Sono meno di 800 gli italiani che ogni anni entrano del Regno del Bhutan, una striscia di terra arroccata tra la Cina e l’India, o meglio tra le regioni del Tibet, del Sikkim e dell’Assam, un luogo letteralmente nascosto tra le montagne himalayane e, proprio per questo, di difficile accesso per l’uomo europeo.
Ancora oggi, nonostante i mezzi moderni che permettono di spostarsi da un capo all’altro del globo in poche ore, entrare in Bhutan resta un’operazione complessa: pochissimi voli, procedure burocratiche non proprio economiche e città a quote elevate (inclusa la capitale Thimpu: 2.334 m).
Già quando l’aereo inizia la fase di atterraggio, si capisce l’unicità della propria destinazione, il pilota vira e si dirige tra valli e canaloni, in cui sembra di sfiorare gli alberi, campi e case. Atterriamo a Paro, una cittadina, o meglio un paese di 20.000 abitanti, unico luogo del Regno abbastanza pianeggiante per un aeroporto internazionale, ben inteso gli aerei atterrano e decollano solo di giorno e in condizioni di tempo ottimale.
A Paro, oltre a un silenzio che non si addice a un aeroporto, ci attende la nostra guida, con la quale avevamo avuto qualche scambio di eMail nei mesi precedenti, durante la preparazione del viaggio. Si chiama Ugyen, ha 29 anni, ha studiato in India, è un esperto escursionista e ornitologo e parla un inglese perfetto (con alcune espressioni sorprendenti che ricordano l’Inghilterra vittoriana).
Sarà l’alta quota o forse i tre giorni di viaggio, ma l’impressione è quella di avere tagliato ogni legame sia con il mondo occidentale sia con le caotiche metropoli del sud est asiatico: frenetiche, rumorose, soffocate dai gas di scarico dei motorini a due tempi.
Qui uomini e donne vestono con il loro abito tradizionale (il gho per i primi, la kira per le seconde), lunghe vesti colorate e decorate da motivi tradizionali (di solito geometrici), che arrivano alle ginocchia o alle caviglie, legate in vita da una cintura
Il soggiorno in Buhtan è durato una settimana e le foto descrivono la bellezza di questo paese, con i sui Dzong (templi fortificati), i monasteri sperduti, le Stupa, i tesori all’interno dei templi buddisti, una natura incredibile e le sue alte montagne (fino a 7570 metri).
Quello che colpisce del Regno è la sua straordinaria originalità nel concepire lo sviluppo e, in fondo, l’esistenza umana. Siamo all’interno di un tesoro culturale che vanta più di duemila anni di storia, quello che in Tibet si sta lentamente sciogliendo, qui è ancora vivo e celebrato quotidianamente. Il buddismo della scuola Drukpa (a sua volta all’interno della scuola Kagyu) rappresenta una importante declinazione del buddismo tibetano e, all’occhio occidentale, racchiude dottrine molto complesse, difficili da comprendere se non si arriva preparati. In Bhutan il buddismo tantrico comprende diverse varietà di scuole e rami, ognuna con una sua ritualità e filosofia leggermente diversa.
Siamo in un Paese asiatico in via di sviluppo, ma parlando con la gente del luogo, quello che affiora è l’idea di portare avanti una crescita sostenibile (legata al progresso) e che tenga conto della felicità della gente. Il Bhutan ha da anni messo in campo un gruppo di studiosi che tenta di valutare la ricchezza del Paese attraverso un indice di felicità interna lorda, al posto del classico prodotto interno lordo.
Il 99.9% dell’energia elettrica è prodotta da centrali idroelettriche, i sacchetti di plastica sono vietati per legge, così come i pesticidi, ogni ristorante ha il suo orto per produrre le proprie verdure, non è consentito fumare per strada o nei luoghi pubblici ma solo in casa propria e non esistono cartelloni pubblicitari per la strada i quali deturperebbero il panorama. Questi sono solo alcuni degli elementi che fanno del Bhutan un posto di straordinario interesse.
E’ bene ricordare che non si tratta del giardino dell’Eden, Thimphu ha i suoi problemi di inquinamento e, a giudicare dagli odori, qualche fogna a cielo aperto esiste ancora, senza contare i marciapiedi malmessi e le periferie non certo ben organizzare. Ma siamo in una regione in cui, a causa di una morfologia del territorio sfavorevole, l’economia fatica a svilupparsi e il Paese si affaccia alla politica internazionale in modo complicato. Non va dimenticato che fino al 1990 non esisteva la televisione.
Molte delle riforme della fine del XX secolo, inclusa l’introduzione del parlamento e di elezioni democratiche, sono il risultato di 34 anni di regno del penultimo Re: Jigme Singye Wangchuck. Un sovrano illuminato che decise di fare uscire il suo popolo da secoli di isolamento pressoché totale (fino al 1974 era inaccessibile ai turisti). Un personaggio originale, che si può incontrare per strada alla guida della sua Harley, adorato dal suo popolo e che a 51 anni ha deciso di abdicare a favore del figlio, sottolineando l’importanza di essere a capo di una nazione quando si è nel pieno delle forze e per un tempo non troppo lungo.
L’ex Sovrano è riuscito a preservare la tradizione del suo Paese in un contesto di apertura verso l’esterno, promuovendo la storia, i miti e le leggende che si intrecciano con la realtà nell’epica storia del Bhutan, impegnandosi a conservare i monasteri polverosi (durante un’escursione a 4300 metri, siamo entrati in un piccolo tempio, abitato da un solo monaco, con affreschi parietali di rara bellezza), il teatro tradizionale e le scenografiche feste religiose.
I giovani che vanno a studiare in India o in Australia, generalmente tornano a casa e hanno un forte legame con le loro tradizioni, studiano e imparano a conservare le peculiarità del luogo dal quale vengono. La nostra guida Ugyen, per esempio, era in grado di mostrarci decine di erbe aromatiche o di alberi durante un’escursione nella foresta al mattino e, al pomeriggio, poteva spiegare per ore storie di maestri buddisti medioevali, o rispondere a tutte le nostre domande sulla ruota della vita.
Il Bhutan è un piccolo tesoro culturale preservato tra le montagne dell’Himalaya. Per ora. La sfida, per il nuovo Re e il governo, sarà riuscire a mantenere questo tipo di sviluppo anche negli anni a venire, diffidando del turismo di massa, puntando sulla qualità piuttosto che sulla quantità. Se in Bhutan mancano i porti e autostrade, il suo popolo è tuttavia custode di una particolare risorsa per realizzare la propria felicità lorda.
Il Buddismo tibetano insegna a perseguire una lucidità profonda, attraverso numerosi esercizi che dovrebbero portare alla realizzazione dell’illusione delle cose materiali, inclusi noi stessi, arrivando così a comprendere la vera essenza del presente.
La cultura tibetana, che per millenni ha avuto questo intento in questa parte di mondo, è stata in grado di declinare il pensiero, le arti, la musica e la visione di un popolo e resta uno strumento utile per il futuro di tutto l’umanità.
P.S.: Stefano Dallari e Patrizia Audisio, promuovono la cultura tibetana nel cuore dell’Appennino reggiano a Votigno di Canossa, alla Casa del Tibet, offrendo la possibilità a tutti di avvicinarsi a questa terra tanto inaccessibile.