Per i miei figli è sempre stata la zia Imelde, per me non una cognata, ma una sorella, tutto questo mi è stato raccontato da lei, nei sessantanni di amicizia che ci lega.
La piccola Imelde si era seduta su un panchettino, davanti alla porta di casa e cercava di avvicinarsi il più possibile alla nonna che seduta su una sedia, stava filando della lana di pecora. Aveva infilato la mannella sulla rocca che teneva ben ferma sotto il braccio sinistro e con la destra faceva girare con forza il fuso, mentre assottigliava il filo fra l’indice e il pollice. La bambina adorava sua nonna e guardava attenta ogni suo movimento, ma il suo pensiero tornava alla mattina, al suo primo giorno di scuola.
Era il primo ottobre del 1942, era partita dalla sua casetta situata ai piedi della Rocca, col suo grembiulino nero nuovo di zecca e il collettino bianco, candido, stirato con attenzione da mamma Maria, che poi le aveva diviso i lunghi capelli neri in due tiratissime trecce e ancora adesso si sentiva pizzicare la pelle della fronte. Arrivata alla piccola piazza, ove faceva bella mostra di se un Oratorio dalla forma rotonda, si univa al gruppo di bambini che si rincorrevano chiacchierando giulivi, aspettavano l’arrivo della nuova maestra. Finalmente da dietro la curva, compariva una bicicletta guidata da una bella signorina dai capelli corvini, ricci, freschi di “permanente” fermati ai lati da due forcine. Il suo nome era Domenica Pedrazzoli, ma tutti la chiamavano “Menega” e arrivava da Villa Minozzo. Si faceva conoscere dai bambini e li accompagnava in classe, così prendevano posto nei banchi e con la matita cominciavano a fare una fila di aste sul quaderno.
Tutti si sforzavano per farle belle dritte, ma non tutti ci riuscivano, c’era chi per la prima volta prendeva in mano la matita. Imelde metteva tutta la sua buona volontà, ma era mancina, allora non si poteva usare quella mano, era la mano brutta, se poi la usavi per farti il segno della croce guai, addirittura diventava “la mano del diavolo”, così per lei questo era uno sforzo doppio e mentre si dava da fare per scrivere bene, continuava a sbirciare il quaderno della sua vicina di banco, una certa Graziella che da Genova era sfollata a Minozzo a casa di certi parenti (era tempo di guerra) e la gente scappava dalle grandi città rifugiandosi presso parenti contadini, così erano sicuri di trovare qualcosa da mangiare. Bene, lei continuava a guardare il quaderno di questa bambina, che faceva le aste con una certa facilità, belle dritte e ordinate, la nostra piccola Imelde per la prima volta si sentiva invadere da gelosia verso questa Graziella.
Uscendo poi da scuola, certi ragazzini sulla piazza bisticciavano con altri che erano di Villa e si trovavano lì di passaggio e si urlavano frasi strane:
Gira, volta e prìla, gira, volta e prìla, ma al cumun al resta a Vìla
Va pur là cun cul baròcc, ma al cumun e turna a M’nocc.
Traduco in italiano per chi non conosce il dialetto:
“Gira volta e prilla, gira volta e prilla, ma il comune resta a Villa”.
“Va pur là con quel biroccio, ma il comune torna a Minozzo”.
In quel periodo a Villa c’erano tanti birocciai, un lavoro come un altro, ma questi bambini riuscivano a farlo rimare bene.
La bimba si avvicinava alla nonna e le chiedeva cosa volevano dire queste cose.
Lei con infinita pazienza cominciava a raccontarle che moltissimi anni prima il comune era situato nella Rocca di Minozzo e sotto c’erano anche le prigioni. Questo però era successo tantissimi anni prima, lei non era ancora nata. Nel 1810 circa, per la prima volta il comune da Minozzo fu portato a Villa, ma poi riportato alla Rocca, un avanti e indietro fino al 1815, quando fu riportato definitivamente a Villa e da allora non si era più mosso da là, però tra i Minozzesi e quelli di Villa era nata questa rivalità. Erano passati circa centocinquant’anni, ma i ragazzini continuavano ad accapigliarsi con queste frasi, composte in quel tempo lontano e tramandate a voce dai vecchi dei due paesi.
