Il pomeriggio di quel giorno uscimmo per gironzolare per la città, Giuliano quando era sceso dal treno, nella fretta di seguirmi, aveva preso la valigia al volo, ma quella sbagliata, quella che sua madre doveva portare a Castelpetroso alleggerendo il nostro bagaglio e ora si era accorto di avere solo dei vestiti pesanti e a Firenze faceva molto caldo.
Lamentandosi con un “boia can” che era l’unica imprecazione che gli scappava quando era in difficoltà, decidemmo di girare per il centro e comprare qualcosa di leggero per lui, però in una vetrina notò subito un paio di scarpette da donna sportive, ma moderne e raffinate allo stesso tempo, perciò entrò e me le regalò.
Così cominciò quella settimana a Firenze, città che lui non aveva mai visitato, io invece la conoscevo abbastanza bene, due anni prima ero stata per due settimane, nella villa Martelli a Soffiano, per un ritiro spirituale coi Servi di Maria della Ghiara e nel frattempo con due amiche, eravamo le più giovani della compagnia, fuggivamo dalle prediche bastava un’occhiata per intenderci, e giù di corsa a prendere il bus e gironzolare per la città. Questa però è un’altra storia e anche questa sarebbe da raccontare.
Così portai mio marito dappertutto, vedemmo tutto ciò che c’era di bello da vedere, il Duomo, il campanile di Giotto, piazza della Signoria con la fontana del Nettuno, Santa Croce, Palazzo Vecchio, Palazzo Pitti, il museo degli Uffizi, il Giardino di Boboli, il Ponte Vecchio, poi una scappata a Fiesole e ogni sera salivamo a piazzale Michelangelo per goderci il panorama, mentre lui vicino al mio orecchio canticchiava “Sull’Arno d’argento si specchia il firmamento…” oppure qualche stornello fiorentino.
Per me Firenze è sempre stata la città più bella d’Italia, pulita, signorile con angoli, scalinate, opere d’arte da ammirare, gente educata e affabile, sinceramente io avrei passato tutta la vacanza lì, anche se avevamo progettato Firenze - Roma- Napoli, ma venti giorni non sono molti, ci eravamo attardati troppo, perciò eliminammo Roma, la salutammo solo dal finestrino del treno e andammo direttamente a Napoli.
Appena scesi dal treno, prendemmo un taxi che doveva portarci in una pensioncina propostaci da un collega napoletano. L’autista fece un giro lunghissimo, più di mezz’ora, per depositarci nel viale dietro la stazione; se andavamo a piedi facevamo prima.
Tutta la notte le mura vibravano per le partenze e gli arrivi dei treni che sferragliavano e fischiavano. Come rimpiangevo il silenzio della Pietra!
Il giorno dopo uscimmo per vedere un po’ questa città a me sconosciuta: ricordo solo molto colore, abiti variopinti e un gran vociare lungo la strada dei presepi e mi accorgo di una certa preoccupazione sul volto di lui, gli chiedo spiegazioni e sbotta:
“Va a finire che quando torniamo in albergo, ci hanno svuotato le valige”.
“Ma come fanno le abbiamo chiuse a chiave con tanto di lucchetto”.
Lui da bravo poliziotto:
“Tagliano il fondo e le svuotano”.
Subito penso ai miei abiti nuovi confezionati per l’occasione, mi erano costati quasi tutti i soldi che mio padre mi aveva potuto dare vendendo un vitello, figlio dell’unica mucca che avevamo. Poi vedendolo così preoccupato la mattina del terzo giorno gli dico:
“Andiamo da tua mamma,…sà!”
Dopo averla avvisata per mezzo di Luigino, allora in quel paesino di montagna solo lui teneva il telefono pubblico nel suo negozio di alimentari e aveva anche un vecchio 1100 che al bisogno serviva da servizio pubblico, prendemmo la littorina, un trenino a due vagoni che collegava Napoli a Campobasso. Mentre eravamo in treno calava la sera e io intravedevo questi paesini aggrappati alle montagne illuminati dalle poche luci accese e dalle stelle e mi parevano tanti presepi.
Arrivammo a Carpinone alle dieci di sera e lì trovammo Luigino, un signore alto distinto, educatissimo coi capelli brizzolati, che era venuto a prenderci col suo millecento blu. Dopo una ventina di minuti arrivammo al famigerato Castelpetroso. La macchina arrivò sull’Olmo, la piazza posta all’inizio del paese, anche perchè non si poteva andare oltre, dopo c’erano solo scalinate, viottoli stretti e molta poca illuminazione.
Ed ecco l’ostetrica che gioiva e dava ordini a Luisa e al marito di questa, che si caricava in spalla le due valige e ci precedeva. Lui si era presentato educatamente a me levandosi il cappello e il rado ciuffo di capelli rimastogli gli si rizzava sulla testa, mentre mi sorrideva mettendo in mostra i due soli canini rimasti nella parte superiore della bocca. Luisa piccola rotondetta col “maccaturo” fazzoletto in testa con gli angoli rialzati un abito scuro lungo fino alle caviglie, stretto in vita dal “mandazino” un grembiule che le copriva metà gonna. Lei per rendersi utile, prese con cura la mia borsetta e si incamminò vicino al marito, seguivano Giuliano e la madre che se lo teneva ben stretto, poi c’ero io coi tacchi a spillo che bisticciavano coi ciottoli della scalinata e intanto tentavo di indovinare qualcosa di questo paese, aiutata dal bagliore di una mezza luna che mi guardava divertita.
