C’era una terra dove, 70 anni fa, la lingua prevalentemente parlata era il dialetto, in alcune enclave anche sino a 20 anni più tardi. L’avvento della lingua italiana, però, lo ha via via scalzato, lasciandolo a lingua residuale, parlata dai più anziani, capita da alcuni giovani, diffusa ancora negli ambienti rurali.
Ne parliamo con l’esperto di dialetto, Savino Rabotti, 87 anni, che mercoledì 28 dicembre, a Vetto, presso la sala polivalente alle ore 16, presenta “La mia nonna mi diceva…”, filastrocche, indovinelli, battute, preghiere popolari raccolte nella Valle del Tassobbio. Conduce chi scrive.
Savino lei per altro gira per le scuole a parlarne: che idea si è fatto, a fine 2022, di quanto resta di questa lingua in Appennino?
“Resta poco perché viene contaminato dalla lingua moderna, dalla pronuncia non esatta di chi vi si cimenta, a volte scherzosamente, dalla mancanza di interesse. Il dialetto è ancora diffuso gli anziani, ma anche tra le diverse compagnie di teatro popolare, oltre che tra alcuni ricercatori e su alcuni siti – tra i quali www.lavocedetassobbio.it a cura dello stesso Rabotti -”.
Perché ha ancora senso a interessarsi allora di una lingua che pare sia destinata a esaurirsi?
“Proprio perché è una vera lingua. È stata ed è ancora una lingua completa. Consente di comunicare tra i parlanti; ha una grammatica; ha un bagaglio letterale molto ricco; ha una consistente produzione letteraria; nasce dal latino e precede le lingue nazionali neolatine; tra abitanti di paesi vicini caratterizza le differenti zone”.
Oltre a questo ha altri valori?
“Certo. Pensiamo ai valori morali che il dialetto ha distribuito alle persone, per sempre. Lo ha fatto con le filastrocche per i bambini, con la satira, con la poesia che oggi è molto sentita. Poi, con l’ironia o gli stessi proverbi e racconti preserva valori sociali come la collaborazione tra persone, il rispetto reciproco, la solidarietà. Insomma, aiuta l’uomo e la società a migliorarsi”.
I dialetti si differenziano da comune a comune, a volte anche di vallata in vallata. Quali sono le caratteristiche del dialetto del Medio Appennino in genere, e di quello della Valle del Tassobbio che lei ha approfondito?
“C’è molta varietà di dialetti in Appennino. In generale, qui potremmo dire che i dialetti sono più chiusi, sintetici, più essenziali rispetto a quelli della città. Nel Tassobbio tendono a diventare più nasali, con il gruppo ‘an’ che tende a perdere la ‘n’ alla fine delle parole (Toano che si pronuncia Tùan). La mancanza della ‘z’ (che diventa ‘s’ sibilante: es. zona diventa ‘sona’). C’è una singolare particolarità: il Tassobbio è rimasto molto isolato fino agli anni Settanta, in assenza della strada, e quindi qui c’era meno contaminazione della lingua italiana o di altri dialetti. A Vetto e Cola o a Marola questi influssi arrivarono ben prima”.
Lei ritiene ci sia un modo per contribuire alla sopravvivenza della nostra “lingua madre”?
“Spero che diventi soprattutto materia di studio. C’è già gente che si impegna in tal senso trascrivendo e raccogliendo testimonianze anche raccogliendo il sonoro. Cito a tal proposito i lavori di www.lenguamedra.org che collabora con l’Istituto per la Salvaguardia del dialetto che ha sede ad Albinea. Si preserva il dialetto studiando le testimonianze sotto ogni possibile aspetto. Io mi sono impegnato in tal senso con la raccolta e pubblicazione di testi e del Vocabolario Dialettale del Medio Appennino reggiano, per mettere il materiale a disposizione dei ricercatori. Lo si potrebbe anche proporre come materia di studio nelle scuole, in tal senso faccio un appello ai dirigenti scolastici e agli insegnati. È importante, soprattutto, che i nonni possano trasmettere questa lingua ai più piccoli. A Toano ho trovato interesse tra i bimbi delle elementari: avevano nonni che parlavano dialetto.”.
SAVINO RABOTTI
Savino Rabotti, pluripremiato a concorsi locali e nazionali di poesia dialettale, è autore di diverse opere per la conservazione e conoscenza del nostro dialetto:
IL PROFUMO DELLA MIA TERRA (2003). Ricerche sul mondo contadino di un tempo, sotto forma di almanacco;
CANZONI POPOLARI (2007). 254 testi di Canzoni popolari, cantate nell’Appennino Reggiano, e LUNGO L’ENZA – Canti, racconti e ...Trio Canossa (2009). Le canzoni erano in dialetto o in un italiano vicino al dialetto, e costituivano la colonna sonora della vita.
VOCABOLARIO DEI DIALETTI DEL MEDIO APPENNINO REGGIANO (2010): interessa la fascia centrale della montagna di Reggio Emilia (Vetto, Castelnovo, Carpineti, Casina, Canossa). Sono quasi 20.000 lemmi, più di 5.000 proverbi o modi di dire, e c'è l'etimologia della parole principali. È stato il primo vocabolario dialettale della montagna, e uno dei primi ad inserire l'etimologia.
