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Il vecchio mulino

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Salve, viandante.  Un attimo ristai
ove fanciullo pascolai il gregge.                                                     
Ancor odo le risa ove giocai
fra selve ispide, metati e tegge.
Spira sentor di muschio e di ontani
la ripa ombrosa ,  povera di raggi.
Ore felici, vago del domani,
pago d’un fungo, di cerese o baggi.
Sepolta giace l’antica ‘Mar’mana’,
la via petrosa che portava al mare
gli armenti, oltr’Alpe e la Garfagnana.
Sulla riva  non senti risuonare
la mola che il sudor mutava  in pane.
Un umido silenzio fra le sponde,
un senso di tristezza qui permane,
un flauto  desolato si diffonde.
Solo persiste il murmure dell’onde
che fuggon verso il mare sotto il ponte.
Mesta è nel pensier china la fronte.

Il vecchio mulino, venne abbandonato mezzo secolo fa - recuperato in due fasi nel 2003 e poi nel 2020 -, fu costruito nel 1790 con  la partecipazione di tutta la popolazione dell’alta Val  Dolo, sia del versante  reggiano che  modenese. La vedova Pigoncelli contribuì col raccolto annuale di un castagno, proprio  come l’obolo della parabola.  Io vi  pascolavo il mio sparuto gregge e passavo il tempo fra  gli enormi castagni secolari studiando o tentando di ottenere due note da uno zufolo ricavato dalla scorza di un salice come un piccolo e ignaro Tityro.

L’antica Maremmana, una fra le tante che si diramavano verso la Garfagnana, valicando Pradarena, le Forbici o le Radici, è morta con la transumanza. I castagneti secolari con fusti di oltre un metro sono rinselvatichiti, i metati non emettono più il loro fumo acre in autunno, nei boschi non risuonano più i colpi ritmici delle accette. Nella valle invece riecheggiano gli ululati dei lupi. Anche le onde sono costrette a fuggire a valle.

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Devo mettere qualche nota a piè di pagina per gli allogeni. L’incipit dove mi rivolgo ad un ipotetico viandante è evidentemente retorico perché di lì non ci passa più nessuno, e i viandanti sono scomparsi quasi ovunque, le greggi da tempo non si sussuegono più coi loro campani per valicare l’Alpe e si risentivano festosi al loro ritorno a primavera. Ho usato qualche idiotismo per dare colore locale, i metati sono gli essiccatoi per le castagne, l’unico frutto della valle che col porco permetteva la sopravvivenza invernale. Le tegge, dal latino tectae, sono le capanne ad uso stalla o fienile. Le tegge meriterebbero un approfondimento dato che la loro tecnica di costruzione, col frontale abbassato, è antichissima, è sopravvissuta solo nella zona dell’Alto Dolo e Dragone fino a Pieve, e vengono chiamate appunto capanne celtiche, Il metodo è diffuso nei popoli celtici fino alla Scozia e pertanto come le benne risale ai Galli Boi, 2400 anni fa. Sono quasi completamente scomparse. Le cerese sono ovviamente le ciliegie e i baggi, i mirtilli, da bacca, o bagola, o dal latino vaccinium, mirtillo.
I bei disegni sono di Roberto Tonelli, le foto le ho trovate qua e là e non ne saprei indicare né ringraziare gli autori.
Siamo riconoscenti al proprietario dell’unico metato sopravvissuto che lo ha amorosamente ristrutturato.

Federico Romiti