Riceviamo e pubblichiamo.
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Seguo sulla stampa il dibattito sull’eventuale chiusura del punto nascite dell’ospedale Sant’Anna di Castelnovo ne' Monti. Naturalmente sono ben conscia di non avere una competenza specifica sull’efficienza tecnico-organizzativa di questo importantissimo settore sanitario. Comprendo inoltre che la tendenza a procedere in questa direzione a livello nazionale trova nella nostra provincia un nuovo impulso, con l’unificazione della Usl e del Santa Maria Nuova, nonché con la prossima apertura della Casa della madre e del bambino che sicuramente offrirà a Reggio un servizio di eccellenza.
Non entrerò pertanto in questo specifico settore. Dal punto di vista territoriale, invece, non posso non osservare che per una ragione o per l’altra i servizi pubblici della nostra (e non solo nostra) montagna vengono via via progressivamente ridotti.
Ricordo che in passato in occasione di una delle riforme sanitarie si parlò addirittura di sopprimere l’ospedale di Castelnovo. Anche allora ci fu una lunga questione: per fortuna con le opportune modifiche il Sant’Anna è rimasto. Così come per avere una stazione dei Vigili del fuoco almeno a Castelnovo, cui fa capo un territorio fortemente boscoso, fu necessaria un’altra battaglia.
Quando negli anni Settanta svolsi lo studio preliminare al piano di sviluppo della Comunità montana (considerando i tredici comuni che ne facevano parte) la popolazione si aggirava intorno ai 45.000 abitanti; questo dopo le drammatiche emigrazioni interne ed esterne a partire dal dopoguerra. Ora la popolazione nel suo dato quantitativo non è molto diminuita, si aggira sui 44.000 abitanti. Tuttavia la situazione insediativa, occupazionale e produttiva è profondamente cambiata. I dati non sono tutti direttamente confrontabili perché i livelli e le organizzazioni istituzionali sono mutate. È tuttavia evidente il tracollo dei vari settori degli addetti con alcune coraggiose, anche se contratte, iniziative turistiche.
Le ragioni ovviamente sono complesse come sempre è complesso il governo di una città o di un territorio che vanno in ogni caso considerati in un corretto rapporto. Sicuramente gli sbocchi occupazionali e il loro livello rappresentano, per questo problema, una posizione di primo piano. È vero infatti che l’impiego nei pubblici enti e servizi (forse un giorno doverosamente razionalizzati) è uno degli sbocchi occupazionali: basta vedere questo problema a livello nazionale e locale. In ogni caso la presenza dei servizi è uno degli elementi che fa sentire un cittadino, anche quello della montagna, supportato e stimolato a rimanere - come i montanari desiderano - sulla propria terra.
Non voglio qui ricordare lontani tempi in cui in ogni paese era presente, sempre a tempo pieno, il medico condotto, il farmacista, l’ufficiale postale con il portalettere, un rappresentante dell’ufficio delle Entrate, una seduta (il primo lunedì del mese) di un decentramento del tribunale per le piccole cause locali, il cantoniere cui era affidata la custodia di un certo tratto della strada statale, una stazione della guardia forestale, una dei carabinieri, le maestre (c’era anche qualche maestro ma generalmente erano di genere femminile) che, essendoci bimbi perché c’era popolazione effettiva, costituivano un riferimento importante. Ultimo non certo per importanza un sacerdote per ogni paese, sia nel capoluogo che nelle frazioni. Tutto questo è andato destrutturandosi e anziché il lungamente e inutilmente auspicato e dibattuto riequilibrio territoriale (si vedano i documenti degli anni Sessanta) si sono paurosamente accentuate le disuguaglianze. Come mai in territori completamente montani (penso all’Alto Adige ed alle Alpi austriache) la montagna è popolata, curata e intessuta di servizi? Al punto che se un cittadino apre un’attività in città (Klagenfurt, Austria) deve due volte la settimana garantire lo stesso servizio alla montagna dei dintorni, per evitare con il diverso trattamento l’accentramento di popolazione in città e il conseguente spopolamento del territorio? Certo le regioni a statuto speciale godono di privilegi economici che sanno ben spendere ma da noi la legge sulla montagna che prevedeva interventi “integrativi e non sostitutivi” è stata cancellata (si pensi solo al problema idrogeologico).
