La notizia è che dopo cento anni di duro lavoro di ricostruzione, ora ci siamo: anche noi in Appennino abbiamo un piccolo patrimonio forestale. Niente di straordinario se confrontato ad altre aree del pianeta, ma qualcosa si inizia a vedere. Di rilevante c’è il tasso d’incremento di superficie dei boschi che in Europa e in Italia è stato sostenuto per decenni; va detto però che nel nostro Paese partivamo da una situazione desolante.
A livello nazionale siamo arrivati a più di un terzo della superficie ricoperta da boschi, ma in molti comuni d’Appennino, la foresta ricopre i tre quarti del suolo.
Una lunga e travagliata evoluzione storica C’è chi dice che ci siano più boschi ora che nel Medioevo o che i boschi siano troppi e cancellino le tracce della civiltà contadina:
la verità è che l’Appennino è sempre stato uno spettacolare ponte verde fra Europa e Mediterraneo con un clima estremamente favorevole alla vegetazione arborea. Siamo
stati noi a tagliare, dissodare, pascolare, riducendo alla fine dell’800 le nostre foreste a piccoli boschetti sparsi qua e là nei luoghi più impervi e difficili.
Verso la fine del diciannovesimo secolo, una popolazione in continuo aumento e dedita ad attività agro silvo pastorali ha dissodato e lavorato terreni fin sopra le montagne,
ma a dare il colpo di grazia alle residue foreste è stata la nascente industria che ancora non utilizzava i combustibili fossili e che ha rasato a zero i versanti dell’Appennino.
Poi, piano piano, ci si è resi conto del disastro compiuto e del peggioramento della vita in montagna e nelle sottostanti valli e città, così si è iniziato a ricostruire.
A causa dei dissennati disboscamenti era andata perduta la capacità di regolazione del ciclo dell’acqua: frane ed erosione colpivano campi, valli e infrastrutture.
Lo Stato iniziò a comprare pezzi di montagne, fu istituita l’Azienda di Stato per le Foreste demaniali e successivamente il Corpo forestale dello Stato e cominciarono i rimboschimenti e le sistemazioni idrauliche.
Nel Parco dell’Appennino e nella Riserva di Biosfera si trovano importanti testimonianze di questi investimenti: la foresta demaniale val Parma e val Cedra, la Riserva
dell’Orecchiella, la foresta demaniale della val d’Ozola, l’Abetina Reale; nell’Appennino modenese, Capanna Tassoni o la Maccheria e in Lunigiana il Passo del Bratello. Questi
territori dove sono stati ricostruiti boschi e fiumi sono diventati il cuore di molti parchi nazionali, e il nostro non fa eccezione.
Il bosco dopo cento anni è tornato e non sappiamo bene cosa fare Ora, dopo cento anni, direi all’improvviso, ci siamo accorti che grazie a investimenti e lavoro, ma anche
ai grandi cambiamenti economici e sociali, il bosco è arrivato: lo si vede dai colori dell’Autunno, lo si vede perché le montagne sono più dolci poiché ricoperte ovunque da un
mantello di rami e foglie che smorza la profondità delle valli e l’acutezza dei picchi. Dopo l’epoca dei rimboschimenti che vide protagonisti migliaia di operai forestali, dopo
quella delle conversioni dei boschi cedui all’alto fusto, stiamo entrando in una fase nuova e non sappiamo bene cosa fare.
Non abbiamo le basi culturali per affrontare questa novità; d’altra parte, in Emilia siamo un popolo di allevatori che ha sempre usato il bosco come parte residuale dell’azienda
agricola, mentre il versante toscano del Parco e della Riserva è talmente rapido che non ha consentito lo sviluppo di una selvicoltura evoluta come per esempio nel Casentino.
