I racconti di Ave partono da un fatto vero, accaduto nel territorio di Villa dove è nata, per cui, a chi ha qualche annetto, sarà facile individuare i luoghi e riconoscere le persone.
Il maestro
Correva l’anno… È così che di solito s’inizia a riepilogare un qualche evento meritevole di non essere relegato nel dimenticatoio, immagini a volte più del cuore che della mente. Correva infatti l’anno 1949 quando, entrando in classe il primo giorno di scuola, trovammo già insediato alla cattedra il maestro, che ci accolse con un sorriso quasi timido. In silenzio dopo il rispettoso buon giorno, raggiungemmo ognuno quello che ritenevamo essere ancora il nostro banco, occupato per l’intero anno precedente e restando comunque in piedi come in attesa. Le sacche di stoffa adibite a cartelle le avevamo gettate sotto essendo i banchi sprovvisti di supporto.
Mi ero svegliata presto quel mattino, felice di tornare a scuola, già una strizza di malinconia sapendo che sarebbe stato l’ultimo anno. Quanto mi sarebbe mancata! Lungo la strada avevo cercato tuttavia di accantonare quella molesta intrusione. Eccolo di nuovo l’odore dell’inchiostro, di legna bruciata, la polvere di gesso sulla lavagna. La carta geografica e qualche disegno sulla parete.
“Seduti bambini, seduti”, ci disse subito il maestro ma senza autorevolezza, di nuovo un sorriso che ci rincuorò. Avendo avuto l’anno precedente un insegnante severo e a volte collerico, nessuno di noi sapeva cosa aspettarsi.
“Passeremo dopo all’appello” iniziò. “Ora voglio dirvi qualcosa di me. Mi chiamo Primo Ruffini e sono nato a Monteorsaro anche se ora risiedo a Villa. Col tempo impareremo a conoscerci e farò del mio meglio per essere un buon maestro, e mi auguro voi diligenti scolari”. Aperto il registro sulla cattedra riportanti i nomi e le votazioni dell’anno precedente, aveva preso a sfogliarlo alzando a tratti la testa e spaziando con lo sguardo, nel tentativo forse di attribuire una classifica e un ruolo a ciascuno di noi. La scuola di Carniana in quel periodo era una baracca di legno e cartone situata all’inizio della strada per La Rocca, gruppetto di case a cinquecento metri di distanza, costruita nell’immediato dopoguerra in seguito alla distruzione dell’altra.
Tre stanzoni messi in fila su uno stretto corridoio, il servizio igienico un bugigattolo sul fianco con su una tavola a mo’ di passerella sospesa sulla buca. Sicuramente non era la sola scuola di quel genere nei dintorni, dal momento che la guerra era passata come un rastrello, rasando al suolo il più possibile. Nell’angolo opposto alla cattedra presso la finestrella, era stata collocata una stufa in ghisa, di quelle basse col piatto davanti, il compito di provvedere alla legna nel corso dell’inverno assegnato a turno a ciascuno di noi. Dopo l’appello non ci furono scritti quel primo giorno, una mezza pagina di lettura ciascuno, l’elenco dei libri e del materiale ai quali i nostri genitori avrebbero dovuto provvedere. Usciti, prima di smistarci verso casa, ci scambiammo il giudizio riportato, tutti concordi nel ritenere non fosse della stessa stoffa di quello che l’aveva preceduto, ancora ben presente il terrore provato in determinate occasioni. Quella prima impressione mai lo smentì. Come facesse a restare sempre così calmo in determinati momenti, a volte me lo chiedevo, responsabili alcuni compagni talmente avulsi allo studio e irrequieti, d’arrecare disturbo persino agli altri concentrati sul quaderno. Mai però le parole asino o somaro le si sentì pronunciare, epiteto che spesso avevamo sentito rintronare nell’aula. Persino scritte su un cartello applicato sulla schiena, fatto fare di seguito il giro nelle altre aule.
