Il primo ricordo del medico condotto al mio villaggio risale alla mia prima infanzia, verso la fine degli anni quaranta. Veramente il medico non me lo ricordo, ma ricordo perfettamente il suo cavallo
Un sauro sellato, con un sottosella di pelle d’agnello bianco, legato all’inferriata della finestra dell’osteria davanti a casa mia. Ho precisato sellato, perché qualche cavallo, rarissimo in mezzo a tanti muli e asini, girava anche allora per la valle, ma mai sellato.
Anche i nobili destrieri avevano il loro basto, dato che non potevano essere attaccati. Mancava la ruota. Ancora non eravamo entrati nella civiltà della ruota e del motore. E’ il 1956 la data che discrimina a coltello la cronologia della valle in due ere ben distinte, prima e dopo il motore, come dire prima e dopo il diluvio.
In tutta la valle regnava il silenzio. Era talmente tersa e pura l’aria e così diversa da quella melina che oggi dall’alto delle cime vediamo gravare su tutta la pianura, che quando giungevamo, a piedi, sul Pra’ del Morto, il passo fra la valle del Dolo e del Dragone, sentivamo ben distinto l’odore della nafta degli automezzi che transitavano sulla strada delle Radici, distante ancora 20 minuti. Come gli Incas, qualche ruota ce l’avevamo ma non poteva essere usata per mancanza di strade adatte e soprattutto di freni per via degli erti pendii simili a quelli andini: c’erano solo mulattiere e anche strette. Sotto la torre dell’Amorotto, il passaggio era molto angusto, la mulattiera era stata ricavata direttamente nella roccia e ogni tanto qualche mulo ruzzolava nel fiume che si sentiva rumoreggiare in fondo al precipizio. Ricordo le imprecazioni che fulminavamo sul mulo che tendeva a stare troppo a monte e a volte sfregava la soma contro la roccia, magari una damigiana di vino.
Non so se anche il dottore soffrisse di vertigini. Di certo una volta alla settimana, doveva fare proprio quella mulattiera per giungere in paese, partendo da Novellano, o da Villa (22 Km). A quei tempi non c’erano i Km, e come misura di lunghezza si usavano le ore e Novellano distava circa un’ora e mezza, due ore. Un particolare rintocco della campana avrebbe avvisato i paesani che era giunto il dottore e si apriva “l’ambulatorio”. C’era infatti un particolare tam-tam, un alfabeto Morse di valle per segnalare con le campane, un incendio, un pericolo, la necessità di accorrere in piazza per un grave motivo.
Di solito era per organizzare il trasporto, a spalla, di qualche malato grave fino alla prima strada carrozzabile dove si potesse caricarlo su un camion, o su qualunque altro mezzo di fortuna verso Sassuolo, o Castelnuovomonti. Il malato era a volte trasportato con la “benna”, la stessa che veniva usata per il trasporto del letame nei campi. Normalmente era un peritonitico, una partoriente, un traumatizzato: frequenti le ferite da taglio nei boschi, le cadute dagli alberi nella “rimondatura”, o proprio la caduta dell’ albero sul boscaiolo. Se il “macchiaiolo” non era defunto, lo si metteva su una barella costruita sul momento con qualche ramo e lo si trasportava a valle.
Già era problematica la cosa in tempi normali, figurarsi sotto la pioggia o ancor di più in caso di nevicate allora sistematicamente abbondanti: si radunavano 12 – 15 uomini per potersi dare il turno alla barella, mentre un’altra squadra andava avanti spalando la neve. E questo fino alla Governara, alla Diga, o a Piandelagotti.
Ho usato le virgolette per “ambulatorio”. Sono virgolette benevolmente ironiche perché l’attrezzatura era solo quella che il medico poteva portare con se sul cavallo nella famosa valigetta a soffietto. L’ambulatorio si teneva nell’osteria, che come luogo pubblico si adattava di più e una volta alla settimana l’oste la concedeva alla comunità. Allora si trasformava. Da luogo d’incontro, di bevute da cosacchi, di alterchi, di bestemmie, di gioco alla morra, fra urla, canzoni berciate e frequentemente oscene o allusive di cui mi ricordo “La Bella Molinara”, l’osteria diventava un posto abbastanza silenzioso, dove i pochi pazienti attendevano il turno (“Avanti un altro!”) davanti al bancone di mescita di rustica quercia.
I clienti-pazienti non avevano voglia di bere, o perché erano donne e le donne non andavano mai all’osteria. O perché di solito si beveva vino solo la domenica, o perché avevano la faccia gonfia dal mal di denti. Il relativo silenzio era rotto dalle urla del malcapitato che si era sottoposto all’estrazione. Non credo che ci fossero anestetici.
Ogni tanto c’erano le vaccinazioni. In quell’occasione l’osteria si riempiva di bimbi e per tutta l’area intorno si diffondevano pianti e strilli come nella strage degli Innocenti.
Era comunque diffusa la convinzione che già si fosse ottenuto un certo progresso, perché ora veniva il dottore. Prima come cavadenti c’era solo Didaco, il fabbro che usava come pinze, l’arnese del demonio che viene documentato dalla foto e che mi fu regalato dal nipote in occasione della mia laurea, e fui il primo medico nato nella valle. Dopo la guerra ci fu anche un dentista polacco, che però aveva” ambulatorio” a Piandelagotti per cui dopo una notte insonne e la faccia gonfia come un melone, ben fasciata da una sciarpa annodata sul capo, bisognava avviarsi pedibus calcantibus verso l’altra valle, con la speranza di por fine alla sofferenza. Le cure odontoiatriche erano ridotte all’essenziale e i più rimanevano edentuli in relativa giovane età e le protesi erano troppo dispendiose.
