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La Genzianella e la Confessione

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Firmato “Romano di Castel Gottano”. Il giovane muratore posò la cazzuola. L’attenzione scivolò sul disegno calpestato coi piedi. “Proprio come il mio nome”. Prese in mano il foglio dai bordi consunti e ingialliti dal tempo, ma con colori ancora capaci di trasmettere i segni dell’originario desiderio. Con grafia tremante, in basso e al centro una dedica “Per Alide, voce del mio cuore” e, tutt’attorno, il cielo azzurro, una casa in sassi, un prato verde con sullo sfondo una croce. Nulla più. Il giovane si fece pensieroso, dimenticò il lavoro a cottimo. Avrebbe dovuto intonacare l’ufficio del direttore del manicomio dismesso che, a breve, sarebbe stato chiamato ad ospitare l’ufficio del rettore dell’Università cittadina. Dopo l’abbuffata politica sulle prospettive del governo dell’Ulivo da poco insediato, il giornale radio raccontava dei festeggiamenti nel giorno precedente per la vittoria dell’Italia ai mondiali di Germania. O così sembrava. Dai finestroni entrò forte la luce di luglio, col profumo dell’erba e della menta selvatica appena tagliata.

* * *

1954. Aldemiro era giovane del mestiere. Entrò, chiuse con forza la porta, alle spalle rispose il batacchio. Posò la borsa in pelle e la bisaccia accanto al camino che, in una fresca giornata ventosa, profumava l’aria di fumo, si lasciò sprofondare sulla poltrona signorile consunta.

Fuori il sole dell’estate raccontava dei primi brividi e annunciava l’incedere della cattiva stagione. “Nella mia città – pensò il giovane – è ancora tempo di afa”. Le donne avrebbero festeggiato Santa Maria, quasi a volere santificare, con un po’ di riposo, la conclusa fatica della trebbiatura prima della vendemmia. Gli uomini avrebbero ballato al festival, cercando nuovi amori o sognando evasioni con dame danzanti di turno. Ripensò a Rita, la sposa promessa. Dove sarebbe stata a quest’ora del mezzogiorno?

Vall’Enza era un paese uscito dalla guerra. “Ma da noi, alla Bassa, una miseria così non c’era”. Si versò un bicchiere di vino, insolito, per lui, fuori pasto. Nero come i fascisti che qui solo nove anni prima ancora comandavano. Gramo come la miseria sa essere. Ma Vall’Enza era un posto dalle sembianze del Paradiso. E per lui, socialista senza fede, chissà come poteva essere il Paradiso. A metà estate il fiume si faceva più timido e in fondo saliva il vociare allegro dei bambini curiosi nel pescare gamberi, cavedani e nel torturare le bisce d’acqua per la coda.
Ma l’alcol non fece effetto. Né il pensiero di Rita gli liberò la mente. Avrebbe ripreso la condotta più tardi, cercando un riposo pomeridiano che non voleva arrivare.

Il batacchio risuonò con forza. “Dottore, dottore, aprite”. Si risvegliò di colpo. Quanto aveva dormito? Aprì.
Entrando la piccola delegazione di Castel Gottano notò, accanto alla credenza, quell’insolito orologio a pendolo. “Dottore, ci deve proprio aiutare” sentenziò Marco, cinquant’anni e viso scarnato dalla fatica del lavoro nei campi. Il più deciso dei tre. La moglie rimaneva più indietro, ma con gli occhi fissi su di lui, tra le mani una sporta di generi alimentari che preannunciava il compenso. Sullo sfondo impettito stava Alceste, il fratello maggiore putto: sarebbe intervenuto assai presto, lo sentiva.

“Anche quest’oggi Romano è andato in escandescenze. Ha minacciato di picchiare il padre. Ieri sera non ha legato la vacca in stalla dopo pascolo. Ha lasciato libere le capre che hanno devastato gli orti. Sostiene che al mondo tutti dovrebbero essere liberi e spaventa i nostri figli con discorsi strani…”
“E quel che è peggio – lo interruppe Alceste, due baffi alla Vittorio Emanuele, panciotto e orologio a cipolla – è che si è denudato in piazza. Io, questi casi qui li ho visti solo in Valcamonica, quando i più deboli non resistevano al martellare delle cannonate e alle urla di chi finiva dilaniato. E iniziavano chiamare la mamma…”
Aldemiro forse per la prima volta si sentì inadeguato. Aveva studiato l’anatomia e la fisiologia, la patologia e, anche, dissezionato i cadaveri per scoprire il male che c’era dentro. Ma la mente no. La cura dei mali oscuri non era stata oggetto d’insegnamento approfondito. Era una di quelle materie tanto complesse dove, all’Università, non si andava oltre i sommi capi. Poco importava. Lui la condotta di Vall’Enza l’aveva desiderata con tutta la volontà e, ora, il mestiere lo chiamava a un passo più grande delle sue conoscenze.

