrificio e la rinuncia. Grazie nonni, vostro Pietro.

Come vedete allora i bambini imparavano presto a rendersi utili era una cosa naturale a quei tempi là, che erano anche i miei tempi e di tanti altri che leggono questi racconti. Bambini che poi nella vita si sono affermati sia nello studio, che nel lavoro e dico grazie a questo signore che pur vivendo lontano, per aver notizie della sua montagna legge “Redacon”.

(Elda Zannini)