Home Cronaca L’omelia del Vescovo Caprioli a Marola (4 settembre 2005)

L’omelia del Vescovo Caprioli a Marola (4 settembre 2005)

22
0

Nel frattempo giunti a conoscenza della nomina del nuovo Superiore generale delle Case di Carità (don Romano Zanni), proponiamo di seguito l'omelia tenuta dal Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, mons. Adriano Caprioli, davanti all'assemblea.

RIUNITI NEL MIO NOME
Capitolo delle Case della Carità

Ho chiesto di partecipare al cammino del Capitolo generale delle Case della Carità, prima che con l’esercizio del compito di discernimento che tocca al Vescovo, con il ringraziamento al Signore del dono che sono le Case della Carità per la nostra Chiesa qui nelle nostre terre e nel mondo. L’Eucaristia che celebro con voi capitolari e con la comunità del luogo vuole essere quella che il Concilio chiama “la manifestazione principale del nostro essere Chiesa, popolo di Dio in cammino nella storia” (SC 41).

Due o tre

Il Vangelo di questa Domenica (Mt 18,15-20) raccoglie e propone diversi insegnamenti dettati da Gesù. A loro modo li possiamo considerare dei capitoli della “regola di vita” data da Gesù alla sua futura Chiesa, che si riferiscono in particolare al discernimento della vita comunitaria.

Cominciamo la nostra riflessione dall’ultimo capitolo, quello più importante che riassume l’atteggiamento di fondo della comunità dei discepoli: “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Quanti bisogna essere per godere della presenza del Signore? Gesù risponde: “due o tre”. Si può essere anche un numero grandissimo, una folla immensa come il milione di giovani riuniti attorno al Papa al campo di Marienfeld a Colonia. Ma due, per Gesù, bastano.

E non è neppure questione di particolare dignità. Possono essere le persone più umili e umanamente povere, purché siano riunite nel nome del Signore, con il desiderio di rimanere con lui. Allora il miracolo avviene. Una famiglia si riunisce attorno alla tavola, nel segno della gratitudine a Dio dispensatore di ogni bene, ebbene lì il Signore è presente, come l’amico che rallegra i suoi con la sua presenza.

In questa luce va letto il mistero della Chiesa. Se ti fermi ai suoi aspetti umani, avrai sempre motivo di rimanere deluso. Chi non vede la mediocrità di tanti credenti, la nostra mediocrità? “Voi non siete cattivi, siete solo mediocri”, ebbe a scrivere sui cristiani del suo tempo Bernanos. ma c’è qualcosa, anzi Qualcuno che tu, per quanto informato, non potrai mai sospettare senza la fede: questo Qualcuno è la Chiesa è abitata da Cristo, nonostante tutto.

Possiamo ora comprendere meglio l’altro capitolo su cui fare discernimento comunitario secondo Gesù: “Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve lo concederà”. Anche qui una domanda: quanti bisogna essere per vedere esaudita la propria preghiera? Bastano due o tre, ma non meno di due. “Un cristiano solo non è cristiano”, si diceva in passato. Un cristiano può pregare da solo, ma la sua preghiera per essere efficace, deve sempre essere accordata con la preghiera della Chiesa, con la preghiera almeno di un fratello.

Viene alla mente la provocazione di un parroco di campagna rivolta un giorno ai suoi contadini, avendo ascoltato alla Messa la preghiera di chi chiedeva giornate di sole per far maturare l’uva dei propri vigneti, e la preghiera invece di altri che chiedevano giornate di pioggia per far crescere l’insalata dei propri giardini. “Ma non potete mettervi d’accordo?”, si lamentava allora quel parroco. Oggi per sapere se ci sarà il sole o la pioggia, basta consultare il bollettino delle previsioni meteorologiche, e ciascuno si regola come vuole.

Non così per discernere i “segni dei tempi”, dice Gesù. Per questo discernimento occorre l’accordo della preghiera. Si può intuire a questo punto l’importanza che assume, nella comunità raccolta attorno a Cristo, il valore della fraternità. È questo il problema che viene toccato con l’ultimo capitolo del discernimento sollecitato da Gesù con il discorso della correzione fraterna:

“Se il tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ti ascolterà, dillo all’assemblea...”.

Cosa succede quando in una comunità c’è un fratello o una sorella che per qualche modo di pensare o di agire è ancora formalmente unito, ma di fatto è come separato, perché non condivide quella tensione alla santità che dovrebbe essere di tutti? Che cosa fare? Il Vangelo detta una serie di adempimenti, i quali - si vede chiaramente - rispecchiamo le regole del discernimento comunitario delle prime comunità cristiane. Di questi adempimenti, che possono dare l’impressione di essere usciti da un codice di Diritto Canonico, è importante cogliere lo spirito che conserva, attraverso i tempi, una perenne attualità.

C’è un primo passo da fare: “Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo”. È una regola semplicissima, ma non facile. È come se Gesù ti dicesse: “Lascia anzitutto i giudizi mormorati alle spalle dell’interessato. Cerca piuttosto l’occasione di parlargli e fargli capire che lo comprendi e che non ti ritieni superiore a lui. Parlagli per rileggere con lui - se mai fosse possibile - il Vangelo, per pregare con lui. Parlagli come un’eco della voce di Dio che chiama tutti alla stessa santità”.

E se ogni tentativo risultasse inutile? “Sia per te come un pagano e un pubblicano”. Il Vangelo sembra alla fine legittimare il disimpegno, ma non è così. Non dimentichiamo che nel Vangelo i pubblicani e i peccatori sono quelli amati di più. La buona novella è per loro. Perciò l’espressione che abbiamo trovato non è un invito a troncare la solidarietà, ma ad assegnare a queste persone il primo posto nella preghiera e nella nostra pietà. Al Signore interessano poco o nulla i nostri processi e le nostre condanne. La sua legge è l’amore. In una società indifferente e apatica di fronte ai comportamenti altrui, la comunità cristiana è chiamata ad uno spirito diverso. Noi siamo di “razza comunitaria”.

Concludo, condividendo con voi la preghiera:

* anzitutto per rendere grazie per la presenza delle Case della Carità come un dono fatto dal Signore alla Chiesa; e, proprio perché dono fatto alle varie Chiese sparse nel mondo, le Case non sono da considerare né come possesso né come luogo di delega della carità, ma come vocazione e laboratorio di carità offerto alla stessa comunità locale;

* inoltre, per invocare il dono dello Spirito del Signore, che nella lavanda dei piedi ai suoi discepoli si è rivelato come il primo servo obbediente alla volontà del Padre: così sull’esempio di Cristo, con la sua grazia, si impari tutti - fratelli, sorelle, preti, superiori e vescovi - l’obbedienza che nasce dall’amore per la comunione e da una fedeltà dinamica al proprio carisma dato alla Chiesa nella storia;

* infine, per rivolgersi al Padre che è nei cieli, sorgente di ogni paternità sulla terra - nelle famiglie, nelle Chiese locali e nelle comunità religiose – e domandare un nuovo Superiore generale della Congregazione mariana delle Case della Carità secondo il “suo cuore”, perché sia figura per tutti di relazione fraterna tra le persone e di accompagnamento sicuro nel cammino del discernimento comunitario che vi attende.

Sia questa la ragione della nostra comune preghiera e la forza della nostra fiduciosa speranza.

(+ Adriano VESCOVO)

Badia romanica di Marola, 4 settembre 2005