Poi la nonna continuava a raccontare. Quando si era sposata, da Tizzola si era trasferita a casa del marito che abitava in una casupola proprio sotto la Rocca, dalla parte dove si vede la Pietra di Bismantova e dove ora c’era rimasta solo la stalla e il fienile. Lei in quella casa ci stava col marito e i cinque figli, ma anche i cognati con i loro figli e anche i vecchi. Stavano molto stretti, poi suo marito che era tornato da poco dalla grande guerra, debilitato com'era, prendeva la “spagnola” che in quel periodo mieteva molte vittime e lui fu una di queste.
Lei rimaneva sola con un mucchio di bocche da sfamare, circa un anno dopo, precisamente il 6 settembre del 1920 una scossa di terremoto fortissima rase al suolo Minozzo e tanti altri paesi facendo molte vittime. La nonna si ritrovava a vivere in un prato sotto una tenda con tutti gli altri famigliari, poi il cognato le diceva che lui i figli di suo fratello non poteva sfamarli, perciò doveva andarsene. Così la povera donna raccoglieva le sue poche cose e con la sua nidiata tornava a vivere nel fienile sotto la Rocca, l’unica parte di casa che aveva resistito al terremoto. Lì ci passarono tutto l’inverno lottando contro il freddo, la fame e i topi che la notte le rosicchiavano i capelli. La nonna aveva cinque figli, quattro femmine, l’ultima di queste era nata proprio nei giorni che il padre moriva e un maschietto di circa sei anni che le andava vicino e diceva:
Mama, iò fam guardév in bisàca sa gh’è rmas suquanti brisle!.
“Mamma ho fame guardatevi in tasca se c’è rimasta qualche briciola di pane”.
Lei poveretta rovesciava la tasca, ma dentro non c’era più niente. Allora lui cercava di sfamarsi mangiando bacche di ogni genere e “cacai”, ma si ammalava di dissenteria e in pochi giorni tornava in cielo da dove era arrivato pochi anni prima.
Poi finalmente in estate, il “Servizio terremoto” le rifaceva la casa, quattro stanzette, due sotto e due sopra coi pavimenti di assi e una scaletta di legno, ma un po’ spostata da dove si trovava prima in un posto sicuro sotto la strada che porta a Sologno, dove la nonna possedeva un pezzo di terra e lì parecchi anni dopo era nata l’Imelde. La piccola ascoltava la nonna con attenzione fissandola con i suoi occhioni neri e luccicanti.
La Rocca già in decadenza da parecchi anni era diventata suolo di gioco per i bambini di Minozzo, giocare a nascondino in quel posto era una cosa sublime, angoli, sentieri, archi, ti accoglievano, ti cullavano nella penombra fin che non sentivi urlare “libero tutti!” allora era uno scoppio di gioia e tutti tornavano all’aperto.
In questo modo Imelde cresceva, nella stalla lì vicino c’erano le pecore e di giorno per lei era come un gioco portarle al pascolo le “imbrancava” con quelle dei suoi amici, poi si recavano in un sottobosco di loro proprietà, ma molto lontano dal paese era più vicino a Villa che a Minozzo, ma lì era un modo come un altro per giocare, maschi e femmine insieme, coi sassolini, coi legnetti, la “sberlansa”, il salto con la corda, poi le bambole fatte con un sasso bislungo e fasciate con sciarpe o fazzoletti come si faceva allora coi bambini appena nati. Questo era tutto il loro divertimento, qualche volta scoppiavano violenti temporali, allora questi bambini si rannicchiavano in mezzo al gregge, così si sentivano più protetti dai fulmini, ma il loro cuore batteva più forte a ogni boato di tuono.
La sera c’era un impegno gravissimo, queste pecore bisognava mungerle tutte e la piccola Imelde fremeva, specialmente il mese di maggio, quando sentiva suonare la campana della Pieve che chiamava i fedeli per il rosario serale. Lei sapeva che sul sagrato i suoi amici si divertivano un mondo, ma lei fin che non aveva munto tutte le pecore non poteva andare. Così decideva di prendere un po’ di latte da ognuna, poi col secchio mezzo pieno, passava sotto la fontanella che dava vita al ruscello, che divideva la terra di sua nonna da quella di certi parenti, e lì finiva di riempire il secchio, poi via di corsa alla chiesa. Per qualche giorno, la cosa andava via liscia, ma poi la mamma capiva che qualcosa non funzionava, il latte non cagliava per fare il formaggio, usciva solo della gran acqua. Così la povera Imelde veniva scoperta e ripresa severamente, lei allora si rifugiava dentro la Rocca e lì aspettava che gli animi si fossero calmati.