Ero appena laureato che un pastore mi raccontò scherzando che anche lui si era dedicato all’arte sanitaria, fino al dopoguerra. Oggi la cosa può sembrare strana, ma mentre pascolava le pecore intagliava dei denti di legno. Mica avevamo le possibilità economiche degli Etruschi che i denti se li facevano fare d’oro. Mi disse che i legni più adatti erano il frassino e l’avorno, bianchissimi e duri. A casa lo adattava alla paziente. Di solito erano ragazze e i denti ovviamente si limitavano agli incisivi. Alla protesi venivano praticate due piccole scanalature laterali, la si inseriva a pressione fra due altri incisivi e la si poteva estrarre dopo la messa.
Ho letto da qualche parte che nella carrozza di Napoleone, caduta nelle mani degli Inglesi dopo la disfatta di Waterloo, i vincitori trovarono lo spazzolino da denti dell’Imperatore, che ora viene ancora mostrato ai visitatori in non so quale museo londinese, e non senza una certa soddisfazione, a ricordo della memorabile vittoria che cambiò le sorti dell’Inghilterra e del mondo. Nel 1952 dalle statistiche risulta che si lavassero i denti solo il 2% degli Italiani. Solo da questo si può fare qualche considerazione sulle condizioni igieniche di quel popolo che eravamo allora e fare un confronto, nel bene e nel male, con quello di oggi. Figurarsi nella nostra valle.
La carta igienica? Sconosciuta. Fu inventata ovviamente in America fra le due guerre e si sa che l’America ci precede sempre di trenta – quarant’anni nella luce e nelle molte ombre, anche per le malattie cosiddette da ricchi: malattie metaboliche, obesità, diverticoliti, coliti granulomatose, ecc.
Docce, bagni e fognature? Inesistenti. Ci si lavava, saltuariamente, nella tinozza del bucato, o frettolosamente alla fontana. D’estate si usava l’acqua del Dolo, che comunque raggiungeva i 10 ° a malapena in Agosto. Ricordo però il profumo che emanavano le lenzuola dopo il bucato in quei tempi senza detersivi. Al loro posto c’era la lisciva, estratta dalla cenere che rilasciava carbonato di sodio e potassio al passaggio dell’acqua bollente. Quando le lenzuola venivano stese al sole sul prato si sentiva il piacevole profumo di pulito che nella mia mente di fanciullo viene abbinato a quello del pane appena estratto dal forno. Si usava anche il sapone che veniva però fabbricato direttamente in casa con i grassi e gli scarti del porco. La sugna non serviva solo per gli scarponi.
In tutta la valle non esisteva un acquedotto, né un idraulico. Non c’era acqua corrente in casa, e si andava a prenderla con i secchi alla fontana più vicina. Le donne da noi usavano portare i secchi sul capo come in meridione e assumevano andature maestose . Le sposate vestivano anche di scuro e si possono fare facili analogie.
Le donne si rompevano la schiena e si facevano venire il ginocchio della lavandaia chine a lavare i panni nei ruscelli, o nelle fontane più vicine a casa.
Le condizioni igieniche erano tremende, da terzo mondo. Se mi è permessa una brutale digressione accennerò a quelli che durante il mio servizio come tenente medico sui testi di igiene militare, con un termine ottocentesco, venivano ancora indicati come “luoghi d’agio”. Ogni famiglia aveva vicino all’orto, o dietro casa, un piccolo capanno rivestito da qualche stuoia di paglia, con un buco in terra, sic et sempliciter.
I più abbienti si costruivano allo stesso scopo un bugigattolo di tavole, con un uscio, in cui nella parte superiore si ritagliava una finestrella a forma di cuore. Ma c’era anche chi tutte queste “comodità” non se le poteva permettere o non ne sentiva la necessità, e usava il “dujile” delle vacche (/dys^il/). Nella grafia francese che ho usato, il dujile era quello che nella fascia intermedia Montefiorino-Castelnuovo viene indicato come “curadell”, la canaletta di scolo delle urine situata dietro le poste delle vacche. Nella valle più alta si era conservato il termine più antico e che dimostra il nostro apparentamento linguistico con i Provenzali che usano lo stesso termine para para.
I “residui fognari” non venivano sprecati come oggi; li si distribuiva accuratamente nell’orto dato che erano lì comodi e si sa che gli agli hanno bisogno di un alto tenore di azoto. Questa riprovevole e sgradevole abitudine causava frequenti epidemie di tifo, ma questo non turbò mai i sonni dei miei antenati che pacificamente l’attribuivano alla ingestione di frutta acerba. Ancora negli anni sessanta, sempre dalle statistiche, risulta che l‘Italia aveva una percentuale di casi di tifo superiore a Grecia e Portogallo. L’epatite non veniva neanche considerata: si diceva che era un po’ di itterizia.
Le malattie esantematiche, che venivano cumulativamente chiamate “sferz”, erano più o meno quelle di oggi, ma nessuno sapeva il rischio di ototossicità per il feto in caso di rosolia in gravidanza.
Le infezioni più gravi, che oggi sono quasi completamente scomparse, erano però la difterite, le febbri malariche, contratte durante le transumanze in Maremma, le brucellosi o febbri maltesi, con rischio anche di aborti, le infestazioni da echinococco, frequenti nei pastori e le febbri puerperali, gravissime, frequentemente letali . Durante la mia infanzia ( e sembra siano passati secoli, ed è per questo che scrivo questi miei ricordi) si usava dire “l’anno in cui morirono tutte quelle spose”, come si diceva dell’anno della grande gelata, o ‘della lezza’, la frana.