La ragione principale sta però nel fatto che per varie generazioni la foresta non è stata presente, non ha fatto parte del paesaggio e della cultura delle comunità. Si è sempre
tagliato il bosco ceduo per un po’ di legna da ardere nella stufa e in fondo, avere alberi come faggi e querce, che una volta tagliati ricacciavano dai ceppi, ha reso tutto molto
facile e non ci ha costretti a pensare e attrezzarci per forme di gestione più complesse ed evolute.
Così siamo arrivati disorientati a oggi: c’è qualcuno che fa un po’ di legna, altri che intendono proteggerlo integralmente, alcuni utilizzarlo solo per svago... La proprietà, quasi
sempre privata, è divisa in un’infinità di micro-appezzamenti che sono sufficienti al sostentamento di piccoli nuclei famigliari, ma non certo a una gestione economica della foresta.
I piccoli proprietari svendono i loro boschi in piedi, ricavando miserie, a imprese che hanno ristretti margini di guadagno.
Una nuova consapevolezza: il bosco ha tante funzioni Durante questo strano periodo di pandemia, però, nella pubblica opinione si è accesa una luce: è aumentata la consapevolezza dell’importanza di altri servizi che sono erogati dalle foreste, come la regolazione dei cicli dell’acqua e dell’aria, la conservazione della biodiversità, la capacità di immagazzinare
il carbonio atmosferico, la produzione di principi attivi per curarci, la produzione di prodotti del bosco e del sottobosco come castagne, funghi, miele, fragole, mirtilli e lamponi.
Soprattutto è balzato agli occhi di tutti il valore di avere uno sprazzo di natura dove ristorarsi di fianco alla porta di casa.
Obiettivo: vedere riconosciuto il valore dei servizi ecosistemici Il riconoscimento universale del valore dei servizi che gli ecosistemi forestali regalano è un obiettivo prioritario; probabilmente il più importante di tutti, poiché ci consente di entrare in un’era nuova. Nei boschi si può far legna o ancora meglio legname, ma dobbiamo tenere sempre conto che sono sistemi complessi e che quello che si fa dev’essere compatibile con le altre funzioni. Possiamo specializzare i nostri boschi in base alla funzione prevalente (produrre legna, conservare biodiversità, lo svago) oppure richiedere a un unico bosco molteplici funzioni.
Ci si interroga su quale sia l’approccio migliore, ma probabilmente la risposta è che dipende dalle diverse situazioni e soprattutto dalla scala di riferimento: per esempio molte persone vorrebbero che le nostre foreste non fossero mai tagliate, ma siccome le stesse persone acqui stano mobili e altri oggetti in legno provocano il taglio di boschi in altre parti
del mondo, causando impatti uguali o peggiori su altri ecosistemi che a loro volta degradandosi provocano impatti sui nostri boschi, come le conseguenze del riscaldamento
globale.
Il tema è complesso e non esiste una soluzione univoca.
La cosa più importante è la consapevolezza e l’orgoglio per il valore del patrimonio che abbiamo ricostruito. È stupido svenderlo per poco poiché vale molto di più di quello che
oggi pensiamo e questo valore salirà ancora. La legna da ardere è un buon prodotto dei boschi d’Appennino e crea occupazione e reddito, ma presto cominceranno a essere remunerati anche altri servizi che le foreste erogano agli abitanti delle montagne e delle città. Questo non significa che non si taglierà più il bosco per far la legna, ma che si potrà
gestire la foresta in modo nuovo e inaspettato.
Tutto questo sarà possibile solo se riusciremo a salvare le foreste, e quindi anche noi, dall’impatto del riscaldamento globale.
(Giuseppe Vignali è direttore f.f. del Parco nazionale dell’Appennino tosco emiliano)
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Leggi Apenninus n. 3 su Redacon ""Valori e colori dei nostri boschi" (i pezzi si aggiungeranno man mano che saranno pubblicati nei prossimi giorni)
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Action plan Riserva di Biosfera Mab Unesco dell’Appennino tosco emiliano