Lunedì 23 maggio alle ore 15, nella Sala Indaco del Salone del Libro di Torino, verrà presentato e discusso il romanzo del reggiano Armido Malvolti . La storia di questo libro è piuttosto singolare: pubblicato oltre undici anni fa dalla casa editrice reggiana Aliberti con il titolo “Il profumo della farina calda” è stato premiato in 18 concorsi letterari nazionali e da uno in Svizzera. A distanza di oltre 10 anni dalla prima uscita è stato riproposto, meno di un anno fa, dalle Edizioni Helicon di Arezzo, arricchito da una pregevole prefazione della professoressa Cristiana Vettori che curerà anche la presentazione al Salone del Libro. Nella nuova versione è già stato premiato in un concorso a Marina di Massa.
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La prefazione di Cristiana Vettori che presenterà il libro
Malvolti ci ha abituati alle sue narrazioni che attraversano il tempo ed è come se si mettessero, e ci mettessero, in ascolto di quel rumore di fondo che congiunge una generazione all’altra in un felice intreccio di esistenze, e ci raccontassero che cosa rimane a fondare una genealogia, una cultura, una storia: quelle tracce indelebili che costituiscono le nostre radici e ci fanno sentire che la vita va avanti, nonostante le interruzioni, le ferite, i dolori, gli strappi.
“Profumo di farina calda a Buonavena” è prima di tutto un bel titolo, che parla di radici, di un luogo del cuore, di pasti consumati intorno al desco, al caminetto o al forno di casa, di abitudini culinarie, di famiglia. Ed è un bel libro, una bella storia che si snoda attraverso varie generazioni, una storia in parte affidata al racconto del protagonista, Mario Fontana, che in flash back ripercorre le tappe della sua vita per renderne partecipi i figli, Valentina e Diego, appena adolescenti o quasi, quando accompagnano il padre in un viaggio in Italia. All’inizio del romanzo siamo nel 1995: Mario tocca il suolo italiano – e con quale accuratezza e attenzione e lentezza l’autore descrive questo arrivo! – dopo ben 34 anni da quando, nel 1961, appena diciottenne, lo aveva lasciato per emigrare in Argentina in cerca di fortuna. Una fortuna che si era conquistato palmo a palmo, costruendo in parallelo una bella famiglia, con la moglie Elena e i loro due figli. Ma la mancanza della sua terra è forte e lo riporta in patria, su quelle cime dell’Appennino tosco-emiliano che, guarda caso, sono anche la terra dell’autore che non manca mai di ricordarle in tutti i suoi libri, quasi a onorare un territorio ricco di storia, di passione politica, di cultura solidaristica, e anche…di sane tradizioni gastronomiche.
I luoghi non sono più gli stessi e Mario fa fatica ad accordare la memoria con quello che vede intorno a sé. Ma non si scoraggia e va avanti perché è tornato per restare e per realizzare un progetto a cui ben presto si associa anche la moglie Elena che raggiunge il marito e i figli dall’Argentina.
Una narrazione realistica che non manca di rievocare gli anni della guerra e le atrocità commesse dal nazi-fascismo in un territorio che ha dato un grande tributo di vite e di impegno alla lotta partigiana, così come viene raccontato da Mario ai figli, a partire da un tragico episodio che ha toccato la sua stessa famiglia. Ma l’Argentina non è stata da meno per atrocità: un’analogia con la dittatura fascista che il protagonista ci tiene a sottolineare ricordando l’attivismo delle Madri di Plaza de Mayo contro il regime della Giunta militare, che fece sparire tra il 1976 e il 1983 decine di migliaia di dissidenti.
Un racconto storico rivolto da Mario ai figli, che esprime un’altra grande passione di Malvolti: una passione pedagogica, che conosciamo dagli altri suoi libri, e che evidentemente si fonda sulla convinzione dell’importanza di trasmettere valori e conoscenze e passione civile da una generazione all’altra. Un pregio sicuramente della narrativa del Nostro autore in un tempo in cui si tende invece a cancellare la memoria e ad appiattirsi su un presente che resta privo di radici e di proiezione nel futuro. Il racconto continua con i progetti che Mario e la sua famiglia riescono a realizzare in Italia, lasciandosi alle spalle l’esperienza dell’Argentina, anche se lì vive ormai un altro pezzo di famiglia, il padre di Elena, nonno di Valentina e Diego. Ma si sa che non sempre le cose vanno per il verso giusto: il grande investimento sul nuovo lavoro - un progetto che risente di quella cultura solidaristica che è tipica della sua terra e che Mario conserva come ideale di vita - lo porta a trascurare la famiglia e in particolare il rapporto con la moglie. Da questo nasceranno le incomprensioni che costituiscono il materiale vivo dell’ultima parte del romanzo. Intanto i figli sono cresciuti, sono ormai un uomo e una donna, e nonostante tutto la vita va avanti… Un bel messaggio di trasmissione di valori, di capacità di cimentarsi in imprese che si ispirano a ideali, di resistenza alle contraddizioni che la vita inevitabilmente ci propone e di fronte alle quali non possiamo che fare appello alle nostre risorse e alla nostra
umanità.