Dalle mie ricostruzioni ci furono addirittura due annate di gravi epidemie di febbri puerperali fra le due guerre, con esiti mortali, anche fra le mie parenti. Si accettava a quell’epoca queste calamità con rassegnazione, come segni fatali, imperscrutabili ed irreparabili del destino umano, come la grandine e il terremoto. Oggi con le possibilità di trasporto e di antibiotici sono impensabili immani tragedie di questo tipo.
Le spose morivano di parto, per cui era così frequente la devozione alla Madonna della Cintura, con la stessa rassegnazione con cui i giovani partivano per andare a morire nella guerra d’Africa* . (*Ci sono statistiche impietose e oggi incredibili. Ancora nel decennio 1865-74 alla Maternità di Stoccolma le infezioni puerperali raggiungevano il 20 % dei parti, con la morte di 1 puerpera su 5 infette (4.6% dei parti). Azzerate 10 anni dopo).
Nei secoli passati era una patologia per cui morivano anche le regine e le nobili e il pensiero va al commovente monumento funebre a Ilaria del Carretto fatto erigere dal marito disperato e che il genio di Jacopo della Quercia eseguì in S. Martino a Lucca. Come risulta dai diari di mercatura, nella ricca Firenze del Tre- Quattro-Cinquecento non era raro che il mercatante si risposasse due o tre volte. Ma da noi succedeva ancora ieri l’altro, e fu per questo che fu inviata finalmente una ostetrica condotta. Le casistiche mortali furono azzerate con la semplice applicazione dell’asepsi delle mani, ed io fui il primo a nascere con l’aiuto di mani esperte.
Mia madre era una robusta montanara, ma quei tre giorni di doglie a quasi quarant’anni, ed ero il primogenito, la dovettero segnare profondamente. A capo del letto teneva devotamente una modesta stampa di un quadro, forse di Andrea del Sarto, raffigurante il parto di S. Elisabetta, anche lei partoriente a tarda età. Aveva fatto la domestica per trent’anni e non era mai stata a scuola, per la grettezza di suo padre che pensava che alle “femmine” bastasse saper fare la “scapinella”, cioè la calza.
Dodicesima di dodici figli, era praticamente quasi analfabeta, ma aveva un’anima grande, sensibile e gentile, sognatrice. Dopo una vita a Milano, una inspiegabile nostalgia, un’attrazione al ritorno, imperativa come la legge del salmone, l’aveva riproiettata in una valle rimasta ancorata al medioevo.
Lei in un certo senso fu abbastanza fortunata. Prima c’era solo l’aiuto, certo amorevole, ma inesperto e a volte inconsapevolmente pericoloso delle vicine, delle madri, che assistevano la partoriente più o meno come avevano sempre fatto tutte prima e come si assisteva anche la capra. Se si verificava un’emorragia, non c’era altro da fare che porre la puerpera a sedere nella neve e pregare.
Avrò avuto 5 o 6 anni. Come cancellare un ricordo tanto profondamente radicato come quello di mia madre che scende gravemente le scale nella camicia da notte bianca, seguita dalle sorelle che cercavano di confortarla. Era giunto il medico da Piandelagotti sotto la neve di Marzo, con un uomo che si era offerto spontaneamente di accompagnarlo e che ora si stava asciugando la giacca di velluto verde bottiglia, porgendo la schiena al camino. La giacca fumava. Il dottore disse che era un parto prematuro e che doveva essere immediatamente trasportata a Sassuolo. Si radunarono gli uomini al suono della campana, la sistemarono su una barella di fortuna ed io seguii con gli occhi pieni di lacrime quella barella traballante per le asperità della mulattiera, in testa al piccolo corteo che si avviava lentamente verso Frassinoro. Continuai a seguirli fin che raggiunsero il Rio Riaccio, quando si confusero con la neve che aveva rincominciato a cadere a larghe falde.
Si voleva a quel tempo che anche i bimbi imparassero presto e si abituassero ai lati meno felici della vita, al freddo, al lavoro, all’ubbidienza, al rispetto per gli adulti e le persone anziane, specie di sesso femminile ed anche alla morte. Ed è per questo che si cominciava con i lavori meno faticosi, come pascolare le pecore, cosa che ho cominciato a fare a 5- 6 anni. Non si rivolgeva mai la parola per primi agli adulti, perché sembrava sfacciataggine, e gli si dava rigorosamente del voi. Anche ai genitori e ai nonni si dava del voi: era segno di rispettoso affetto. Soprattutto di affetto e delicatezza, tanto che lo si dava anche ai bimbi piccoli. Ho dato del voi alla mia amatissima madre fino alla sua morte, nel 76.
Fu lei a portarmi fanciullo al rosario funebre di un pastore che era morto per infestazione da echinococco, lasciando 4 o 5 figli in tenera età. La domenica dopo un uomo passava per le osterie del paese, con un cappello in mano per una questua a favore degli orfani. Se “Cristo si è fermato a Eboli”, dalle nostre parti non c’era neanche passato.
La frutta della valle si limitava a qualche pera quasi selvatica, qualche piccola mela, noci e castagne. I cocomeri, ovvero angurie, e soprattutto l’uva erano prelibatezze per pochi fortunati e venivano portate nella valle in occasioni di feste o fiere dal somarino grigio di Minghìn da Fontanaluccia o nelle sgarbagne di Bachjìn Bimbi, che aveva tralignato dalla secolare professione dei suoi padri che furono provetti fonditori di campane per quella più umile e randagia di merciaio. Le campane dei Bimbi, che si trovano ancor oggi frequentemente diffuse da Modena alla Garfagnana, erano giustamente famose per il loro timbro e la loro sonorità: basta sentire le campane di Chiozza, di Civago o di Piandelagotti. Una delle loro campane, residuo probabilmente della vecchia chiesa contigua all’ospedale, è ancor oggi tenuta nella hall di entrata del S. Agostino di Modena: sulla fascia in bei caratteri bodoniani c’è scritto “Gio.Batta Bimbi Fecit A.D. 1721”.
