SocialMonti
Questa rubrica vuole essere un luogo di spunti per stimolare una riflessione corale e collettiva su temi di attualità. L’idea è quella di partire dal nostro territorio verso cerchi più ampi, o vice versa ascoltare gli echi lontani e portarceli vicini.
(Ameya Canovi *)
Nelle ultime ore parte del nord Italia annega in uno stato confusionale. Eppure gli italiani sono persone capaci, resilienti, spiritose e ingegnose. Come mai un senso di totale anarchia si è impossessato dei più, facendogli compiere gesti insensati e rischiosi per sé e per gli altri?
Cosa fa scatenare il panico totale o la più sconcertante incoscienza?
Lo smarrimento collettivo non risparmia nessuno. Le comunicazioni dall'alto sono ambigue, opache, poco chiare.
Ciò che più spiazza e porta a comportamenti scorretti è il non sapere. Il virus non si vede, è invisibile, incontrollabile, sconosciuto, ignoto. E all'incertezza non eravamo più abituati. Pensavamo di essere organizzati e invincibili.
C’è un’ottusità diffusa dovuta a una vaghezza di fondo. Una paura indefinita che emotivamente diventa difficile da reggere.
Le indicazioni sembrano chiare: evitare contatti il più possibile. E la stazione di Milano centrale si riempie.
State in casa, dicono. E i parchi si affollano.
Stupidità? No.
Le motivazioni sono più gravi e profonde a mio parere. Il cancro sociale ben peggiore del virus ha a che fare con l’auto responsabilità. Nessuno ce la insegna. E questa incapacità a prendersi cura di sé rende le persone mine vaganti senza meta, senza un centro di gravità anche momentaneo.
La difficoltà che emerge in questa situazione in tutta la sua verità è l’inabilità a stare. Quel monito “state a casa” dà per scontato il saperlo fare.
Lavorando con persone con problemi di dipendenza relazionale vedo ogni giorno che “stare a casa” da un punto di vista psicologico è una condizione sconosciuta. Presuppone avere una “casa”, e non parlo in senso materiale ma interiore. Stare spaventa chi vive nel fare. E chi non ha una quiete interiore deve andare, deve riempire, perché il vuoto non viene retto. E così si ritrovano tutti ammassati di nuovo, nel tentativo disperato di fuggire da quel vuoto che è interiore. Ecco perché ci sono foto di persone a branco nei parchi e nei luoghi all’aperto più comuni. Perché ciò da cui si scappa è quella solitudine non tollerata, quel horror vacui che terrorizza ancora più del Coronavirus.
*Ameya Gabriella Canovi è PhD, docente e psicologa, si occupa di relazioni e dipendenze affettive. Da poco ha terminato un dottorato di ricerca in ambito della psicologia dell’educazione studiando le emozioni in classe. Ha un sito e una pagina Facebook “Di troppo amore”.
Bellissimo articolo. Centrato e affondato l’argomento. La casa, il nido, non si costruiscono in una settimana ma in anni di fatica e le persone un nido non ce l’hanno più. Fermatevi e meditate.
MCB
Alle parole che troviamo nel secondo capoverso in questa riflessione, quali “all’incertezza non eravamo più abituati; pensavamo di essere organizzati e invincibili”, aggiungerei che in giro sembra esservi – o perlomeno era questa fino ad ora l’impressione – una certa qual dose di supponenza, talora unita ad un senso di onnipotenza, i cui “portatori” si rivelano poi abbastanza sfrontati e presuntuosi, se non arroganti, ma pure ammirati, mentre il pudore e il riserbo di un tempo sono visti come segni di inaccettabile debolezza.
Salvo poi scoprire che, di fronte agli imprevisti, una tale sicurezza o “tracotanza” può non di rado dissolversi fino a scomparire, lascando il posto a tentennamenti ed esitazioni, o anche paure, ossia alla sostanziale incapacità di saper affrontare le incognite e le situazioni “non convenzionali”, mentre chi mantiene per solito comportamenti sobri e discreti, senza esaltazioni, può semmai reagire alle eccezionalità con maggiore serenità e compostezza, divenendo così un esempio cui potersi ispirare (per chi desiderasse farlo).
Quanto alla casa intesa non in senso materiale ma interiore, è un concetto che merita sicuramente considerazione, ma una volta l’idea della casa era convenzionalmente associata a quella della famiglia, la quale ultima ha ricevuto nel corso di questi anni molte “picconate”, tanto da demolirla o quasi (quando invece vigeva la vecchia “regola”, lo stare in casa non creava alcun vuoto, perché il tempo a disposizione veniva dedicato alla cura di entrambe, cioè di casa e famiglia, che rappresentavano per tanti il “centro di gravità”).
E’ poi vero che “l’auto responsabilità nessuno ce la insegna”, ma sappiamo bene che non ci sono manuali d’istruzione al riguardo, o che insegnino a governare le nostre suggestioni e irrazionalità, e anche contraddizioni, per le quali, forse, vale solo l’esempio; e dobbiamo anche domandarci se l’anarchia cui si fa cenno nelle prime righe di questa nota non sia in qualche misura figlia dell’epoca in cui era di moda “trasgredire”, e la normalità non era ben vista, e fors’anche dileggiata (così che l’auto responsabilità è divenuta autoreferenzialità).
P.B. 09.03.2020
P.B.
Complimenti per la scelta della foto (fonte : INTEVUOLL)
Commento Firmato