Nell’estate del 1943, durante il periodo fascista, tutti i bambini di Minozzo erano mandati a Villa in colonia. Anche la nostra Imelde partiva la mattina presto con un grembiule nuovo a quadrettini bianco e rosa, molto lungo che se non stava attenta si inciampava nell’orlo. Dovevano partire presto, perché in queste colonie c’era una grande disciplina, bisognava arrivare prima dell’alza bandiera, guai arrivare dopo, perché bisognava esserci tutti a cantare insieme “viva il Duce, viva il Re” e la sera si tornava a Minozzo e sempre a piedi.
Arrivavano i bombardamenti che sfasciavano case e scuole, per fortuna la casa della nonna non era stata sfiorata, allora si riempiva di persone che la casa non l’avevano più. Infine la gente del paese cominciava a caricare i birocci tirati dalle mucche e salivano verso le pendici del Prampa per trovare un rifugio sicuro per le persone e per le bestie, perché i tedeschi stavano entrando in paese e facevano man bassa di tutto ciò che trovavano.
Anche i partigiani dovevano mangiare, così anche loro se lo procuravano allo stesso modo, perciò anche la famiglia della bimba, si rifugiava sotto i faggi del Prampa.
Il papà aveva caricato sul biroccio un materasso, una coperta imbottita e roba da mangiare, poi arrivato lassù si dava da fare per costruire una capanna di frasche che potesse accogliere le sue donne durante la notte. C’era la vecchia nonna Minghetta, la moglie Maria, la sorella di questa, Adele ancora molto giovane e la piccola Imelde, che aveva preso tutto come un gioco e si divertiva a raccogliere fragoline di bosco e non capiva che la pioggia di sassolini, che lei scambiava per grandine, che sentiva cadere sulle fitte foglie dei faggi, erano schegge di cannonate che da Maro sotto la Pietra di Bismantova, arrivavano fin lassù.
Da lassù loro scorgevano il loro paese, così continuavano a sentirsi a casa. Dopo una decina di giorni, quello che a turno stava di guardia, li avvisava che i tedeschi stavano salendo, forse avevano avuto una soffiata da qualcuno. Allora papà Virgilio e qualche altro uomo si nascosero in un canalone, il Prampa lo conoscevano come le loro tasche, così i tedeschi non li trovarono, ma quelli che erano rimasti e fiduciosi tornarono in paese con loro, dopo poco furono fucilati sul sagrato della chiesa. Non furono toccate le donne e i bambini, anche loro furono riportati a Minozzo e dopo averli ammucchiati sotto la Rocca, dopo un po’ furono lasciati liberi.
Imelde dopo che un pancione di tedesco a dorso nudo disse che potevano andare, corse subito nella stalla sotto la Rocca per vedere se c’era ancora il maiale, quello c’era, ma le due mucche e le galline no e a ogni passo che faceva trovava le loro teste sparpagliate dappertutto. Anche lo scrigno sopra la scala che conteneva tutto il frumento dell’annata era stato manomesso e i grani sparpagliati dappertutto fin sull’aia. Poi si venne a sapere che Osvaldo, figlio della maestra Curti, che era rifugiato con loro in Prampa ed era sceso prima, per procurare qualcosa da mangiare, era stato preso dai tedeschi e dal momento che lui non rivelava il nascondiglio lo avevano trascinato coi piedi attaccato a una camionetta fin che non era morto, aveva 20 anni.
Questo era appena l’inizio della guerra che dalle grandi città era arrivata fino a Minozzo. Nella sua casa, una delle poche rimaste intatte, si era installato il comando tedesco, anche fra loro c’erano i buoni e i cattivi, a loro donne era stata riservata solo una stanza e due di essi dissero ad Adele che era la zia di Imelde, di nascondere la catenina d’oro che portava al collo, prima che qualche collega gliela strappasse. Difatti uno di questi “non buono”, ordinava che questa ragazza andasse a rimboccargli le coperte, lei aveva molta paura e si faceva accompagnare da una vecchia del paese molto coraggiosa, così lui non poteva farle del male. Quando finalmente se ne andò lasciò un bel regalo nel letto “urina e feci molto fresche”. Anche questa era guerra, una guerra molto sporca.
(Elda Zannini)
Peccato che non ha citato i martiri di Minozzo, fucilati dai nazisti.
Costi Sauro
Mi spiace, ma non mi è stato raccontato, sono solo ricordi di una bambina.
Chissà che non ci sia un seguito
Elda Zannini Colombani