Ero già quasi giovinotto quando vidi Modesto da Cerageto con due cavagni di fichi, uno al braccio ed uno in spalla, salire la mulattiera che dal fiume portava in paese, dove veniva a vendere la sua povera mercanzia. Era giunto “col postale” ai Casoni di Profecchia e poi a piedi aveva superato il passo delle Forbici. Altrettanto faceva Primo da Chiozza, col suo carico di tessuti sulle spalle, instancabile da una casa all’altra. Eppure aveva preferito quella sua fatica da schiavo negro all’emigrazione in Brasile, da dove era tornato vinto dalla nostalgia. I tessuti, robusti velluti e tele per “burazzi” e “stamigne”, certamente avrebbero mantenuto a lungo l’odore della sua traspirazione.
I mestieri stagionali permettevano di unire un modesto guadagno alla possibilità di coltivare i poveri campi costati tanto sudore per il loro dissodamento, di cui rimanevano a testimonianza le macerie di sassi ammucchiate ai lati. Erano l’arrotino, il muletta, che si portava però l’attrezzo sulle spalle, dato che nè potevano, né avrebbero saputo usare la bicicletta. Per la Francia partivano i tagliasassi, i “pichjarìn”. Un altro lavoro, escogitato per sopperire all’inverno, era quello di ricavare dai tronchi di faggio, con torni elementari, cucchiai, scodelle, ciotole, mestoli che si sarebbero poi venduti per la Baluga o nella Lucchesia. Poi c’erano gli impagliatori di scranne, i cardatori di canapa. Col tornio si fabbricavano anche i semplici strumenti delle nostre nonne, con cui filavano la lana, bindoli, aspi e telai.
Alcuni se li portavano dietro anche nei paesi di emigrazione. E’ rimasta nel lessico familiare la frase della francese, che guardava meravigliata una nostra compaesana: “Regardez Maria, qui file la lane avec un machin pareil”. (Guardate Maria che fila la lana con un coso così). o forse: avec une machine pareille. (una macchina così)
I telai erano molto ingombranti e venivano montati direttamente nella stanza e usati per secoli, generazione dopo generazione. Ricordo ancora l’abilità con cui erano state tornite le carrucole in legno di bosso, per mancanza di ferro. Purtroppo tutti i vecchi telai furono buttati nel fuoco per far posto ai garage o ai mobili di plastica. Era con questi semplici telai che le nostre nonne tessevano asciugamani di canapa che nulla avevano da invidiare agli odierni e a cui amorosamente avrebbero aggiunto un sobrio merletto. O le coperte a scacchi, scomparse travolte dall’alluvione del motore e dall’ubriacatura di modernità. Non si sa da quanti secoli fossero prodotte più o meno con un disegno invariato. Forse il disegno era semplicemente suggerito dai fili perpendicolari dell’ordito, scacchi rossi e blu, o rosso ruggine e bianchi, che erano tipici delle nostre valli. Certo che è suggestivo pensare che anche i Celti usavano lo stesso motivo, a colori vivaci, riporta Strabone nella sua Geografia. Come i kilt attuali. Anche le nostre tegge risalgono ai Celti. Ci sono tradizioni incredibilmente imperiture come dimostrano i disegni dei tappeti di certe popolazioni iraniche, risalenti al tempo degli Achemenidi.
E’ risaputo che ogni paese aveva per imitazione una specializzazione, ma a noi era vietato perfino il carrettino a mano. Con questi carrettini i poveri ma volenterosi solcavano come riksciò mezza Italia, di villaggio in villaggio, di podere in podere, vendendo cesti come quelli di Rosano e Cola, tappi quelli di Cervarezza. Da Minozzo partivano i muletta. Le sparute biblioteche dei casali di un tempo erano dovute anche ai sudori dei librai di Pontremoli, che vendevano almanacchi, libri di chiesa, l’Orlando Furioso, qualche Gerusalemme Liberata. Da Barga si diffondevano fino alla Scozia e alle Americhe i venditori di statuine (“Buy images”, canta il Pascoli). Ma per noi della val Dolo la ruota era ancora un miraggio. Per noi era limitata alla carriola.
La pastorizia obbligava alla transumanza, di solito verso la Versilia, la Maremma pisana e livornese, fino a Piombino. Tutto a piedi. Si inoltrava il gregge nella via maremmana che superava le Forbici, o passando da S. Geminiano, il passo delle Radici. Si dormiva in qualche casale, in un fienile. I più abbienti in qualche osteria, in cameroni in comune, oggi reperibili solo in qualche località sperduta dell’Anatolia. Se oggi devo fare un parallelo, l’unico posto che mi viene in mente è l’Afganistan.
La famiglia di mia madre raggiungeva così la zona di Marlia e Segromigno, nei dintorni di Lucca, dove svernavano per riprendere la medesima strada verso “l’Alpe” nella primavera successiva. Erano tempi di una povertà oggi inimmaginabile. Mia nonna, che viene ancora ricordata nella zona ove ora sorge la sciovia, veniva chiamata “la Runcadèla”, perché proveniva da quel deserto colle sferzato da tutti i venti, a 1300 metri, da dove oggi la strada incomincia a discendere verso Piandelagotti. Morì in quella catapecchia in cui si ammassavano in 12 o 15 fra adulti e bambini a Segromigno. Fu sepolta in un lenzuolo perché non avevano la possibilità di pagare la bara.
