il Vescovo in pellegrinaggio
“Lo scorso anno sono venuto qui in forma ufficiale per l’esposizione del cappotto di don Pasquino Borghi in sagrestia e per la celebrazione della Messa. Oggi sono venuto in pellegrinaggio, come un fratello viene a trovare un fratello”. Il vescovo Massimo Camisasca ha esordito con queste parole intervenendo mercoledì 30 gennaio alla breve cerimonia che si è tenuta presso i locali del circolo parrocchiale di San Pellegrino, alla presenza di numerose autorità, in occasione dell’esposizione di alcuni oggetti appartenuti a don Pasquino Borghi (foto), fucilato settantacinque anni fa, insieme ad altri otto partigiani, al poligono di tiro di Reggio.
Proprio il sacrificio di don Pasquino diventa un momento di fecondità, ha detto ancora monsignor Camisasca, annunciando una futura iniziativa diocesana per aiutare il perdono e la riconciliazione fra tutti coloro che hanno vissuto i tremendi drammi del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra.
“Chiediamo a don Pasquino quale fu il suo segreto”, ha detto poco dopo il parroco di San Pellegrino e del Buon Pastore don Giuseppe Dossetti celebrando la Messa nel 75° anniversario della fucilazione di don Borghi. “Ho cercato di immaginare i suoi pensieri, mentre percorreva gli ultimi metri della sua vita, in quella mattina di gennaio. Egli sapeva che tutto ormai era finito per lui, che era in mano a una forza irresistibile, che poteva disporre della sua esistenza e che tra pochi minuti l’avrebbe spenta. Penso che in lui - ha continuato il parroco nell’omelia - si sia fatto un grande silenzio. La prossimità della morte può fare questo: ormai tutto appartiene al passato. Il presente era l’incontro con il suo Signore, con quel Gesù, che ogni giorno si faceva pane e vino nella Messa, centro della vita del cristiano e ancor più del prete”.
Don Dossetti ha richiamato il sacrificio perfetto di Gesù, in grado di espiare il peccato del mondo. “Esso - ha detto ancora il sacerdote - è infatti un atto definitivo, irreversibile, come lo è la morte. È il ‘sì’ di Dio all’uomo, a ogni uomo; al malvagio, per dirgli che anche per lui è possibile il perdono e l’inizio di una vita nuova; all’innocente, per dirgli che il suo sangue non è sparso invano, perché è unito al sangue di Gesù, e partecipa alla sua efficacia”.
“Quella mattina - ha aggiunto don Dossetti - don Pasquino non aveva potuto celebrare la Messa. Camminando, con le mani legate, verso il luogo dell’esecuzione, ripeteva dentro di sé le parole iniziali della Messa di allora: «Introibo ad altare Dei», sto per salire all’altare di Dio. Su quell’altare, egli sarebbe stato la vittima, assieme al suo Signore. Quella sarebbe stata la sua ultima Messa, e nello stesso tempo la Messa perfetta, quella che dava compimento al suo sacerdozio e lo introduceva nell’eternità. C’erano degli uomini, attorno a lui, i suoi uccisori e i suoi compagni nella morte. Egli si sentiva responsabile per loro. Erano il suo popolo, in quella singolare Messa che egli si accingeva a celebrare. Essi rappresentavano tutta l’umanità, nel bene e nel male. Don Pasquino sapeva che egli era prete per loro e, attraverso di loro, per il mondo”.
“Don Pasquino - ha poi concluso il parroco di San Pellegrino - si sentiva il rappresentante della carità di Cristo e diede a quegli uomini quello che aveva. Agli uni, diede il perdono. Agli altri, il gesto della fraternità, l’abbraccio al suo vicino. Il seme veniva gettato in un terreno che appariva avvelenato dall’odio e dalla violenza. Ma il frutto c’è stato.
Noi siamo quel frutto. Quando sembra che il male vinca, quando facciamo l’esperienza dei nostri limiti e dei nostri errori, è proprio il sangue versato per amore dell’uomo che ci conforta a fare della nostra vita un’offerta generosa. Avremo in noi la pace e saremo strumenti di pace”.
(La Libertà, edizione del 6/02/2019)