La prima volta che sentii proferire questa espressione fu da bambino in casa dei nonni materni, a Vaglie, nella cucina della cara nonna Arnè.
Potevo avere dieci/dodici anni, primi anni sessanta e doveva essere primavera, poiché la luce del ricordo, sconfiggendo la nebbia del tempo, mi porta l'immagine chiara del pero centenario in fiore.
Quel pomeriggio l’Argia, una cugina di mia nonna, le aveva fatto visita portando con se una bella pagnotta di pane casereccio, di quelle alte, lievitate il giusto, con la crosta croccante, cotta nel forno a ridosso dell'aia. A quei tempi costumava molto farsi piccoli doni tra parenti per tenere acceso il senso di appartenenza allo stesso ceppo d’origine, sempre molto importante nei paesi. Fette di kersenta, (gnocco fritto) piuttosto che biscotti fatti in casa o liquori estratti dalle bacche di ginepro o di mirtillo. Muri di sasso che trasudavano lavoro e amore per la famiglia in un contesto orgoglioso per il paese. Tra questi muri importanti io me ne stavo irrequieto, un po' dentro la cucina, un po' fuori in cortile, come diceva la santa donna di mia madre: “Et ghe l'arjent viv ados…!”. Nonostante tutto, ascoltavo attentamente ogni loro parola. Argia depose la pagnotta sul tavolo, mentre la nonna la invitava a sedersi: “Cosa posi ofrit Argia per ringraziat: un gosc ed tè con du biscot o un bicrin ed marsala…!?” e così dicendo mise mano alla bottiglia del marsala nel tricanton.“ An pos ter vitta...” rispose mestamente l’Argia, “perché a gò un po' ed diabet che om fa tribolar, ma at ringrazie per e pinser...” e contemporaneamente rovistò nella grande tasca del grembiule alla ricerca di un fazzoletto per poi soffiarsi prepotentemente il grosso naso. “Va ben...” continuò la nonna… “ Cm'et ve… o srà per n'atra vota!” La conversazione andò avanti per un po’ di tempo, parlarono delle stagioni e degli orti che da lì a poco dovevano essere zappati per essere pronti ad ospitare le nuove sementi. Poi, il momento del commiato, e tra gli abbracci e le promesse di rivedersi il giorno dopo, ecco sortire da nonna Arnè la frase curiosa per cui sto cercando di scrivere il contesto: “Dio tl'armirta in Paradis, Argia!”, che per i non addetti ai lavori sta per : “Dio te ne renda merito in Paradiso, Argia!” e lei: “Grazie… ma e pel aspetar ancora un po'… ciao Arnè!”.
Bel ricordo e simpatiche frasi dialettali, cerchiamo di non far morire il nostro bel dialetto, grazie.
EldaZannini
Il dialetto è la lingua del nostro sangue, tuttavia è sempre più difficile riuscire a tramandarla alle nuove generazioni ed i motivi sono tanti, probabilmente anche per colpa nostra.
Grazie di leggermi,
Alberto
Alberto Bottazzi
È vero, il dialetto è una lingua vera e propria.
Non perdiamola. Il nostro Appennino è ricco di dialetti, così diversi tra loro! Ogni paese ne ha uno proprio.
Negli ultimi anni c’è stata un po’ la “riscoperta” delle tradizioni e tra queste anche i dialetti! Insegnamolo ai nostri figli e alle nuove gerazioni! Divertente il racconto!!
Grazie!
Marcella
Marcella
Complimenti, bellissimo racconto.
Riporta la memoria al passato e fa intenerire il cuore.
Grazie
ms
Grazie signor Bottazzi, finalmente ho scoperto il significato esatto del termine “Dio tl’armirta”, che mia suocera pronunciava spesso dal suo letto, come segno di gratitudine per qualche piccoli servizio di assistenza fatto col cuore.
Ivano Pioppi
Grazie a tutti i lettori per aver contribuito alla buona riuscita del racconto.
Alberto Bottazzi
Alberto Bottazzi