Roncadello diminutivo di “ronco” dal latino “runcare”, zappare o sarchiare, è un toponimo diffuso con innumerevoli varianti in tutta l’area padana, da Roncole Verdi a Ronco dei Legionari. Era una pratica di coltura ancor più primitiva del maggese e del sovescio, in cui come fertilizzante venivano utilizzati la sterpaglia e le zolle erbose che venivano bruciate; si zappava, poi si seminava di solito la segale o il marzuolo.
Dopo il magro raccolto si lasciava di nuovo il terreno a saldo per anni, a pascolo. Non sempre si avevano le vacche con cui trasportare il letame sui seminativi con la benna e, sembra incredibile, ma io l’ho visto trasportare a spalla, in grosse gerle e ovviamente oltre al peso bisognava sopportarne anche il colaticcio.
Nella mia infanzia il pane fu sempre nero, con molta segale, fatto in grosse pagnotte alla toscana. Era talmente saporito che la nostalgia mi intima di comprarlo anche oggi, ma ormai lo si ritrova solo in Tirolo o in Germania. D’altronde dobbiamo la sopravvivenza di intere generazioni dei nostri vecchi, a due o tre cose: il porco, innanzitutto, il castagno, e fra i cereali il marzuolo, la segale e la spelta, o scandella. Le due mie zie più vecchie facevano il ronco ancora negli ultimi anni cinquanta, primi sessanta.
Dalla Maremma, dove emigravano boscaioli e pastori, gli uomini tornavano a volte con la malaria, e si riconoscevano dalla faccia giallastra, quella che in termine tecnico viene detta “facies ottonata”, dovuta all’emolisi. Non poche volte l’esito era fatale, come per il nonno di mia madre. In mancanza di meglio passavano l’inverno nelle rapazzole, capanne di ginestre e zolle, su letti di felci e rami di faggio.
Le guerre risorgimentali, a parte la retorica nazionalistica per gonfiare l’Italia come la rana di Fedro, costarono una ecatombe di giovani vite e lacrime di madri e di vedove, ma anche un ulteriore impoverimento delle classi già povere, e alle impietose tasse sul macinato si sopperì con l’emigrazione. Ci fu anche un’altra calamità a cui far fronte ed era la leva obbligatoria, sconosciuta all’epoca del reazionario Duca di Modena, fino all’esile Francesco V, che se ne era andato mestamente a Vienna. Ora comandavano i Piemontesi, con la loro cavalleria, unica arma che potesse penetrare le mulattiere valligiane. Erano duri ed inflessibili. Sulle nostre montagne si verificò una piccola Vandea, sconosciuta ai più.
L’impoverimento, le tasse esorbitanti per pagare ai Rothschild i debiti delle guerre fatte all’Austria, la tassa sul macinato, forse la confisca di molti beni ecclesiastici e soprattutto la leva militare fecero sorgere e propagare molti malumori che esplosero pubblicamente in una manifestazione spontanea a S. Pellegrino, quando in occasione dell’annuale pellegrinaggio, i montanari per la prima volta ebbero il coraggio di gridare “W il Duca”. La sedizione fu soffocata dalla cavalleria, ma i giovani risposero con la renitenza alla leva, dandosi alla macchia.
Era una situazione parallela, anche se di proporzioni molto più limitate, di quella che si era manifestata e diffusa in tutto il Meridione. I renitenti non si presentavano semplicemente al Distretto, il che significava andare a piedi a Reggio, e continuavano la loro vita di pastori e macchiaioli, sicuri dell’omertà dei compaesani. Ci vollero varie generazioni, fino alla prima guerra mondiale, per far cambiare l’opinione popolare. Lentamente si fece strada un nuovo punto di vista, non tanto per senso civico e tanto meno per senso patrio.
I renitenti furono sempre più visti come una profonda ingiustizia nei confronti di chi perdeva due anni di lavoro e soprattutto di chi perdeva la vita in Abissinia, in Libia o sul Montello, ma nell’ultimo quarto dell’Ottocento, o si emigrava, magari clandestinamente, o in occasione della solita retata ci si nascondeva in qualche capanna. I dissidenti mica potevano andare a Lugano.
Ci fu però un episodio che fece calare drasticamente i renitenti, di cui alcuni rifiutando la leva sopravvissero ai loro coetanei caduti sul Piave. Erano malamente tollerati e giudicati, ma vivi e i loro nomi non si contavano fra quelli scritti in ordine alfabetico sulla lapide posta sul campanile. Ne ricordo uno o due nella mia infanzia, molto vecchi. I giovani ribelli si sentivano sicuri, protetti dall’impervietà delle nostre mulattiere e dalla lontananza del Governo sabaudo, ma non avevano fatto i conti con la caparbietà piemontese, che un giorno degli anni ‘60 dell’800 decise di non tollerare più un simile affronto all’ “unità sacra ed inviolabile della Patria”.
Uno squadrone di cavalleria giunse inavvertito in paese una tranquilla domenica mattina e non doveva neanche essere poco numeroso se riuscì a circondare la piazza e la chiesa e ghermì tre , forse cinque, renitenti all’uscita dalla messa. Rifiutavano obbedienza al Re, ma non al parroco. Il comandante doveva avere precise disposizioni, perché dichiarò i cinque condannati a morte con esecuzione immediata, li portò sotto il “castagno di Barbanègra” e lì li fece impiccare davanti alla popolazione allibita, a cui non rimase che seppellire silenziosamente i corpi pendenti nell’adiacente camposanto.
