VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
(Sir 15,16-21Sal 118; 1Cor 2,6-10; Mt 5,17-37)
RIFLESSIONI dalla Lectio Divina
Nella prima lettura verte sul significato autentico del digiuno. La mentalità ebraica antica lo intendeva come un segno per manifestare la fede, quasi fosse una preghiera a Dio; ma il profeta Isaia chiarisce che digiunare non significa tanto non mangiare, quanto «dividere il pane con l’affamato», «introdurre i casa i miseri, i senza tetto», «vestire uno che vedi nudo». In altri termini, il digiuno dev’essere una testimonianza di carità verso i fratelli, una luce che squarci la tenebre che ci impediscono di vedere le sofferenze altrui.
Nella seconda lettura l’apostolo Paolo ci insegna un altro importante concetto: per essere testimoni efficaci non dobbiamo confidare nella «sapienza umana», ma nella «potenza di Dio», cioè la sua sapienza, il timore verso di lui, la misericordia verso il prossimo.
Il brano del vangelo odierno appartiene al discorso della montagna, il primo sermone pubblico di Gesù. Dopo aver enunciato le beatitudini, il Signore definisce i suoi discepoli «sale della terra» e «luce del mondo». In queste immagini, che sono un invito a non isolarsi ma a vivere appieno nel mondo, sono racchiusi diversi significati che gli ascoltatori di Gesù coglievano subito e che noi dobbiamo approfondire.
Cosa significa essere sale? Innanzitutto, il sale è ciò che dà sapore alle pietanze; in questo contesto il sale è ciò che dà sapore alla vita, ovvero la sapienza, il timore di Dio (cfr. Mc 9, 50; cfr. Col 4, 6). Il dono del sale è inoltre qualcosa di prezioso, che rende gioiosi; nell’antichità il sale era perfino usato per calcolare la paga dei soldati (da cui la parola “salario”). Non solo: all’epoca il sale era usato come conservante per mantenere i cibi commestibili nel tempo; essere sale della terra significa in quest’ottica prendersi cura del mondo, contrastare la corruzione del peccato e conservare attraverso una testimonianza coerente il valore della vita, la dignità e la sacralità dell’uomo. Ancora, nell’Antico Testamento il sale era un simbolo di purificazione con cui Dio sanava il popolo (cfr. 2Re 2, 19-22): essere sale vuol dire quindi purificare il cuore dei fratelli attraverso azioni di santità, di bene, di amore. Ad ultimo, il sale era simbolo di alleanza perpetua tra due parti, per estensione anche tra Dio e i suoi fedeli (cfr. Lv 2, 13): allo stesso modo, la vita dovrà essere un’offerta in cui, attraverso l’amore, rendere presente l’alleanza tra Dio e gli uomini. Tutti questi significati si applicano perfettamente alla figura del cristiano autentico, a cui noi dobbiamo aspirare: se non saremo in grado di dare sapore alla vita dei nostri fratelli, di purificare il mondo, di essere testimoni dell’amore, semplicemente non potremo definirci discepoli di Cristo; saremo come sale che avrà perso il sapore, «utile solo ad essere gettato via e calpestato dalla gente».
Secondariamente Gesù ci invita ad essere «luce del mondo». La luce è stata la prima creatura con cui Dio ha iniziato a mettere ordine nel caos primordiale (cfr. Gn 1, 3); inoltre ha accompagnato il popolo di Israele nell’uscita dall’Egitto (cfr. Es 13, 21-22); infine l’evangelista Giovanni la associa alla figura di Cristo stesso (cfr. Gv 1, 4-5.9). Essere luce significa perciò illuminare il mondo riflettendo la vera luce di Gesù, dando agli altri ciò che noi per primi abbiamo ricevuto in dono da Dio. Ma attenzione: il vangelo non sta invitando a cercare l’azione sensazionalistica per metterci in mostra davanti ai nostri fratelli a tutti i costi; al contrario, ci chiede di portare luce «a tutti quelli che sono nella casa», ovvero nella nostra quotidianità. La nostra testimonianza di Cristo è sufficiente anche nei gesti piccoli, di autentica e umile vicinanza al nostro prossimo. Diventiamo quindi sale e luce, per rendere tutto il mondo un luogo luminoso e pieno dell’amore di Dio.
Buona domenica