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Si è spento il partigiano “Ventasso”, Renato Bertini. Ieri i funerali

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Il partigiano "Ventasso" Renato Bertini

Stamattina (lunedì 8 ottobre, ndr), dopo 91 anni di passaggio su questa terra, Renato è morto.

Renato nasce a Cerrè Sologno nel giugno del 1927, figlio del sarto del paese. È il penultimo di quattordici fratelli e sorelle, alcuni dei quali gli resteranno sconosciuti per tutta la vita.

Dopo aver frequentato precocemente la terza elementare, a sette anni già lavora come garzone per i contadini della zona, ricevendo come pagamento vitto, alloggio e qualche patata. A nove anni si trasferisce a Milano per imparare a fare il calzolaio da una coppia di artigiani, i coniugi Raitieri, in via Gioacchino Murat. In quel periodo impara a pattinare, su ghiaccio e su rotelle, va al cinema, gioca a calcio nel ruolo di portiere e inizia a fumare, rubando i mozziconi che gli operai dei cantieri gettano via. La notte, insieme agli amici, ruba l’uva a una villa di via Murat. I coniugi Raitieri, che non hanno figli, cercano di comprare la paternità ad Ulderico, il padre naturale di Renato. Lui rifiuta, nonostante la situazione di indigenza in cui versa.

Quando iniziano i bombardamenti, Renato ha quattordici anni. Abbandona Milano e rientra a Cerré con due valige di materiale da calzolaio: gomma, pelle, chiodi, cuoio. Ma le sue scorte terminano rapidamente e, nell’impossibilità di rimpinguarle, trova lavoro come garzone presso una corte mantovana che raggiunge in bicicletta da Reggio Emilia. Lì si occupa di mietere, curare le vacche e gestire due buoi particolarmente aggressivi.

Quando rientra a Cerré al termine dell’inverno non ha possibilità economiche e, non volendo gravare sul padre, si arruola nella compagnia giovanile della milizia fascista di Reggio Emilia. Lo fa di nascosto a suo padre, che è socialista, antifascista e antitedesco, presentandosi con un foglio firmato dal fratello maggiore Sorriso. Di quell’esperienza, ricordava che il suo unico “lavoro” consisteva nel marciare da e verso Albinea insieme ad altri ragazzi della sua età. Riceveva un pagamento pari a 10 lire a settimana. Una sera lui e il suo amico “Fiocco”, collagnese o cerretano, sorprendono un commilitone ladro intento a sottrarre loro lo stipendio per spenderlo in gioco d’azzardo. Lo pestano e, in un’ottica che più fascista non si può, vengono promossi a camerieri della mensa degli ufficiali. In quel periodo, Renato allunga gli avanzi dei pasti degli ufficiali ai furieri in cambio di sigarette, che poi spedisce a casa alla madre che le baratta per pacchi di farina. Quando la misura è colma, Renato si fa dare un permesso per la cena e scappa in montagna.

Passa dalla Bettola la sera successiva all’incendio, ma col buio non vede nulla. Arrivato a casa, festeggia con polenta e salsiccia. Alle sei della mattina successiva si presenta al comando partigiano di Ligonchio, dove viene arrestato e tenuto in prigione per cinque o sei giorni in compagnia di una mezza dozzina di persone. Durante la prigionia sostituisce, armato, un partigiano in un turno di guardia sul monte dietro l’albergo del lago. Al mattino viene raggiunto dal tenente Spartaco, che gli strappa di mano il fucile e lo schiaffeggia. Viene processato da un tribunale composto dal comandante partigiano Eros, dal prete di Poiano e da un terzo partigiano; riconosciuto innocente, decide di aderire alla resistenza e preferisce le Brigate Garibaldi alle Fiamme Verdi. Entra a far parte del “Gufo nero” con il nome di battaglia "Ventasso", nel ruolo poco piacevole di avanguardia addetta a verificare che le postazioni nazifasciste siano sgombre. Un paio di volte non le trova sgombre, ma per fortuna è molto celere nella fuga. Impara a sciare, a utilizzare una mitraglia e ad andare a cavallo.