Passammo sotto a un voltone con relativa curva e sbucammo sulla piazzetta dell’antica chiesa e proprio lì di fronte c’era la casa della levatrice, dove sulla porta ci aspettava una deliziosa vecchietta, era nonna Ersilia, non era vero che la mamma fosse una donna sola, abitava da sempre con sua madre, anche lei levatrice in quel di Ferrara, ma ora in pensione da parecchio tempo.
Aveva 95 anni e subito simpatizzammo lei parlava il suo dialetto ferrarese, abbastanza simile al mio, era bella, minuta, con lineamenti fini, con una lieve crocchia di capelli bianchi rialzata sulla sommità del capo, che gli illuminava dei bellissimi occhi grigi con ancora lunghe ciglia.
Era dolce e gentile con me, un po’ più severa con la figlia che cercava di sottomettermi ai suoi capricci, dovevo comportarmi e vestirmi come voleva lei, assolutamente non dovevo indossare i miei amati pantaloni, avrei scandalizzato tutto il paese e sarei passata da ragazza poco seria, non dovevo affacciarmi al balcone, non dovevo uscire di casa, perché gli aristocratici del paese dovevano conoscermi annunciando le loro visite, donna Maria, donna Antonietta, donna Pupa ecc… Per l’occasione aveva spalancato la porta del salotto, che mi dicevano fosse sempre chiusa a chiave per conservarlo nuovo, certo che un divano ricoperto di seta rosa era un po’ delicato.
Poi c’erano i bambini che arrivavano a gruppetti per ricevere i confetti, ce n’era uno che si univa sempre ai nuovi poi un bimba un po’ più grandina mi osservava attenta:
“Ma tu dove le tè le sese?”
Io che non avevo capito un’acca rispondevo:
“Le ho lasciate a casa”.
Poi nonna Ersilia ridendo di gusto, mi spiegava che le “sese” non erano altro che le tette, che lì si usavano molto abbondanti. Bene! Si usavano così? In paese si parlava di questo? Certo che con 1,69 di altezza e 54 o 55 di peso io non avevo un gran che e non me n’ero mai preoccupata, così cominciai ogni mattina ad imbottirmi bene il reggiseno con cotone idrofilo, in casa di una levatrice ce n’era in abbondanza e nonna Ersilia mia simpatica complice me lo procurava.
Intanto Giuliano naturalmente se la svignava, ogni mattina usciva alla chetichella e mi lasciava in balìa della sua mamma, dovete sapere che mia suocera era calata in quel paesino, circa trent’anni prima, anche lei veniva da Ferrara e si era diplomata all’università di Bologna e per lei non era stato facile farsi accettare in un posto dove nei casolari di campagna, le partorienti per nove mesi non si lavavano per non far morire “l’ovo” e venivano assistite solo dalle “Mammane”, perciò per farsi accettare aveva dovuto adeguarsi ai vecchi usi e costumi del luogo riuscendo ad entrare nella comunità e ci era riuscita, poco a poco si era fatta amare, insegnando loro l’igiene e il modo giusto per affrontare una gravidanza e col tempo riconosciuta da tutti come una vera professionista.
Comunque per me sono stati tre o quattro giorni di reclusione molto duri, poi la domenica com’era usanza in quel paese, la sposa veniva “cacciata” dalla casa e accompagnata da un’amica di famiglia più anziana, si poteva mostrare a tutti andando alla messa solenne del mezzogiorno.
Mi fecero vestire con l’abito da sposa (ecco perché mia suocera aveva insistito tanto per farmelo portare in valigia), per mia fortuna avevo scelto un abito corto, ideato da me, però confezionato da mia cognata Imelde che era una bravissima sarta. La stoffa mi era costata 3.500 lire, lo stipendio di un impiegato in quel periodo era di circa 40.000 lire fateci un po’ il conto voi, perché io con la matematica non vado d’accordo. In quel periodo si sentiva anche da noi l’odore di minigonna, la mia copriva appena il ginocchio e dal momento che odiavo i veli, era accompagnato da un cappello a tesa larga che era costato la stessa cifra della stoffa del vestito. Giuliano com’era consuetudine mi raggiungeva in chiesa dopo, mettendosi al mio fianco.
Fu una messa lunga con cento occhi che mi guardavano e mi soppesavano, i maschi con un certo interesse, per le femmine ero solo una straniera piena di difetti, calata dal nord per portare via quel bel figliolo….
Ma non finisce qui…alla prossima!
Elda Zannini
Vedo che la suocera e’ come le tasse: ascadenza fissa si ripresentano…..
Scherzia parte, complimenti come sempre.
Al prossimo racconto.
Ps.: certo che nove mesi senza lavarsi…..poveri mariti !
Ivano Pioppi
Ringrazio la signora Elda per il racconto cosí simpatico e nello stesso tempo dolce come i ricordi che ci fa arrivare. Grazie anche per aver citato mio padre come l’autore delle foto del suo matrimonio. Per dirla come il signor Pioppi… al prossimo racconto.
elettra
Ringrazio la signora Elda per quest’ultimo spaccato di vita, pieno di umorismo ma altrettanto di dolcezza. La ringarzio anche per aver citato mio padre, autore delle fotografie del suo matrimonio. E come dice il signor Pioppi….al prossimo racconto.
elettra