Questa la raccontava mio padre quand’ero piccola e, pur essendo passati decenni, la ricordo nitidamente.
Pur non avendo studiato, era una persona piena d’interessi, la storia in particolare, e del conte Dalli e della Rocca di Minozzo ne ho spesso sentito parlare. Forse di questa ne esistono diverse versioni che persone anziane della montagna ricordano, anche se il contesto poi non cambia.
Se la memoria non mi porta a qualche inesattezza (della quale chiedo venia), le nozioni apprese da mio padre sono che in origine la Rocca era proprietà ecclesiastica, adibita in seguito a residenza del prevosto e del presidio di soldati stanziati dal vescovo.
Fu in seguito sede municipale e all’inizio del trecento Minozzo cadde sotto la signoria dei Dalli, poi estromessi dai Fogliani, che in seguito dominarono sul territorio. Piuttosto confusamente mi subentrano in testa gli Este e l’Amorotto, ma è sul conte Dalli che mio padre era solito soffermarsi, quasi ci raccontasse una favola, come la seguente.
È soltanto una delle tante attribuite forse gratuitamente al singolare personaggio che fu il conte nel periodo in cui era signore della Rocca. Schivo e solitario, incurante del proprio aspetto quanto del contegno consono al suo rango, allorché si spostava in groppa al proprio mulo, capelli e barba lunghi e a volte cencioso, nessuno lo omaggiava con deferenza e considerazione. Non amava frequentare abitualmente i luoghi limitrofi specie in giorni di fiere o mercati, ma piuttosto spostarsi in centri nei quali nessuno avrebbe potuto riconoscerlo, sbrigando le proprie incombenze in perfetto anonimato.
In tali occasioni, il pranzare in qualche osteria era un rito al quale indulgeva, si presume con segreto compiacimento, nel vedersi relegare dall’oste in qualche angolo appartato, gli occasionali avventori, attratti e divertiti, alcuni a disagio dall’insolita presenza, tenersi possibilmente alla larga dal suo tavolo
Per la gente della montagna anche e soprattutto a quei tempi, il mercato era un avvenimento atteso quanto indispensabile, che richiamava gli uomini per tenersi aggiornati sui prezzi del bestiame, di sementi e concimi, discutere in crocchio, a volte con circospezione, di politica.
Le donne sempre di gran fretta perché a corto di soldi, si limitavano all’indispensabile, a volte neppure quattro chiacchiere per non mostrare l’esiguo bottino.
Era consuetudine che gli uomini non rientrassero per il pranzo e a mezzogiorno le osterie si riempivano, le fiaschette di vino si svuotavano, per poi rientrare verso sera ringalluzziti e a volte malfermi sulle gambe, con le bisacce alla spalla o le garbagne poste in sella ai muli, colme degli acquisti effettuati.
Un giorno sul piazzale di un’osteria assai distante da Minozzo, si vide uno strano individuo legare il proprio ronzino ad uno degli appositi anelli infissi appositamente sul muro ed entrare, spaziando con lo sguardo in cerca di un posto appartato, facilitato in questo dall’oste che, accostata una sedia a una madia posta in un angolo, gli fece cenno d’accomodarsi lì, in disparte dagli altri avventori.
Senza togliersi né il cappello né la mantella, costui vi si lasciò cadere, uno sguardo in tralice ai tavoli tutti occupati, l’ostessa aggirarsi con cesti di pane e tegami dai quali si sprigionavano invitanti aromi. In tale giorno l’intingolo di cotiche e fagioli era il più richiesto come companatico alla polenta. Appressatasi a lui la donna gli domandò:
“Cosa posso servirvi buon uomo?”
“Cinque fette di polenta di castagne e una pinta di vino” rispose, senza neppure sollevare gli occhi. Un coro sommesso di risatine si propagò dai tavoli vicini.
“E…come companatico”?
“Aggiungete altre due fette di polenta ma di farina di granturco”.
Perplessa la donna tornò in cucina riempiendo un piatto di quanto richiesto, sul quale lui si tuffò e in meno di tre minuti lo ripulì. Centellinato parsimoniosamente il vino sino all’ultima goccia, con un cenno della mano richiamò la donna chiedendo il conto. Consultatasi col marito impegnato ora alla cassa, di comune accordo decisero di soprassedere, che il loro buon cuore non avrebbe mai negato a nessun poverello qualche fetta di polenta. Tornata presso di lui lo espresse con garbo, ricevendo di rimando uno sguardo più irritato che riconoscente.
“Ho chiesto il conto mia signora, siete sorda”?
Arrossendo confusa lei gli indicò di portarsi alla cassa, un cenno d’intesa col marito.
“Un centesimo” si sentì dire dall’oste, la cifra scarabocchiata col lapis su un foglietto. Dopo aver rovistato nel tascone della mantella, estratta una moneta d’oro di notevole valore, lo strano avventore la pose sul banco avviandosi spedito verso l’uscita.
Superato l’attimo di sbigottimento, l’oste s’avvide di non avere neppure in cassa la cifra corrispondente al resto e d’acchito si precipitò sullo spiazzo, la moneta stretta in pugno, quando già lo stravagante cliente, slegato il mulo, s’apprestava a cavalcarlo.
“Signore…ehi signore, tenete la vostra moneta. Non ho neppure il resto.”
Non si aspettava certo il generoso galantuomo quella risposta:
“Il conte Dalli non piglia mai il resto”.
L'apparenza a volte inganna, e la nobiltà delle persone non si giudica dall'abito.
Ave Govi
Bellissima favola, Savino sei grande, un caro saluto .
una tua ammiratrice
EldaZannini
Bellissima….e anche un pezzo di Storia!
Valterino Malagoli