Una notte di neve difende insieme a due compagni una postazione in comune di Ligonchio, per poi far ritorno a casa sua a Cerré Sologno con lo scopo di passare la notte al caldo prima di fare ritorno al comando. La trova infestata dai tedeschi. Essendo l’edificio centrale e il più grande del paese, i nazisti l’avevano scelta per insediarvisi pochi giorni prima. Ulderico lo salva dagli immediati dubbi dei soldati sostenendo che quel suo figlio era andato a fare commissioni nei paesi vicini perché era un calzolaio. le armi, per fortuna, le aveva nascoste pochi minuti prima di entrare in casa nell'ossario del cimitero. I tedeschi sono euforici: finalmente qualcuno che può riparare gli stivali. Così Renato trascorre la nottata a sistemare calzature naziste a un intero squadrone che il giorno successivo lascia il paese. Dopo aver brindato alla prontezza di ingegno di Ulderico e alla botta di culo nel suo complesso, rientra al comando partigiano.

Dopo una nottata trascorsa all’adiaccio trasportando prigionieri da una zona di sosta all’altra, Renato si ammala di pleurite. Soccorso e curato da Pasquale Marconi, che gli estrae dai polmoni due scodelle di acqua marcescente e lo costringe a mangiare, viene ricoverato all’ospedale partigiano di Fontanaluccia. Quando si sparge la voce che i nazisti stanno arrivando a bruciare tutto, l’ospedale viene sgomberato e Renato non si è ancora ristabilito ma fugge da solo camminando con le grucce, con un paio di bombe a mano e un mitra a fargli compagnia. A metà di un sentiero diretto verso Vallorsara sviene. Viene ritrovato da una famiglia antifascista del posto, che lo sfama e lo ricovera in una grotta. Nella grotta c’è già un partigiano della sua età con una gamba in cancrena, che muore nel giro di qualche giorno. In quella grotta, da solo, trascorrerà più di un mese.

Quando la guerra è in procinto di terminare, Renato viene congedato e decide di rientrare a Cerré Sologno. È il 14 aprile del 1945 e lui si trova a due chilometri da casa quando vede due aerei alleati dirigersi verso il paese e bombardarlo. Si precipita a Cerré, ma la sua casa è già un cumulo di macerie fumanti. Suo padre viene estratto vivo e muore dopo due giorni di agonia. Sua madre è già morta quando la ritrovano sotto l’asse di legno che stava utilizzando per fare la sfoglia.

Senza casa e senza genitori, si trasferisce a Reggio Emilia trascinando con sé il fratello minore, Giovanni. Occupa abusivamente un container militare americano e apre una bottega da calzolaio al suo interno. Conosce Isabella, sorella minore del proprietario del negozio a cui si rivolge per comprare le tomaie. Vanno a ballare insieme, lo faranno per tutta la vita. Si sposano: lui ha 18 anni, lei 20. Resteranno insieme per i 73 anni successivi. Avranno un figlio e tre figlie, e con gli anni cinque nipoti e qualche pronipote. Due dei figli moriranno prematuramente, e questo dolore non li abbandonerà mai.

In questo periodo Renato si rompe il naso tirando di boxe, impara a giocare a Mah Jong e per lavorare di più consuma anfetamine che compra senza ricetta in farmacia. Renato inizia a vendere scarpe, prima a Reggio e poi in Appennino. Gira con un’apecar, che col tempo diventa un camioncino e poi un camion vero e proprio. Apre un negozio di calzature, “4 Passi”, in Viale Umberto I e lo porta avanti insieme alle figlie e ai generi. Continua ad esercitare la professione di calzolaio, mentre metà famiglia gestisce il negozio e l’altra metà i mercati.

A Reggio, Renato coniuga vita lavorativa ed attivismo politico. Distribuisce l’Unità, partecipa a manifestazioni, fa politica attiva per il PCI pur rimanendo per tutta la vita un cattolico. Il 7 luglio del 1960, quando la polizia e i carabinieri del governo Tambroni decidono di massacrare manifestanti per le vie di Reggio Emilia, Renato è in piazza a beccarsi manganellate e getti di idrante.
Gli anni passano, Renato e Isabella invecchiano. Rientrano a vivere a Cerré Sologno, nella casa bombardata e poi ricostruita un pezzetto per volta. Nella cantina di casa c’è un laboratorio di calzoleria. Cura il suo orto, accudisce i nipoti. Fa il nonno. È il nonno.

Renato mi ha insegnato che le scarpe di un uomo devono sempre essere lucide, che le donne migliori sono quelle più grandi e che i fascisti appartengono alle fogne della storia.

Voleva, per il suo funerale, una grande orchestra a suonare valzer e l’internazionale comunista. L’orchestra ovviamente non potrà esserci, ma qualcuno che intoni l’internazionale si troverà di sicuro. Per lui e per la sua vita straordinaria.

(Giuliano Gabrini)