In quella baracca dalle pareti sottili, l’eco era come un tam-tam ricorrente da una stanza all’altra, persino le lezioni che si tenevano in ognuna, si sovrapponevano a volte. Quella del canto tenuta dalla maestra Polacci residente in paese, che si era scelta l’aula di mezzo, più calda e ben riparata, rappresentava una specie di forzato intervallo, dato ormai per scontato e subìto senza proteste dal maestro. Sobbalzavamo tutti quanti lui compreso, quando a metà mattina, durante una spiegazione o un interrogatorio, l’attenzione veniva risucchiata da quel rituale non di certo compreso nel programma. Col senno di poi, presumo fosse la consapevolezza che quello sarebbe stato l’ultimo anno di scuola a farmi assorbire ogni dettaglio, far tesoro persino degli aspetti negativi sapendoli transitori e irripetibili. Sono quasi certa che fu proprio quel maestro a inculcarmi l’interesse e in seguito l’amore per la poesia. Nel corso delle letture delle medesime, ero spesso chiamata, accompagnato da : “Leggila con grazia, se vuoi capirne la bellezza”. In segreto lo veneravo.
Si era ormai giunti a fine anno scolastico, e un giorno tornando dopo aver fatto compere a Villa, mentre sedevamo a tavola per la cena, avvertivo senza capirne la ragione lo sguardo insistente di mio padre. C’era in esso un sottofondo di titubanza, d’impaccio, quasi dovesse dirmi qualcosa che gli riusciva difficile esprimere. Poi: “Ho incontrato il tuo maestro in piazza”. E… Pazientai in attesa del resto.
“Mi ha detto che dovrei farti continuare gli studi.” Solo quello, e se non fosse stata l’insistenza di mia madre a chiedere altro, non l’avrebbe di certo riportato. Lui quasi se ne risentì. “Cosa avrei potuto dire se non che non ne ho i mezzi, che sono appena tornato dopo oltre cinque anni di prigionia, il quarto figlio appena arrivato”? Così si chiuse la mia parentesi scolastica.
Decenni dopo… Quanti? Ora di punta sull’autobus numero 1°, il mio tragitto giornaliero al ritorno dal lavoro. Salgo ed essendo piuttosto bassa di statura, con fatica m’aggrappo al corrimano posto in alto, osservando se mi fosse stato possibile portami più vicino all’uscita. Sbirciando avanti, scorgo un profilo con un che di familiare, la testa sovrastante quasi tutti gli altri, capelli bianchi. Un tuffo al cuore: no, mi sbaglio, non può essere lui. Eppure sì. Quando lo vedo girarsi e appiattirsi contro il sedile per agevolare una signora che s’apprestava a scendere, ne ho la piena certezza. Figure come la sua non si dimenticano facilmente e neppure cambiano molto pur nella vecchiaia. Ancora impeccabile nel suo completo grigio, camicia bianca e cravatta, la distinzione innata che madre natura gli aveva riservato. Ora a separarci c’è soltanto una persona, allungando il braccio avrei potuto toccarlo. Ma poi, cosa dirgli? Perché avrebbe dovuto ricordarsi di me? Perché metterlo in imbarazzo costringendolo a frugare nella mente? Eppure…Allungo la mano, ma non c’è più tempo. Con un sussulto, alla fermata dell’ospedale Santa-Maria-Nuova l’autobus si ferma, le portiere si spalancano e lui scende, presumibilmente in visita a qualcuno. Lo osservo un’ultima volta fermo lì sul marciapiede in attesa di poter attraversare, mentre il bus riparte. Non me lo sono mai perdonato.
Quando, da non più giovani, capita di ripercorrere la propria vita, ci si può accorgere di quanto abbiano influito sulla nostra formazione, e sul nostro crescere, talune persone – ossia la loro personalità, il loro comportarsi, i loro consigli e racconti, e anche le loro rispettive vicissitudini – e tra queste ci sono non di rado figure di insegnanti, appartenenti agli anni della nostra giovinezza, cioè alla stagione nella quale, in ciascuno di noi vanno maturando carattere, indole, temperamento, ..….
Storie come questa – ogniqualvolta abbiamo modo di leggerle sulle pagine di Redacon – dal momento che ci riportano al passato dei nostri luoghi e alle abitudini di chi vi abitava, credo possano avere un duplice e benefico effetto, stimolare da un lato i nostri personali ricordi, e ispirare nel contempo sentimenti di identità ed appartenenza, che a me sembrano positivi, anche perché ci portano solitamente ad amare i nostri posti (ma c’è invece chi non apprezza granché tali stati d’animo).
P.B. 06.10.021
(P.B.)
Certamente qualcuno non li apprezzerà, però il numero delle letture parla chiaro.
Complimenti ad Ave e al nostro Savino, questo racconto mi ha fatto tornare sui miei banchi di scuola. Elda
(EldaZannini)