L’ultrasecolare castagno di Barbanegra, quando arrivò prepotente l’asfalto, fu abbattuto per far posto alla fontanella che ancor oggi gorgoglia sulla piazza.
La fame spingeva gli emigranti anche in Sardegna, in Corsica, in Francia, in Algeria, da dove ogni tanto qualcuno tornava con una moglie. “Chii d’e Morr” era una famiglia di pelle bruna, olivastra nei nipoti, che era dovuta a una bisnonna algerina. C’era anche la zia sarda.
Giù al fiume, appena a monte del mulino che la comunità del nostro villaggio aveva costruito alla fine del 1700, c’era la segheria di Giandino, un mio prozio, allora quasi novantenne, che metteva in funzione la segheria in primavera al ritorno dalle campagne di disboscamento in Sardegna, Corsica, Maremma, dove andava nei mesi invernali con la funzione di capomacchia, cioè il capoccia, il dirigente di una squadra di boscaioli, cui era dovuto il compito di contrattare il compenso forfettario del disboscamento, la organizzazione del lavoro, la suddivisione a fine lavori, l’acquisto delle vivande. Compito sempre portato a termine con correttezza e scrupolo.
La segheria funzionava con l’acqua del canale artificiale che costeggiava il Dolo per un certo tratto nella sua proprietà e che lui con termine bizantino chiamava “lèvda”. Deriva dal termine greco lebete che vuol dire brocca, cioè proprio la funzione di far cascare l’acqua in questo caso per far muovere la ruota della segheria o la macina, il mulino ad acqua fu infatti importato dal Levante verso il VI-VII secolo e si trascinò seco anche il neologismo. Oltre a segare tavoloni di castagno con cui poi si facevano mobili, infissi e porte, il lavoro principale di questo mio zio, a cui devo il mio amore per la terra, grande cultore di Maggi, era quello di segare “cascini”. Come denuncia il nome, erano le tavolette di varia lunghezza ed altezza che arrotondate con una calandra chiodata servivano a dare una ‘forma’ al formaggio che dai cascini quindi prende nome (il caseus latino diventò cacio e casello e da forma>Formadio>formaggio).
Fare il segantino non era mai una fatica improba da galeotti come nel bosco col segone a squadra, a telaio, ma comportava dei rischi, infatti allo zio mancavano due dita: la sua mano era inconfondibile e anch’io come tutti i bimbi ponevo la mia mano… nella sua…con lieto volto, quando andavamo con gran festa a qualche sagra, a qualche Maggio, o alla annuale Fiera di S. Giovanni. Quella mano senza due dita mi dava sicurezza e la gratificazione d’essere amato e pur così piccolo d’essere stato scelto a continuatore della sua opera.
Alla Fiera dava anche dimostrazione d’essere acuto pedagogo superando nella sua incoltura molti pseudoeducatori di oggi: infatti un anno mi comprò una falce adatta alla mia età, cui fabbricò un manico adatto, perché imparassi a sudare e lavorare. Ancora oggi sono uno dei pochi laureati e non a saper falciare, pratica ormai desueta e tutte le volte il mio ricordo va a quel rude vecchio a cui devo tanto.
Così era allora il saggio uso della propedeutica al lavoro infelicemente dimenticata dai pedagoghi di oggi, in un generale rilassamento permissivo, che fa crescere solo bambini maleducati, pretenziosi e supponenti come i bambini dei ricchi di una volta.
Attiguo alla segheria c’era il metato, ossia l’ambiente dove sopra i cannicci venivano seccate le castagne. La stessa parola cannicci, che in realtà erano liste di tavole, denota come la pratica dell’essiccazione delle castagne non fosse autoctona, ma provenisse da luoghi dove crescevano canne, sconosciute a 1000 metri di altezza. La farina di castagne che ne derivava era il principale nutrimento dei montanari che raramente avevano la possibilità di seminare frumento o cereali in genere. Per lo più era marzuolo che veniva seminato a primavera al ritorno dalle emigrazioni stagionali, segale o spelta più adatte ai terreni acidi e poveri dei ronchi della nostra valle.
Prima di ridurle in farina nel mulino qualche passo più a valle, le castagne dopo un periodo di essiccazione nel metato dovevano essere mondate. Il metato era un luogo ovviamente fumoso, vi si bruciavano i tronchi secchi e gli altri legni che venivano raccolti durante la “rimondatura”, cioè le potature dei castagni stessi, che erano preferiti per il loro fuoco lento e persistente, che non giungeva mai ad alte temperature. Nelle nebbiose giornate d’autunno era luogo di aggregazione, dove ci si raccontava le avventure degli emigrati, le storie dei soldati, dei viaggiatori, dei libri letti dal parroco, delle avventure fantastiche dei Paladini di Re Carlo, incuranti del fumo che ci arrossava gli occhi.
La spulatura nella mia infanzia avveniva per mezzo di una macchina ingegnosa nella sua semplicità, mossa da un motore a nafta, che veniva portato a spalla da uno dei montanari più forti o da qualche mulo se se ne aveva la possibilità. Era l’unico motore che riusciva a penetrare nella valle e riempiva le nari con il suo puzzo inconfondibile, inconveniente che allora ci riempiva di contentezza e ci inebriava. Era la puzza del progresso e già quel modesto marchingegno, formato da un cilindro tipo lavatrice con una serie di buchi a crivello e da una ventola, risparmiava un bel po’ di sudore e fatica. Non sono a conoscenza di quando per la prima volta fosse giunto nella valle quel trabiccolo da trebbiare le castagne. Forse fra le due guerre; prima la battitura era una impresa ed i metodi erano essenzialmente due: i buzzi e la regina.