La moglie di Marco lo penetrò con grandi occhi neri, gli porse la sporta: dodici uova, un cappone già pulito, un buon pezzo di formadio: la questione doveva esser seria. Nervosamente il medico con l’indice si riassettò gli occhialini. Si strofinò i baffetti. Prese il cappello, la borsa e seguì le tre persone.
Salire a Castel Gottano era questione di un paio d’ore e, di buon passo, anche meno. Ma questa volta il percorso non fu breve. L’insolita comitiva procedeva a due a due, Marco e la moglie davanti, Alceste e il dottorino di seguito. Tutti assorti nei propri pensieri, ma Aldemiro più di tutti, come animale condotto al mattatoio e prossimo a sentire l’odore del sangue. Della morte. “Ma sono solo sensazioni”, provò a convincersi.

Il paese se ne stava incollato quasi alla sommità del monte; dal capoluogo, vi si accedeva dalla porta di meridione, dopo una piccola radura. La casa di Romano era la prima a destra. Nemmeno il tempo di arrivare e furono accolti dal disordine sparso degli animali rimasti liberi: la vacca, alcune galline, due caprette, qualche coniglio.

“Toh, il dottorino! Padre guardate. C’è il dottorino che vi potrà restituire la gioventù”. Romano si parò innanzi ad Aldemiro. I tre che lo avevano accompagnato rimasero indietro. Sull’aia i raggi del sole cadevano a sbieco su un’improbabile scena da duello. Il medico del paese e quei bicipiti e pettorali forgiati nel lavoro dei campi, contro i quali sicuramente non avrebbe potuto nulla.
“Come sta vostro padre?” Solo allora Romano si spostò e, in pochi passi, lo accompagnò sull’uscio.

I muri della cucina erano anneriti dalla povertà e dalla caligine. L’anziano signore, con gli occhi gonfi di lacrime, se ne stava accanto alla finestra, seduto con le ultime forze che gli restavano. Alceste lo visitò accuratamente. Romano se ne restò in disparte a ciondolarsi meccanicamente.
“Vedete Romano. Così vostro padre non può stare”.
“E’ vecchio – chiosò lui – e come tutti i vecchi ha da scontare gli ultimi giorni come Dio vorrà”.
“Però può farlo accudire in un ospizio che si curi di lui. Il tremore che gli blocca le mani potrebbe, più a vanti, renderlo infermo. E ne seguirebbero fastidiose piaghe…”
“Morirà, come moriremo tutti”.
“Certo – replicò Aldemiro – ma non per questo dobbiamo morire nella sofferenza. So che non sei sereno Romano e so quanto ti costa. Ma c’è un modo diverso di affrontare la vita…”
L’uomo gli esplose in faccia. “La vita!? Che ne sapete voi della vita? Voi che passate il tempo a dare ai malati cure e speranze, capaci solo di prolungare l’agonia?”.

Aldemiro ebbe paura. Tremò. Romano se ne accorse e, per un attimo, esitò. Si rifece serio. Poi iracondo. Ma infine si ritrasse e iniziò a picchiare, di spalle, la nuca contro il muro.
“Sapete Romano, in paese potrebbe trovare adeguata cura in ospizio. E sarebbe la cosa migliore per i suoi giorni. Riguardo a voi… in città…”
Romano strinse gli occhi.
Il dottore aggiunse con un filo di voce: “C’è una casa dove potreste trovare cura…”.
Avrebbe ora urlato?

* * *

Passarono giorni. Forse settimane. Anzi, era già il tempo della prima brina. Trafelato, a ora di cena, entrò nella casa del medico don Alberio, parroco di Castel Gottano. “Romano si è deciso. Mi hanno avvisato stamane. Lo ho incontrato, ma vuole prima che lo confessi e che saliate anche voi. Suo padre si è aggravato e, comunque, troverà ricovero in ospizio a Vall’Enza. Domani salite?”

Il sole era alto da poco sui monti oltre Bismantova. I due uomini si fecero trovare silenziosi all’ingresso di casa. Romano, li aspettava. Ma quando gli si pararono innanzi s’incupì. Il parroco ristette. Quando ebbe alzato gli occhi, l’omone disse: “Don Alberio, se non vi spiace voglio essere confessato dal dottore”.
Aldemiro era giovane, socialista d’esperienza, quasi mangiapreti, ma con una discreta educazione cattolica ai tempi del regime: sbiancò. Il parroco, invece, pratico della vita e delle stranezze umane, non si fece cogliere stupito dalla bizzarra richiesta. “Sì sì, fate pure. Io salgo a sistemare la chiesa per il vespro di stasera”.

