Un incontro come quello di ieri a Reggio Emilia, sul tema "Coltivare: l'agricoltura contadina" può sembrare, al cittadino medio, tanto pittoresco quanto distante. Ma qui si parla del futuro, del nostro futuro, nonostante l'ambientazione quasi bucolica. L'evento, parte de "La montagna del latte scende in città", ha offerto spunti critici sulla sostenibilità e il ruolo dell'agricoltura nelle dinamiche socio-economiche contemporanee. Jan Dowe van der Ploeg, professore di sociologia rurale e Fausto Giovanelli, presidente del Parco Nazionale dell'Appennino Tosco-Emiliano, hanno dato vita a un dialogo che potrebbe apparire desueto in una società che venera l'innovazione tecnologica e il progresso a ogni costo.
La loro discussione non riguardava semplici piante e animali, ma il nucleo stesso della nostra esistenza sulla Terra: come viviamo, come consumiamo, come sopravviviamo. L'agricoltura contadina, quella stessa che molti di noi considerano un retaggio del passato, è stata esaminata non solo come un'ancora di salvezza per le aree rurali, ma come un modello di sostenibilità, una risposta alla produzione industriale che trasforma tutto in merce, uniforme e priva di anima.
Non parliamo di piccoli orti o di grandi estensioni monocromatiche di mais e soia, ma di quelle montagne che, come ha sottolineato Giovanelli, "sono amiche delle forme e delle modalità di agricoltura che si confrontano non solo col terreno, ma anche con le stagioni, con le pendenze, con l'esposizione dei versanti". Ecco, le montagne non sono solo panorami da cartolina, ma custodi di un sapere che resiste, che si adatta e che continua a insegnarci qualcosa di vitale.
"Agricolture differenziate, quindi, non agricolture standardizzate e sostenibili perché poco industrializzate," continua Giovanelli, dipingendo un quadro dove ogni campo e ogni collina hanno una storia, una specificità che non può essere appiattita o ignorata.
Van der Ploeg ha evidenziato il valore dell'agricoltura contadina per la conservazione della biodiversità e il mantenimento del tessuto sociale nelle aree montane. "In Italia, avete un gran capitale che è l'agricoltura contadina in montagna. Senza questi contadini ci sarebbe soltanto l'abbandono, ma sono loro che continuano a produrre e a mantenere anche la biodiversità."
Forse vale la pena fermarsi un momento a riflettere: e se la vera avanguardia fosse proprio qui, tra queste montagne, in questi discorsi apparentemente anacronistici ma incredibilmente attuali? Forse, proprio in questi angoli di Italia, si nasconde la chiave per un futuro sostenibile. O almeno, così ci piace sperare, perché la speranza, come l'agricoltura contadina, è tenace.
L’udir parole che definiscono le montagne quali “custodi di un sapere che resiste”, nonché fonte e difesa della biodiversità, fa senz’altro piacere a chi è legato ed affezionato ai nostri valori, e alle nostre tradizioni, cui aggiungerei anche l’uso del dialetto, nelle sue tante sfumature, al quale io attribuisco una forte carica identitaria, pur se casomai può far storcere il naso a chi vi scorge invece poco desiderabili e un po’ indigeste tracce di campanilismo (visto come l’anticamera di sentimenti identitari non proprio graditissimi).
Le specificità, anche sul piano di usanze e costumi, sono a loro volta, io credo, la chiave per mantenere “questi angoli d’Italia”, che vedo qui piuttosto apprezzati, al punto di farvi conto per “un futuro sostenibile”, e dal momento che l’agricoltura contadina, pur tenace che sia, ha attraversato, e pare tuttora attraversare, momenti di non piccola difficoltà – basta vedere il crescente numero di terreni lasciati incolti – mi chiedo se questo riconoscimento del suo ruolo giunga ormai troppo tardivo (ma non va persa la speranza).
P.B. 12.05.2024
Come ho già detto nel mio precedente commento, trovo alquanto positivo il richiamo al valore dell’agricoltura contadina, pur vedendolo come un “rimpianto” giunto abbastanza in ritardo, ma non dovrebbe comunque tradursi in ostilità e “lotta” verso l’agricoltura cosiddetta intensiva e standardizzata, in nome di quel saggio realismo che deve farci tener conto del presente e di quanto accaduto in questi decenni, nel corso dei quali parecchio aziende contadine di una volta hanno dismesso la propria attività, per molteplici cause e motivi.
Se tali dismissioni non fossero state compensate dall’ingrandirsi di un certo qual numero delle aziende rimaste operanti, molte produzioni agro-zootecniche avrebbero verosimilmente accusato un forte calo, ivi compresa la filiera del Parmigiano Reggiano, ossia una delle nostre eccellenze insieme alla sua parte casearia, eccellenza che caratterizza anche le zone montane, in una con la pastorizia, e dove presso i nostri Caseifici, un tempo piuttosto numerosi, si alimentavano suini per le pregiate specialità salumiere di terra emiliana.
Questa mia considerazione nasce dal fatto che sento non di rado levarsi voci critiche nei confronti degli allevamenti intensivi – pur se in tale categoria non dovrebbero presumibilmente rientrare quelli montani – ma in ogni caso, al di là dei vari e rispettivi punti di vista, se perfezionamenti vanno casomai apportati a detta modalità zootecnica, occorre a mio avviso procedere con gradualità, perché un sistema in atto da anni, e risultato importante sul piano economico, non può essere rimodulato come se si avesse a girare o invertire un interruttore.
Nella organizzazione rurale dei tempi andati le nostre borgate erano molto popolate, e in ognuna la porta della locale Chiesa di fatto sempre aperta per la presenza del Parroco, mentre oggi quelle porte sono solitamente chiuse in mancanza di Sacerdoti, alla stregua delle porte di tante case non più abitate, e così per le botteghe, a dirci che il “tessuto sociale” , cui si fa opportunamente cenno nell’articolo, ha subito un contraccolpo piuttosto duro, cui non sarà facile rimediare, per ragioni obiettive, nonostante tutto l’impegno che ci si possa mettere nel volerlo fare.
La riforma PAC riportata sulla stampa odierna, dovrebbe agevolare le aziende agricole più piccole, e darà una “boccata d’ossigeno” a quelle rimaste, ma dubito che altre potranno nascere o rinascere, pur se spero di sbagliarmi, e onde evitare che crescano ulteriormente gli incolti punterei intanto sul “contoterzismo”, quanto più possibile semplificato, per il cui tramite poter recuperare alla produzione terreni di chi li ha ad esempio ereditati e, pur facendo altro mestiere, non vorrebbe vederli restare inutilizzati (si può rincorrere il passato ma stando tuttavia coi piedi per terra).
P.B. 14.05.2024