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la trebbiatura

Elda racconta: la trebbiatura in montagna

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Mio caro amico, cosa ne pensi, se parlassimo un po’ della trebbiatura?

Lo so, che ne ho già parlato, ma stavolta non voglio raccontare di quella che avveniva nelle grandi aie dei contadini ricchi, per me i ricchi erano i mezzadri che coltivavano campi sterminati.

Voglio raccontare della povera gente montanara, quella che sfruttava ogni fazzoletto di terra, anche gli argini che davano sulle strade e disboscando quel pezzo di terra che aveva vicino a casa e che arrivava a malapena, a tre biolche di terra, perciò seminava quel po’ di “grano” che poteva.

Quest’ultima parola che io ho scritto fra virgolette e quella che ci sfamava durante l’anno e alle volte non bastava.

Si seminava, dopo aver preparato e raffinata la terra a forza di braccia, adoperando anche quelle dei bambini, così diventavano veri adulti in poco tempo.

Si veri adulti, lo ripeto, pieni di forza e buona volontà, con fisici muscolosi, da non paragonare a quelli falsi fatti in palestra al giorno d’oggi.

Ora che come sempre, ho detto come la penso, torniamo alla mia trebbiatura.

Parliamo del grano che col suo oro rallegrava la nostra montagna, che quando raggiungeva la maturità, lo vedevi cadere in terra in grandi mazzi “al manèli” legate con gran delicatezza da mani contadine e come dici tu, mani esperte e sicure che avevano tagliato con la falce ricurva “l’amsura” lunghe spighe dorate, che si riposavano un po’ prima di venire raccolte in covoni.

Voi non avete più il piacere di osservare queste cose, adesso passa la mietitrebbia, molto comoda diciamolo pure, ma allora dov’è andata la bella poesia, la delicatezza del lavoro manuale, i bei canti che uscivano da questi campi dorati.

Tutto ciò è rimasto soltanto nella mente di qualche vecchio e io non voglio che tutto questo vada perso col passare del tempo, allora lo scrivo, così resterà in qualche libro e magari qualcuno fra qualche anno lo ritroverà.

Poi arrivava la trebbiatura, ancora tu mi dici, che sul Monte Faillo, venivi svegliato dal rombo del motore (definito dagli esperti a testa calda) che molto lento si avvicinava all’aia trainando la trebbiatrice, l’imballatrice e un cassone pieno di utensili, sacchi di iuta e combustibile.

Ecco ci risiamo, mi parli di contadini ricchi e di anni più recenti.

Io invece ricordo che il motore trainava solo la trebbiatrice che poi lui stesso l’avrebbe fatta funzionare, mettendola in moto facendo girare una grossa cinghia che li univa.

Io e mio fratello Nilo, l’aspettavamo in piedi sul “montarotto”, prima avevamo fatto il giro dei vicini per avvisarli allora la mano d’opera, come tu stesso lo ammetti, funzionava così (tu dai una mano a me poi io la darò a te).

Caro amico, quanta semplicità e quanta concordia c’era fra la gente di una volta, non esisteva l’invidia, solo aiuto reciproco, meno male che non sono sola a raccontarlo, nessuno mi crederebbe.

Quando vedevamo sto motore che trainava quel gran “cavallo di legno rosso” si io allora la trebbiatrice la paragonavo al “cavallo di Troia”, sapete io quella storia l’avevo letta che ero molto piccola e la mia fantasia già da allora funzionava bene.

Come dicevo, c’era solo lei, niente imballatrice, la paglia la “vomitava” fuori liberamente dalla sua grande bocca e i giovani coi forcati la spingevano vicino a quel palo che mio padre aveva piantato in precedenza per farne un pagliaio.

Così anche il “locco” veniva rastrellato dalle donne e infilato dentro alla baracchina, cercando di farglielo stare tutto, poi nella parte dietro della trebbiatrice, venivano appesi i sacchi bianchi che si riempivano di bei chicchi dorati e lì vicino c’era sempre il padrone di casa che controllava.

Vedi noi avevamo poca terra, portata in eredità dalla mamma che ci teneva tanto era lei e il secondogenito (che non voleva saperne di casse funebri), perciò aiutava la mamma a curare quel po’ di terra.

Certo che quando arrivava il momento di mietere, anche il papà si alzava alle tre del mattino per poter farne un “antone” prima di recarsi ad aprire la sua bottega da falegname. Ti dirò anche, che da brava bambina anch’io cercavo di fare la mia parte, mi avevano fatto un falcetto adatto alle mie mani, come anche tu sai bene, i bambini crescevano in fretta.

Torniamo alla trebbiatrice, tu mi dici che a metà mattina facevate colazione con tagliate di lardo, salame e gnocco fritto, a mezzogiorno poi, su un grande tavolo improvvisato, tortelloni di erbette e ricotta conditi con burro e salvia.

Mica male il tutto, pensa che a casa mia in due ore, due ore e mezza facevano tutto e mentre smontavano la trebbiatrice, allungavano una mano nel cesto del gnocco fritto, mangiavano qualcosa senza perdere tempo, dovevano passare nelle altre case sparse sotto la Pietra, queste poi avevano molto più grano di noi e con la trebbiatrice si spostava anche tutta la manovalanza, mentre mangiava gnocco e prosciutto (quello del nostro maiale) e un fiasco di vino toscano che bevevano a collo passandoselo l’un l’altro.

Caro amico finirò col dirti, che del prosciutto così buono io non l’ho più mangiato, allora me ne davano una sola fetta col pane, ora che potrei permettermi di mangiarne anche un etto da sola, non mi piace più lo trovo insapore, che sia la mia bocca che è invecchiata?

(Elda Zannini)