La costruzione narrativa è sapiente: Malvolti si inserisce a pieno titolo in quel filone del realismo che ha il suo massimo esponente in Alessandro Manzoni. Abbiamo già detto dello sfondo storico che si intreccia con gli eventi familiari raccontati dal protagonista. Molto efficaci i dialoghi attraverso i quali non solo si trasmette la conoscenza dei fatti del passato, ma si delineano anche i rapporti all’interno del nucleo familiare, con la particolare sottolineatura dell’intento pedagogico del padre e della volontà di trasmettere conoscenze, valori, ideali, ai figli. Da segnalare anche le descrizioni dei luoghi che riflettono il profondo legame che l’autore ha con la propria terra, un legame che viene attribuito ai personaggi del romanzo: fin dall’inizio i luoghi sono nominati e descritti nelle loro caratteristiche attuali e nelle tracce che essi hanno lasciato nella memoria. La narrazione è organizzata in capitoli, ciascuno dei quali ha un titolo che è costituito da un sommario dei fatti che verranno raccontati nel capitolo stesso: un modello che ricorda da vicino il “Pinocchio” di Collodi.
Tanti filoni si intrecciano dunque nell’opera di Malvolti e riconfermano la cifra di una scrittura in cui l’invenzione narrativa si muove tra ricostruzione storica, passione civile, dialogo intergenerazionale, in un intreccio efficace e ricco di una umanità calda e fiduciosa, aperta al futuro e con salde radici nel passato, nella certezza che, qualunque cosa accada, “la vita va avanti”.
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Profumo di farina calda a Buonavena – Quarta di copertina
Pubblicato dieci anni fa con il titolo Il profumo della farina calda e accolto con favore da critica e pubblico (premiato in diciotto Concorsi Letterari in Italia e uno in Svizzera), questo romanzo torna in libreria modificato solo nel titolo e arricchito da una pregevole prefazione di Cristiana Vettori.
Scritto in parte nel 1994 e completato quindici d’anni dopo, conserva un notevole valore storico e regala un’idea di futuro di forte attualità. Viviamo in tempi in cui Economia Green e Sviluppo Sostenibile sono indicati come ultimi rimedi per salvare la Terra; ma sono anche tempi in cui cresce un pericoloso revisionismo storico. Questo libro ha il pregio di immaginare un futuro dove la conoscenza del passato aiuta a costruire un futuro dove la terra, l’acqua, le piante, gli animali, gli uomini e la modernità convivono in reciproco rispetto.
Mario Fontana nasce nel 1943 in un mulino ad acqua in una sperduta valle appenninica. Fin da piccolo conosce la dura vita contadina, la miseria, l’ingiustizia. Della guerra e della lotta di liberazione sente parlare dai clienti del mulino. In cerca di un diverso futuro emigra nel 1959, prima in Francia, poi in Argentina dove si arricchisce sotto la protezione del potente suocero.
Anno dopo anno avverte il richiamo della sua valle e nel 1995 torna, accompagnato da Diego e Valentina, i figli adolescenti. La trova abbandonata, il “suo” mulino è solo un rudere. Ufficialmente è tornato per restituire ai figli le loro radici italiane, ma dentro di sé coltiva la speranza di coinvolgerli nella realizzazione di un sogno: ridare nuova vita ai luoghi che lo hanno visto nascere.
Davanti ai ruderi di quello che un tempo era un punto d’incontro per i valligiani, come se fosse a teatro mette in scena i primi 16/17 anni della sua vita. I figli, unici spettatori, ascoltano curiosi, increduli, anche contrariati. All’inizio, però, sente il bisogno di dialogare con la sua valle, quasi a invocarne il perdono per averla abbandonata e la protezione per il futuro che intende costruire.
“Buonavena!... eri abbarbicata sul lato destro del Fosso e su quello sinistro del Rio della Vena. […] Buonavena! Nessuno è figlio tuo quanto lo sono io. Tu mi hai sfamato, mi hai fatto crescere, mi hai educato. […] Tutto questo mi hai dato, Buonavena, quasi tu fossi un paradiso terrestre, eppure io, ancora minorenne, ti ho tradito e mi sono lasciato lusingare dalle sirene del mondo.”