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L’ultima omelia di Camisasca: “i poveri, ricevuti da me come dono”

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Oggi in cattedrale a Reggio l'ultima omelia nella santa Messa di Massimo Camisasca. La pubblichiamo integralmente.

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Cari fratelli e sorelle,

con questa celebrazione eucaristica si conclude la mia presenza tra voi, almeno dal punto di vista fisico. Essa continuerà, infatti, nella preghiera, nella memoria, nell’affetto e nell’amicizia con molti di voi.

Questa Messa non è soltanto una conclusione. Essa è piuttosto una sintesi, cioè l’offerta di questi miei nove anni al Signore. Vorrei restituire a lui ciò che mi ha donato affinché egli ne tragga il frutto che desidera per il Regno di Dio e per la sua gloria nel mondo.

Questi anni di ministero episcopale sono stati innanzitutto un dono. Non trovo parola più espressiva di questa. Un dono assolutamente immeritato e inatteso che Dio ha fatto alla mia vita. Mi ha concesso una partecipazione alla vita di suo Figlio attraverso le responsabilità che mi erano affidate. Il ministero episcopale, infatti, consiste innanzitutto nel prendersi cura del corpo di Cristo che è la Chiesa. La Chiesa universale, consegnata al collegio degli Apostoli sotto la guida di Pietro, e la Chiesa particolare, emergenza della Chiesa universale in questa terra reggiano-guastallese.

Prima ancora che di fronte alle varie incombenze che subito hanno occupato il mio animo, ho sentito la mia infinita sproporzione di fronte a Cristo che mi chiedeva di pascere il suo gregge. Oggi, al termine di questo mio mandato, oltre a rendere grazie, devo chiedere in ginocchio il suo perdono per tutte le mie mancanze, non solo per ciò che avrei potuto fare e non ho fatto, ma anche per ciò che avrei potuto essere e non sono stato, per la superficialità con cui ho accolto la grazia di Dio e risposto al suo amore. Se egli mi ha chiamato, ne sono certo, non mancherà di perdonarmi. Anche in grazia della vostra preghiera, grande risposta alla mia piccola donazione.

Nella mia gratitudine a Dio desidero ora collocare il riconoscimento verso tante persone che in questi anni mi sono state vicine, chiedendo già da ora scusa a chi non riuscirà ad essere menzionato.

Voglio innanzitutto dire il mio grazie a mons. Alberto Nicelli, mio Vicario Generale durante otto dei nove anni trascorsi con voi. Ricordo molto bene la sua resistenza di fronte alla mia designazione. Essa è stata per me un segno decisivo. Don Alberto ha vissuto accanto alla mia persona questo tempo spendendo senza risparmio le sue energie, soprattutto attraverso la vicinanza ai sacerdoti e ai diaconi, colmando le lacune della mia. È stato un collaboratore assolutamente leale. Senza esagerare in lodi per il mio operato, mi ha sostenuto in ogni decisione che assieme abbiamo preso. Accanto a lui desidero esprimere il mio grazie più sincero ai Vicari episcopali che si sono succeduti in questi anni. Il Consiglio episcopale, radunato con una periodicità mensile, è stato per me una vera esperienza di comunione o, come si usa dire oggi, di sinodalità. Il governo di questa Chiesa è sempre stato sinodale. Abbiamo camminato assieme ascoltandoci in occasione di ogni più piccola o grande decisione. Quasi nulla della vita della Diocesi era sottratto al Consiglio episcopale e alla sua valutazione. Per me, e penso anche per tutti i membri del Consiglio, il ritrovarci è stato una scuola: imparare a decidere assieme sotto lo sguardo di Dio, avendo a cuore soltanto il bene delle persone, anche quando tutto ciò doveva costare amarezza e infine, come è giusto che sia, obbligare il vescovo a una parola definitiva.

Assieme al Consiglio episcopale, voglio qui ricordare il Consiglio presbiterale che mi ha aiutato nel cammino verso la nascita e la crescita delle Unità Pastorali. Gli Uffici pastorali e amministrativi sono rinati anch’essi in una nuova forma di unità e collaborazione, in un lungo ma fruttuoso ripensamento del volto stesso della vita della Diocesi.

 

La Visita Pastorale è stata per me un’esperienza faticosa, ma bellissima. Mi ha portato a contatto diretto con i volti e le esperienze delle nostre comunità. Ho potuto cogliere, pur nella drastica riduzione numerica, la viva trasmissione della fede attraverso le generazioni del nostro popolo e la necessità di un ripensamento radicale delle forme educative ed espressive della vita della Chiesa, accompagnati dal lungo itinerario del magistero che dall’Evangelii nuntiandi di Paolo VI ci ha portati fino all’Evangelii gaudium di Francesco.