AL SAVER D'I NOSTER VE-C – (2018) - Provebi della valle del Tassobio.
LA MIA NONNA MI DICEVA – (2021) - Filastrocche, indovinelli, preghiere
A queste pubblicazioni posso aggiungere la collaborazione con Tuttomontagna, Redacon, La Strenna degli Artigianelli con numerosi articoli sul dialetto o sulla storia locale.
Caro Savino ho letto con interesse, come sai sono un’amante del dialetto
e lo scrivo così come lo parlo da tutta la vita, naturalmente sbagliando
il mio è “al dialett ed la Preda” diverso da quello “ed Castalnov” per es:
Mangiare qui è “magnar” in paese è “mangiar” come vedi già italianizzato
Complimenti Elda
Elda, con mezzi diversi e su strade diverse stiamo puntando alla stessa meta: salvare i valori sociali di una lingua ormai abbandonata. Qualche cosa si sta movendo in questo senso, con diversi gruppi di appassionati. L’operazione serve a salvare la sostanza del messaggio dialettale, le piccole differenze tra borgo e borgo non sono un ostacolo. Coi nostri pochi mezzi qualcosa abbiamo fatto anche noi. Auguri di un nuovo anno felice.
Mi ricordo che negli anni sessanta, alle elementari, chi parlava in dialetto veniva punito. Il dialetto è stato sacrificato sull’altare dell’omogenizzazione culturale, della nazionalizzazione forzosa del linguaggio e della comprensione della burocrazia: era importante che tutti gli Italiani capissero e compilassero la modulistica “ufficiale”. In pratica il dialetto era considerato un ostacolo alla comprensione delle disposizioni “superiori” . Adesso siamo andati oltre con i termini Inglesi. E’ con affetto e stima che riconosco in Savino una passione veramente forte, sentita, genuina. Avrei voluto dire queste cose in dialetto, ma non ne sono capace. Forse il suo dizionario del dialetto della collina Reggiana mi avrebbe aiutato. Spero inoltre che, con la sua testimonianza, Savino stimoli i giovani a riprendere l’uso del dialetto e che questo non sia considerato un difetto, ma un segnale di appartenenza, di identità e condiviso patrimonio da salvaguardare. Gli inoltro, tramite Redacon, i miei più sentiti auguri di un sereno e produttivo 2023. C.V.
Sono anch’io dell’dea che il dialetto preserva ed ispira “valori sociali ….”, oltre a farci riscoprire un po’ di ironia, che io vedo come molto salutare, stante la odierna eccessiva tendenza a “prendersi troppo sul serio”, il che a sua volta rende anche più difficile il nostro rispettivo rapportarci (quando la vita di una comunità ha invece bisogno di sapersi relazionare con una certa qual naturalezza e fluida spontaneità).
Il dialetto mi sembra poi essere un indubbio fattore di identità, al punto che ”tra abitanti di paesi vicini caratterizza le differenti zone”, e dipende fors’anche da questa ragione il fatto che non sia stato incoraggiato da parte di quanti non simpatizzano per il senso di appartenenza e per i sentimenti identitari, preferendovi l’omologazione (e bollano come indesiderabile provincialismo tutto ciò che risuona di identità).
P.B. 27.12.2022
Ritorno sull’argomento, che considero meritevole di attenzione – come già dicevo nel precedente commento – per aggiungere che non mi convince granché l’ipotesi di far diventare il dialetto “materia di studio nelle scuole”, poiché ritengo che il dialetto appartenga per sua stessa natura alla insostituibile “cultura popolare”, sia cioè tale da dover essere appreso gradualmente e spontaneamente all’interno della propria famiglia, e della propria comunità (pur se in entrambe dette “sedi” si è andato effettivamente perdendo col trascorrere del tempo).
A meno che il renderlo materia didattica sia da intendere quale strumento per riattivare e stimolare – all’interno della nostra società, e specie tra i giovani – un interesse che si era mano a mano smorzato, alla stregua dell’attizzare un fuoco contro il rischio che vada a spegnersi, ma la “culla” naturale del dialetto – dove impararlo, assorbirlo, e custodirlo – a me sembra essere giustappunto il combinato famiglia e comunità in cui cresciamo (anche perché soltanto qui nascono quelle sfumature e tonalità che conferiscono la “varietà” e pluralità tipica del dialetto).
A parte quanti nel corso degli anni hanno meritoriamente cercato di mantenere vivo l’uso del dialetto, e che ora possono dirsi soddisfatti nel veder allargata la platea dei suoi decantatori o “celebratori”, tale platea mi sembra oggi comprendere anche taluni – casomai saliti sul “treno in corsa” – che hanno sempre banalizzato, se non misconosciuto, altri valori tramandatici, in una col dialetto, dalle passate generazioni, come se il patrimonio valoriale fosse “spacchettabile”, mentre io credo sia un tutt’uno (e spero se ne convinca anche chi è di diverso avviso).
P.B. 28.12.2022
P.B.