Ci sono termini ormai scomparsi dalla parlata popolare. Al massimo li sentiamo là ove ancora si parla abitualmente il dialetto, ma molto raramente. Termini spariti perché certe azioni, certi comportamenti, non si usano più. Abbiamo spostato l’attenzione verso altre opportunità o esigenze. Di conseguenza anche le frasi relative ad un tipo di lavoro o all’attrezzo usato sono scomparse dal linguaggio comune. Tuttavia vi è un substrato di quel fraseggiare che sopravvive e, di tanto in tanto, torna a fare capolino. Oggi sono pochi coloro che seminano il grano. Ma l’espressione Andar fuori dal seminato rimane. Come rimangono altre espressioni, tipo: Tirarsi la zappa nei piedi, Chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti. Magari con un contenuto amplificato rispetto a quando è nata l’espressione.
Provo a ricordarne qualcuna di quelle espressioni, ad indagarne l’origine e il significato, sia letterale che simbolico. Può aiutarci a riscoprire qualcosa.
A bòt -
Si usava questo modo di dire quando due persone combinava un contratto a forfait, come la vendita del fieno o della legna, un lavoro di costruzione o di bonifica: Tör a bòt, Lavurâr a bòt. Gli interessati valutavano a occhio, consenzienti sia il venditore che il compratore. Un’occhiata al mucchio di roba, poi una robusta stretta di mano e, magari, un bicchiere di lambrusco o di toscano per avallare l’avvenuto contratto. Non occorreva il notaio. La parola Botto è di derivazione onomatopeica, ed equivale a: colpo, rumore. Nel nostro caso alludeva al rumore prodotto dalla pacca delle mani, rumore rustico, energico, essenziale. Come i rapporti tra le persone di un tempo.
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La foto in evidenza riproduce un momento delle Arteumanze realizzate nel piccolo cimitero del castello di Carpineti su idea di Francesco Genitoni nel 2013. Come foglie le parole si staccano dalla propria collocazione naturale per andare a morire lontano nel tempo.
Ho vissuto troppo poco nella montagna Reggiana per conoscerne appieno il dialetto e i modi di dire.L’espressione “lavorare a bot ” mi è’ sconosciuta e ritengo che l’interpretazione “con una stretta (bot ) di mano” , sia corretta.L’espressione usata per acquistare un bene o definire una misura ” a bot “, penso possa essere interpretata come: ” con un colpo d’occhio ” ( dag un bot).
(Giorgio)
Mi compiaccio di leggerla ancora su Redacon di cui sono appassionata lettrice….da lontano. Mi fa particolarmente piacere che lei ci riporti al nostro caro dialetto con termini anche desueti. Io sono nativa del nostro Appennino e me ne sono andata tanti anni fa, però in famiglia abbiamo sempre continuato a parlare dialetto. Quando ho occasione di tornare in montagna mi accorgo di quanti termini abbiano italianizzato. In sostanza io da fuori parlo ancora il dialetto dei miei.nonni….In loco si meravigliano di questo e di certi termini o modi di dire che non conoscono più. Peccato, è come perdere un pochino di identità. Per questo sono grata delle sue pubblicazioni e a Redacon che le fa conoscere. Grazie
(Anna Campani)
Grazie a Giorgio e Anna. Anna, di che territorio sei originaria? Curiosità giustificabile perché anche mia madre era una Campani. Io sono nato a Castellaro di Vetto, lungo il Tassobio. Quanto al dialetto noi che siamo stati lontano per molti anni abbiamo il vantaggio di ricordare un dialetto più autentico, non ancora influenzato dalle locuzioni straniere e da una scolarizzazione interpretata male. Ricordiamo il dialetto anteriore agli anni ’50 (almeno io) quando tutti parlavano dialetto e qualcuno un italiano approssimativo. fammi sapere. Di nuovo grazie per l’intervento.
(http://www.savinorabotti.it)
E’ significativo che ad apprezzare la Sua iniziativa,siano coloro che hanno lasciato la propria terra.Siamo “fuggiaschi” che provano “come sa di sale lo pane altrui” ,inguaribili nostalgici del ” pane ” della nostra terra , delle nostre origini.
(Giorgio)
Siamo esattamente della stessa valle. Io sono nata a Maiola dove però sono stata pochi anni ma sono rimasta nella stessa parrocchia di Santo Stefano dove abbiamo condiviso don Aronne e la dolce Carmelina sua perpetua. Riguardo al cognome, come succede in tutti i paesi, si ripetono senza che ci siano più vincoli di parentela. I miei nonni erano entrambi Campani ma non parenti. Se non sbaglio nei matrimoni la chiesa controllava. Comunque mia nonna era di Legoreccio e mio nonno del mulino detto Mulinaccio sotto Pineto. Poi ricordo dei Campani di Donadiolla anche loro non parenti. Insomma un cognome molto comune. Anche perchè allora non c’era denatalità come ora, minimo avevano 10 figli e il cognome si propagava e si è propagato parecchio perché anche dove vivo ora (Genova) ci sono un sacco di Campani e per quelli che so tutti provenienti del nostro bell’appennino. Un caro saluto. Anna Campani
(Anna campani)
Allora, se ho capito bene, vivevate nella casa dei Gilioii, a Maiola, vicino all’incrocio con la strada che arriva da Donadiolla e scende verso Roncolo (la strada vecchia). In tempo di guerra un suo fratello o zio veniva a scuola con me (quando poteva, a causa del lavoro dei campi) nello stanzone in cima ad una scala, appena sopra l’incrocio. Quella casa ora è del figlio di Delio Beretti, figlio del “Mòro”, il cui fratello Gianni vive ancora a Maiola.. Il Campani che veniva a scuola con me era più grande di qualche anno e mi pare si chiamasse Agostino. Credo si fosse trasferito in un borgo vicino al Casino, ed è deceduto pochi anni fa. Lo ho incontrato una volta al mercato. Dopo di voi in quella casa c’è venuto Croci. Mia sorella Bruna ha sposato James Croci e per un poco ha abitato nella stessa casa. I Campani di mia mamma, invece, abitavano a La Piella, vicino a Castellaro. Forse ricorderà Bruno, la moglie Settima, le Figlie Afra e Silvia (detta Cicci). Una mia zia era la Cliceria del mulino Rosati, poi trasferitasi a Castelnovo con tutti i figli. Ora il mulino non esiste più. Io però sono andato in collegio nel 1948 e da allora non ho più frequentato l’Appennino se non per pochi giorni di vacanze. Ho ripreso i contatti dopo il 1970, ma, abitando a Sassuolo, mi recavo su in visita ai parenti saltuariamente, fino al 1990, quando lo zio mi ha lasciato parte della casa di Castellaro. Il mio interesse per il dialetto locale era già cominciato prima, e si è rinforzato in quegli anni con iniziative rivolte appunto alla valorizzazione delle parlate dei nostri nonni. Mi scusi se mi sono dilungato troppo. La ringrazio delle informazioni. Chissà che non capiti di incontrarci lassù durante l’estate. La mia e-mail è: [email protected], e il telefono 349-5274848. Saluti a lei e famiglia. Savino Rabotti
(http://www.savinorabotti.it)