Attraverso la Visita Pastorale ho potuto ammirare la vita e la dedizione di tanti nostri preti, conoscendo, per via indiretta, anche molte figure del passato recente che hanno illuminato la vita della nostra Chiesa. Forse non sono riuscito ad esprimere adeguatamente la mia ammirazione e il mio affetto per ciascuno dei nostri presbiteri e dei nostri diaconi. Sappiate che nessuno è mai stato escluso dalla mia preghiera, dalla mia considerazione, dal mio desiderio di bene.

 

Nella nostra Chiesa ho incontrato la realtà, che non conoscevo, dei diaconi permanenti. Ho dedicato subito molte energie per entrare in rapporto con loro, fino alla scrittura della lettera pastorale ad essi dedicata, che rappresenta forse un unicum nelle nostre Chiese. Il diaconato permanente richiede ancora una riflessione teologica che dopo il Vaticano II non è stata adeguatamente compiuta. Mentre la vita presbiterale esige piuttosto una riflessione pastorale che rifletta sui cammini formativi e ponga la vita comune, come più volte ho avuto modo di sottolineare, al centro delle nostre comunità.

 

La vita religiosa, purtroppo, ha dovuto registrare l’abbandono di tante comunità, soprattutto femminili, che erano un bene prezioso per la nostra Chiesa diocesana. Saluto e ringrazio le comunità religiose femminili che sono rimaste al servizio delle parrocchie. Ricordo ugualmente la preziosa presenza dei Cappuccini in tante opere della nostra Chiesa. Prego il Signore che custodisca e rinnovi la presenza della vita monastica, in particolare quella dei Servi di Maria, delle Clarisse, delle Serve di Maria, delle Suore cappuccine e delle Carmelitane, faro luminoso che indica i beni più preziosi per la vita presente e futura. Saluto con molto affetto le sorelle dell’Ordo virginum e le eremite che ho cercato di alimentare e accompagnare in questo mio tempo reggiano.

 

La mia casa, la casa del vescovo, è stata sempre aperta all’accoglienza e all’incontro con tante comunità, soprattutto di giovani e di famiglie. La nostra Chiesa vive per la forza del battesimo e della fede, come per l’attesa di Cristo, di numerosissimi laici. Lo Spirito non smette mai di suscitare la fede, la speranza e la carità. Esse sorgono nel cuore degli uomini, prima ancora che per iniziativa nostra, per opera della grazia di Dio. Spetta a noi, però, intercettare, riconoscere, valorizzare ed educare ciò che lo Spirito fa sorgere, anche se ciò è molto diverso da quanto avevamo preventivato. Talvolta gli schemi pastorali o teologici cui siamo abituati ci impediscono di vedere il nuovo che sorge, così come rendono più lento il nostro cammino di uscita verso i luoghi dove le persone vivono, accontentandoci drammaticamente che esse vengano da noi.

 

Quando entrai in Diocesi dissi che avrei voluto dedicare il minor tempo possibile alle questioni amministrative. Esse in realtà hanno occupato molte delle mie energie essendo strettamente connesse al ministero dell’evangelizzazione. Ho avuto buoni collaboratori in questo campo, che desidero qui ringraziare. Abbiamo potuto realizzare il pareggio di bilancio, conoscere – non senza fatica – le entrate e le uscite dei vari Uffici e centri diocesani, e affrontare, anche con decisione, il debito straordinario che gravava sulla nostra Chiesa. È stata questa una delle ragioni che ha rivolto la mia attenzione all’immenso seminario, in gran parte vuoto, e alla necessità di far fronte a una sua diversa collocazione. Collaborazioni, che definirei miracolose, hanno permesso di realizzare questo sogno.

I seminaristi sono stati al centro della mia cura. Ho dedicato ad essi molto tempo e molte lezioni. Ho cercato di aiutare i rettori e i vicerettori nel discernimento dei candidati. Anche se ridotto numericamente, il seminario rimane il cuore della Diocesi. Dio non smette mai di chiamare al sacerdozio ordinato. La nostra pastorale, giovanile e vocazionale, aiutando a riscoprire la vita come vocazione, valorizzando ogni tipo di strada che conduce a Dio e di ministero nella Chiesa, favorirà il sorgere di nuove vocazioni presbiterali. Lascio alla nostra Chiesa la mia seconda lettera pastorale che raccoglie la sintesi delle mie indicazioni per un cammino dei giovani verso la realizzazione della loro vita.