I buzzi erano otri di pelle di capra che venivano riempiti di castagne e poi sbattuti da due uomini a destra e sinistra su di una enorme ceppa. La regina era una grossa asta munita all’apice da una ghiera provvista di una serie di aculei a corona e da qui il nome, e le castagne venivano pestate dentro un quartaro.
Il ceppo di castagno del nostro metato era veramente enorme e misurava 1 metro e 20 di diametro e non si sa quante generazioni di antenati avessero trebbiato su quel miracolo della natura, che oltretutto non doveva essere neanche stato tagliato alla base di quell’albero secolare; quindi sommando fra prima e dopo il taglio si arrivava quasi al millennio, ma ormai sotto la loggia del metato era solo di ingombro. Le castagne non venivano neanche più raccolte, il castagneto era abbandonato, e la ceppa fu barbaramente fatta a pezzi. Confesso come S. Agostino che anch’io partecipai al massacro, ma a quell’epoca di gioventù esuberante ed inconsapevole, non me ne rendei neanche del tutto conto. Dopo però, quando la loggia ci sembrò improvvisamente ampia, un dubbio si insinuò con un fuggevole turbamento; ci consolammo dicendoci che non potevamo mica tenercela in salotto. Non ci inquietò il pensiero di come diavolo avessero potuto i nostri vecchi, che non appartenevano alla razza dei giganti, trascinare una simile mole e sistemarla sotto alla loggia dove sarebbe sopravissuta per secoli. Poi arrivò l’era del motore e della plastica.
Quando aveva potuto, il vecchio aveva alternato queste incombenze autunno-vernali alle migrazioni stagionali. Queste emigrazioni e transumanze non erano mai scevre di pericoli, oltre a quelli dei viaggi marini. Fra le due guerre una quindicina di macchiaioli di Piandelagotti rimase sotto una valanga in provincia di Ajaccio. La Corsica ha montagne più alte delle nostre e da allora sono rimasti là, in un piccolo cimitero, come tanti altri emigranti nelle miniere, nei boschi, nei cantieri, nelle fabbriche di mezzo mondo, fin dove l’ardimento e la fame li spingevano. Nel Sud e Nord America, fino all’Alaska.
Nelle immense foreste dell’Oregon, dopo un mese di viaggio per nave e uno per treno, avrebbero trovato sequoie molto più imponenti dei nostri faggi. Alcune, millenarie, che erano nate prima di Cesare e di Cristo, hanno lasciato ceppe di oltre due metri di diametro. Rimanendo nelle nostre valli, anche l’alta val d’Ozola presentava essenze perlomeno plurisecolari, in un bosco vergine che non aveva mai visto l’accetta dato che fu sempre impossibile il trasporto del legname, fino a che un rude ma ardimentoso maremmano risolse il problema installando una lunga ed ingegnosa teleferica a contrappeso con cui riusciva a far scendere il legname a Soraggio. Uno di quegli alberi era la “faggia” che si trovarono di fronte negli anni Trenta i nostri boscaioli. Aveva una tale circonferenza che ci volevano alcuni uomini per abbracciarla ed era talmente solenne che infondeva un rispetto sacro: la chiamarono “la Regina”. Purtroppo i nostri vecchi avevano perso il senso di timore reverenziale verso gli alberi secolari dei loro antenati Longobardi e privi di scrupoli, con l’innocenza di fanciulli la fecero sacrilegamente a pezzi. Era una odierna Irminsul, miracolosamente sopravvissuta al suo tempo.
Fra le due guerre ci fu anche un tentativo di trasportare il legname con la fluitazione, forse suggerita da qualche emigrante che l’aveva vista praticare nell’”Urigùn”. Ma purtroppo il Columbia era molto più mansueto e navigabile del nostro piccolo ma violento Dolo, che richiese alcune anime scivolate fra i gorghi, facendo sospendere in breve l’esperimento.
Nel tentativo di superare l’Alpe alle Radici una famigliola fu sorpresa da una tormenta e rimase sotto la neve. Padre e due figli ancor in giovane età. Non so perché non si fossero fermati al Rifugio di S. Geminiano. Forse spersi già da prima, il padre, un Capedri di Bedogno, forse tentò di andare a chiamare aiuto e al disgelo fu trovato nei pressi di Ca’Gimorri, e i due giovani nella macchia più in alto, fuori dalla via maremmana.
Gli operai, muratori, marangoni (cioè carpentieri, o falegnami) non si pagavano a ore, ma a giornate, e nella giornata veniva incluso il pranzo che veniva preparato dalla “resdora” per tutta la famiglia. Si diceva “andaar a ovra” , o anche a “oeuvra”, termine che evidenzia senza bisogno di commenti la nostra parte di eredità gallica (i Francesi dicono infatti “oeuvre”, “chef-d’oeuvre”). Se un muratore cadeva da un’impalcatura, era una disgrazia. Nella mancanza di assicurazioni la famiglia cadeva in miseria e dipendeva dalla pietà di parenti e vicini.
Un’altra patologia frequente era il gozzo, dovuto alla mancanza di iodio. Raggiungeva due estremi: uno era il “cretino gozzuto”, che forse era dovuto anche all’endogamia. Da noi non era quasi mai il cretino che il termine tecnico parrebbe fare intendere, ma solo un semplice, riconoscibile dalla piccola statura, e dalla pelle del viso, spessa e rugosa per il mixedema. Ogni villaggio aveva il suo “semplice”.
L’altro era il gozzo vero e proprio, frequente nei montanari, come la Maschera di Giuppino ben evidenzia. Anche le valli bergamasche avevano i loro transumanti ed emigranti, verso Venezia, e verso la valle del Po. Nella bassa venivano chiamati bergamini e facevano i mungitori. Da noi però i gozzi raggiungevano a volte dimensioni inaudite, da impedire una normale respirazione per schiacciamento della trachea.