Si sedettero sul tronco innanzi a casa. Nessuno li avrebbe disturbati.
“Non sono un prete Romano. Ma se avete qualche cosa da confessare sono qui. E, vi assicuro, lo ascolterò anche quando scenderò a sincerarmi delle vostre condizioni alla casa di cura in città”.

“Io – esordì Romano dopo attimi di lungo silenzio – non sono più vivo. Sono morto, coi miei compagni, il 26 gennaio di nove anni fa”.
Nikolaevka era un nome letto da Aldemiro più di una volta. Ora, lui, che aveva fatto la resistenza senza sparare un colpo, si trovava a confrontarsi con uno di quelli che erano tornati. Magari stando dall’altra parte. “Ma a che prezzo?” si chiese.
Romano parlò per molto tempo. Un’ora, due o forse più. Partì da lontano. Dai primi amori e dalle prime esperienze furtive nei campi di grano, spaziando alla collera non sempre tenuta a bada nell’osteria del paese, a qualche zuffa di vicinato e all’addestramento del militare. Solo allora arrivò a raccontare dell’ultimo canto degli Alpini. Fu quello intonato attorno al fuoco all’iniziare delle cannonate, oltre il calore nell’isba. Non disturbato dal frastuono dei mortai, nemmeno nell’accordo finale. Poi, in silenzio, l’avvio nella battaglia, assieme ai compagni, fuori al gelo. Con il fucile e la baionetta in canna.

“Martino, il mio compagno di spalle, finì stritolato dai cingoli di un tank russo. Non sono riuscito nemmeno a prendere le sue ultime parole. Ercole vene centrato da una raffica di mitra. Mi chiese di baciare un’ultima volta il suo figlioletto. Ma io non so quasi scrivere… Ho bestemmiato, sa dottore? E molto. Ho visto morire ragazzi senza barba. Per una guerra in cui credevamo. Ho infilzato con la baionetta padri di famiglia. Uno di loro, giovanissimo, lo strangolai. Aveva paura, quasi quanto me: morì guardandomi negli occhi. Ancora mi viene trovare in sogno. Le persone care, gli amici dell’ultimo canto, quelle che ho ucciso. Sono ancora tutte con me. A volte mi parlano… Ma perché tutto questo male?”.

Proseguì con il racconto del ritorno lungo le steppe. Le ultime risse per un posto al caldo nelle isbe. La desolazione sul treno. Le ferite, varcata la frontiera della patria, per quegli italiani che gli sputarono addosso. La diffidenza per gli abitanti del paese natio, che lo guardavano straniti per il mutismo anziché felici perché, lui sì, era ancora vivo. Lo sgomento che leggeva negli occhi di una madre che lo guardava cercando nei suoi occhi quelli del figlio che non era tornato. La delusione per non avere più trovato la donna amata…

Quando fu mezzogiorno il dottore estrasse dalla bisaccia il pane che aveva preso per i due giorni della festività. Sarebbe rimasto senza l’indomani, ma non importava. Romano versò il vino, più buono di quello che poteva compare in paese, perché le vigne di Castel Gottano crescevano su un versante ben esposto e su terreno sassoso. Dividettero il tutto, non prima di averne portato all’anziano genitore in casa. Ogni tanto, dall’orto della canonica in alto, don Alberio scrutava che tutto fosse in ordine. E così era, anche se ogni tanto Romano si alzava. Imprecava. Picchiettava con la fronte sul muro mentre continuava a parlare.

“Io non conosco più l’amore – riprese dopo il pasto – da piccolo, sa, amavo Giuseppina. Quando tornai era andata in sposa a Umberto, il figlio del padrone. Quanto era bella e come ci incastravamo divinamente tra i filari delle viti o nel grano dopo la battitura… Ma non importa. Dopo quello che ho vissuto non sarei più stato capace di amare”.

Fu una delle poche volte che Aldemiro intervenne. “L’amore, Romano, è parte dell’uomo come lo è il male, come lo è la mente, come lo è la ragione. A volte, i tempi e le circostanze, portano a fare prevalere l’uno sull’altro. Eppure l’essenza dell’uomo rimane sempre dentro di noi. E questa è capace di portare il bene, anche in un mare di tempesta. Perché, sempre, dopo la tempesta viene la bonaccia: è così dalla notte dei tempi. Tu sei qui a dimostrarlo. Anch’io, sai, in sogno ritrovo i tedeschi che, con le mie azioni di staffetta, ho contribuito a fare ammazzare. Alcuni assassini, altri Ss, ma alcuni anche padri di famiglia, con l’unica colpa di vestire un’uniforme e obbedire ai comandi… Sai quanto ci penso?”.