Grande importanza ha avuto per me lo Studio Teologico Interdiocesano, che auspico possa continuare e approfondire la sua missione tra noi, assieme alle altre occasioni di formazione che la Diocesi ha generato in questi ultimi decenni: la Scuola Teologica Diocesana e le scuole teologiche sparse sul territorio.

 

Durante il mio ministero episcopale ho incontrato, attraverso i loro figli e figlie, don Dino Torreggiani e don Altana, don Mario Prandi, don Pietro Margini. Ho sentito perciò mio dovere lavorare con assiduità alla revisione degli Statuti delle comunità da loro nate, non per una mania canonistica, ma per un amore ecclesiale alla crescita di queste realtà. In questa direzione ho favorito la ripresa dell’inchiesta diocesana in vista della beatificazione e canonizzazione di don Torreggiani e l’apertura e conclusione di quella di don Margini.

Numerosissime sono state le occasioni di incontro con persone e realtà comunitarie, con imprenditori, professionisti, artisti. Voglio qui salutare le associazioni, i movimenti e i gruppi, presenze decisive per la vita di una Chiesa, e augurare loro, nel solco dei rispettivi carismi, una fecondità sempre più grande di missione nella società.

 

Ho cercato di favorire l’espressione culturale della fede nella consapevolezza che quest’ultima non si lega mai definitivamente a nessuna cultura, ma nello stesso tempo porta dentro di sé l’esigenza di esprimersi in forme di vita che la rendono incontrabile e apprezzabile dagli uomini di ogni tempo. La fede non può restare confinata nel segreto delle coscienze o nel chiuso delle chiese e delle sagrestie. Senza l’aria della sua espressione sociale, muore.

 

Dalla nostra Chiesa e dalla sua lunga tradizione ho ricevuto molti regali. Due qui vorrei ricordare soprattutto: il dono della Parola di Dio e il dono dei Poveri. Certamente non mancavano alla mia vita queste attenzioni, come fioritura della vita sacramentale. Altrimenti non sarei stato cristiano. Qui ho sentito ripresentare più volte l’importanza della Parola di Dio. Sono stato quasi obbligato a riscoprirla, soprattutto nella consapevolezza che la religione cristiana non è la religione del libro. La Parola di Dio è il Verbo fatto carne. In particolare, la Sacra Scrittura è la documentazione normativa della sua attesa, preparazione e avvento, a cui sempre dobbiamo rifarci per comprendere e vivere la sua venuta nell’ora presente. Ad essa dobbiamo quotidianamente alimentarci affinché il nostro amore per Cristo e la nostra conoscenza di lui crescano di giorno in giorno. La meditazione della Sacra Scrittura, soprattutto in una lettura sapienziale, che sappia coglierla nel suo insieme, genera la sete dell’Eucarestia e accompagna le nostre giornate con una luce sempre nuova.

A questo riguardo, vorrei qui accennare alle mie attenzioni per liturgia. Lascio a questa Chiesa la mia lettera pastorale e i tanti insegnamenti che ho avuto occasione di esprimere, nella consapevolezza che, come ci ha insegnato il Concilio, la liturgia è un’esperienza fontale e sintetica della vita cristiana.

Il secondo dono che ho ricevuto da questa Chiesa sono i poveri. Già entrando in Diocesi, nel mio primo incontro con i detenuti dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ebbi a dire che i poveri sono Cristo, non solo un’icona di Cristo. Il realismo della vita cristiana ci impedisce di vedere nei segni di Cristo qualcosa di lontano, semplicemente una metafora, un’immagine. I poveri sono parte privilegiata del corpo di Cristo perché ci richiamano continuamente, non soltanto all’abbassamento di Dio nella forma umana, ma soprattutto alla nostra condizione creaturale. Ci richiamano alla sete che Cristo ha di noi. A un uso saggio dei beni. Alla distribuzione dei doni ricevuti. All’umiltà e alla condizione miserevole e bisognosa di grazia della nostra umanità pellegrina.

 

Durante il mio cammino a Reggio Emilia ho potuto sperimentare, quasi fisicamente, la presenza dei santi nella mia vita, in particolare dei nostri patroni, del beato Rolando Rivi, di san Giuseppe e di Maria. A lei, venerata nella nostra Cattedrale come Vergine Assunta, nella Basilica della Ghiara in adorazione di Colui che aveva generato e nella Basilica di Guastalla come Madonna della Porta, affido ciascuno di voi e il tempo che ancora mi rimane da vivere.

 

+ Massimo Camisasca