A questa realtà dovevano far fronte i medici condotti. Il dott. Castagnini mi raccontava che il padre, condotto a Ramiseto, doveva far ferrare la cavalla ogni 15 giorni. I robusti zoccoli e gli arti di ferro della cavalla del Ventasso di allora resistevano, ma i ferri non duravano venti giorni, sulle mulattiere sassose.
Anche il mio primo maestro nella dolente arte, Pasquale Marconi, da giovane passò qualche tempo come condotto a Novellano. Anch’egli, col cavallo a fianco, è ricordato su un affresco della sala dell’Ospedale S.Anna, un tempo centrale ed oggi di passaggio dopo le tante ristrutturazioni. Il Professore mi trattava benevolmente, da allievo promettente e qualche volta mi faceva dono di qualcuno dei suoi libri, che serbo ancora gelosamente. Un giorno mi confidò anche la sua passione per i cavalli. Era molto orgoglioso del suo cavallo di un tempo, che faceva impennare con meraviglia del popolo. Mi ricordo ancora che si chiamava Tiberio.
Marconi era un grande uomo, uno dei più grandi che abbia dato la montagna reggiana, e le sue umane ombre non ne diminuiscono la grandezza, come qualche ramo secco non diminuisce l’altezza della quercia. Era abituato a combattere nei primi ranghi nella comunità cristiana e nell’agone politico. Raggiunse l’apice della grandezza nella prima quando baciò ad uno ad uno un gruppo di ebrei in partenza per Auschwitz. Nel secondo quando partì per la guerra partigiana armato di un temperino. Non mi sembra che la patria come al solito gli sia stata molto grata, dando il suo nome ad una piazzetta dietro le quinte. Marconi ha diritto ad un posto di proscenio, in prima fila.
Stavamo incamminandoci, noi ragazzi, verso la sagra della Cintura, giorno di grande festa, in cui avremmo mangiato un’anguria in 10 e assistito al Maggio. A piedi, non importa dirlo, ci stavamo immettendo dalla mulattiera su quella che doveva divenire “la via nuova”, la carrozzabile di cui avevano appena fatto il primo “strappo”, quando vedemmo un cavaliere che affrontava baldamente l’imponente argine al galoppo. Rimasi senza fiato. Era il dott. Onfiani, il veterinario da poco scomparso. Inconsapevolmente mi aveva inoculato la calamitosa attrazione per i cavalli e per l’equitazione.
La situazione era più o meno così su tutte le montagne e si addolciva ma non scompariva man mano che ci si avvicinava al piano. Oltre al medico condotto, c’erano anche la levatrice e il veterinario. A questo piccolo presidio dobbiamo aggiungere anche il prete, il povero prete di montagna a cui molti dei miei vecchi dovevano la poca istruzione che allora non veniva impartita dallo stato. La scuola era ancora della Chiesa e il prevosto era anche, gratuitamente, maestro.
In un’epoca priva di assicurazioni, tutto era demandato alla pietà cristiana e alla solidarietà umana che allora era molto più sentita. Ho già parlato dello sconosciuto che spontaneamente accompagnò il dottore, ma episodi del genere, oggi inimmaginabili, erano frequenti. Mio padre aveva uno spirito avventuroso e a volte rimaneva per mesi lontano da casa. Durante la guerra, casi della vita, in una di queste sue assenze, a Milano incontrò in tram uno di Romanoro, che conosceva bene. Nell’assoluta impossibilità di comunicazioni in un paese pieno di macerie, gli chiese di portare sue notizie a mia madre. Quell’uomo, che mi rimase sconosciuto e non potei mai ringraziare, partì da Romanoro e si fece due ore di strada a piedi e due al ritorno per tranquillizzare quella povera donna, gravida del quarto figlio.
E’ la tomba di don Corsi a Felina che mi ha ispirato le rime che seguono. Fu un prete buono, uno di quei mansueti che popoleranno il regno di Dio e che, prima a Civago, poi a Villa e a Felina diede conforto e aiuto, lavorando e insegnando senza mai chiedere una mercede.
E’ a loro, al medico, alla levatrice, al veterinario, al maestro, al prete che va la mia profonda gratitudine. Specie al prete, in quest’epoca in cui è così bistrattato. Molti di loro elevarono con la cultura tanti montanari sollevandoli da una rozzezza di secoli, ed educarono alla scienza e alla letteratura anche un pastorello ignorante come me.
Federico Romiti
Semplicemente GRAZIE per questo scritto così intenso e reale di un tempo lontanissimo per modi di vita, ma relativamente vicino per numero di anni.
Comunque il nostro passato, sentito raccontare dai padri e vissuto dai nonni, che ci ha donato nel bene e nel male le nostre forti radici.
MB
Mi associo al Sig. MB per il ringraziamento e per la precisa realta’ del suo racconto, che mi ha risvegliato quei momenti di vita vissuta della mia infanzia.
Il Dott. che legava la briglia del suo cavallo alla grata della sua finestra, in quei periodi post-bellici, io lo ravviserei nel Dott. Marchi, che risiedeva a Novellano. Un sincero plauso per quanto il suo racconto ha rinfrescato i miei ricordi di anziano e Montanaro.
Zambonini Francesco
Molte grazie per questo pezzo di storia, in parte vissuta anche da me, che abito da tutt’altra parte, scritta non solo con la testa, ma soprattutto col cuore e spero che venga presentato in forma cartacea (libro), da poter aprire e leggere facilmente dagli anziani che non usano il computer.
Elda Zannini
EldaZannini