Il silenzio d’intorno rese i due uomini sull’aia ancora più vicini.

“Sento ancora l’odore delle budella tra la neve. Sento ancora le urla di notte. Scappo quando ammazzano il maiale. E, ora, dottore, non capisco perché devo ancora respirare. Io sono morto a Nikolaevka, io sono morto quando non ho ritrovato Giuseppina, io sono morto nel male che provo dentro”.
Il dottorino sfidò la sua proverbiale timidezza. Si pose in piedi innanzi a Romano gli prese le mani e disse: “Romano, la vita ci chiama a crescere in positivo e le tue parole sincere dimostrano l’intento di un cuore nobile. Per non distruggere ancora, però, a volte siamo chiamati ad amare noi stessi. Alla scuola del partito, ricordo, ci imponevano di essere buoni socialisti e, prima di tutto, di ‘sentirci vivi noi per fare proseliti’. E se ci pensi è così perché ogni giorno ci sveglia la luce del mattino, respiriamo l’aria, possiamo parlare con le persone e con gli animali… e, quindi, vedere il mondo con una luce diversa”.

“Vede dottore, ho commesso un altro grave peccato”.
“Dimmi Romano”.
“Una mattina ho scoperto che Alceste, il putto mio vicino, aveva un fico che faceva ombra a un fiore nell’orto. Una genzianella nostrana, sa? Come di quelle che vedevamo durante le marce sulle Alpi”
“E che male c’è?”
“Ho chiesto a Marco di spostare il fico. Ma lui non ha voluto”.
“E quindi?”
“Un accidente. Al fico ha preso un accidente. O meglio… gli è venuto male al piede”.
“Sarebbe?”
“Beh di notte ho preso la sega e lo ho tagliato al piede. Ma nel cadere è precipitato sulla genzianella, che così è morta”.
“Ecco vedi? La giustizia divina, se esiste, ha già provveduto. Non hai grandi peccati Romano. Se credi, pregaci su questa notte col rosario, dopo aver messo a letto tuo padre”.

* * *

Negli anni a seguire Aldemiro si specializzò in odontoiatria e visse a lungo a Vall’Enza, scendendo di tanto in tanto a incontrare quel paziente speciale. Divenne assai presto sostenitore della legge per l’abolizione dei manicomi.
Romano non sarebbe mai più rientrato al borgo, ma conobbe Alide, ragazza ricoverata in struttura per aver perso troppo presto i genitori e che, come lui, sentiva voci che nessuno sapeva ascoltare.

Molti anni dopo, in un giorno di luglio del 2006, un giovane muratore posò la cazzuola per rimirare tra le mani un foglio dipinto proprio da Romano. La radio lasciò scivolare via la politica, lo sport e la musica e, per una curiosa interferenza, trasmise al giovane omonimo la voce di un racconto davvero particolare. Era la storia di Romano di Castel Gottano. Al matt d’la Russia, come ancora lo ricordano i più anziani in paese.

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(*) Alcuni ringraziamenti _ La trama del racconto è liberamente ispirata a un fatto realmente accaduto al dottor Primo Morellini di Vetto. L’episodio dell’ultimo canto degli Alpini è una storia vera, citata all’autore da Pasquale Corti, uno che sul fronte russo c’era nel 1942/1943. La parabola della tempesta è tratta da un’orazione di don Eusebio Bertolini, pronunciata in Val Pusteria nel 2002. La storia di Giuseppina, che non aspettò il fidanzato al ritorno dal militare, è comune a quella di tante altre ragazze… tra cui a Enrichetta Ghirardini, zia particolarmente cara a chi scrive, che se ne è ingenerosamente ispirato per rendere più sentite queste righe. A tutte queste persone l’autore intende dedicare il racconto.
Anche l’episodio ‘folle’ del fico e la genzianella ha similitudini con problematiche moderne di vicinato. Ma non vogliate sapere troppo…
(G.A.)

1 COMMENT

  1. Al mat ‘dla Russia
    IN MEMORIA – Nikolajewka (Russia), gennaio 1943.

    Non ho sentito
    la neve arrivare
    eppure era lì,
    solo un passo avanti
    a me
    che mi aspettava
    per farmi, per sempre
    da guanciale.

    da Graziella

    con questa e, in memoria, di qualcuno forse più fortunato del mat ‘dla Russia, ho avuto il Premio speciale Socio A.I.D.O. di un’edizione di un Premio ANA (gr. Lacchiarella, MI) nel 2003. L’ho ricordata leggendo il racconto e mi è venuto spontaneo usarla come ringraziamento al racconto stesso.

    (Graziella)