Oggi la nostra montagna ha subito fortissime trasformazioni e questo è anche logico: negli anni Sessanta la popolazione era maggiormente distribuita nei vari comuni e gli insediamenti rappresentavano il presidio per il territorio circostante poiché il settore trainante era l’agricoltura. Oggi, nella situazione attuale, l’economia del crinale si è orientata verso il settore ambientale e produttivo di tipo speciale come quella che si verifica nel Parco nazionale dell’Appennino Tosco-emiliano che in ogni caso ricopre fondamentalmente il crinale e i cui finanziamenti specifici non sono certo sufficienti. La gente, per non essere costretta ad abbandonare del tutto la montagna, ha cercato, col sacrificio di lasciare case, terre, stalle, di ripartire concentrandosi in Castelnovo ne' Monti, che è diventata di fatto la capitale di tutta la montagna reggiana. Se nel 1861 la sua popolazione era di 6.180 abitanti, un secolo dopo, nel 1961, era di 9.384 abitanti, e, dopo un leggero calo nel 1971, oggi può vantare, per il fenomeno accennato di spostamenti interni soprattutto dal crinale, una popolazione di 10.475 abitanti. In parallelo Villa Minozzo dal 1961 (7.725 abitanti) ad oggi (3.750 abitanti) ha perduto ben 3.975 abitanti, oltre la metà, così come del resto tutti i quattro comuni del crinale che non casualmente (vedremo gli effetti e le promesse) si sono unificati nel comune unico del Ventasso con 5.036 abitanti sparsi tuttavia tra vallate e spartiacque per un’estensione di 25.819 ettari.
Concludendo spero di avere ricordato qualche elemento di conoscenza sull’evoluzione storica, anche se recente, della situazione montana affinché si considerino le decisioni in campo e quelle future oltre “l’organizzazione burocratica gerarchica” (Bauman) che purtroppo caratterizza il nostro tempo. È necessaria una visione di più lunga prospettiva. Certo nessuna classe politica auspica l’abbandono di questo nostro patrimonio territoriale: è dunque indispensabile che il polo di Castelnovo ne' Monti non solo resista coi suoi servizi ma si rafforzi e qualifichi ulteriormente.
(Arch. Maria Cristina Costa, Reggio Emilia, 3/2/2017)
Pregiatissima arch. Maria Cristina Costa, ho letto con piacere e anche con un dolce ricordo nel cuore (quello della mia bravissima e amata docente di Lettere e Filosofia, la miglior insegnante che ho avuto, prof. Gina Caccialupi Costa) la sua disamina sul mantenimento dei servizi importanti nel nostro territorio. Lei conosce molto bene il nostro Appennino ed i cambiamenti, con notevoli disagi, che si sono compiuti nel susseguirsi del tempo. Ora siamo alle prese con il mantenimento del punto nevralgico del territorio: l’ospedale S. Anna che è sorto per volere dell’ onorevole Pasquale Marconi e che, per noi montanari, onorati di essere tali, ha una importanza grandissima. L’iniziativa, a salvaguardia del nostro ospedale che è sorta per prima è il comitato ” Salviamo le Cicogne”, che poi ha visto l’ appoggio di varie associazioni, di volontariato e non, ed è sorta grazie al lavoro e alla passione di volenterose ragazze, in quanto era apparso da subito evidente che, in base alle leggi che in Italia si sfornano come fossero biscotti e in ogni settore, per il comparto Sanità, il reparto Maternità del nostro nosocomio non rientrava nei parametri della nuova legge, che di dolce non ha nulla, ma solo tagli. I parti a Castelnovo non arrivano a 500 o 1.000 come prevede la legge. Era evidente che si andava alla chiusura nonostante le criticità legate al territorio. Poi da lì, piano piano, si intuisce che se non si fanno un determinato numero di interventi al femore Ortopedia sparisce e tante altre particolarità con un unico intento: tagliare. In sintesi, c’è la volontà politica a livello nazionale e poi regionale, di tagliare i piccoli ospedali di montagna, dove tutto funziona, dove le persone sono considerate persone, ma dove non vale la pena investire. Noi non siamo purtroppo una regione a statuto speciale. L’Italia, che è solo bellezza ovunque, non è stata amministrata per valorizzare il suo patrimonio ambientale così importante, come invece viene fatto in altre nazioni morfologicamente simili a noi. Cerreto Laghi, Collagna, Ligonchio, Vallisnera, Valbona, Cervarezza, Civago, Febbio, Villa Minozzo, sono tutti paesi con accanto luoghi di bellezze tutte da scoprire anche per chi viene dalla nostra città e non solo. L’Appennino Tosco-Emiliano è stato recentemente classificato area Mab come patrimonio dell’Unesco. Che senso ha un tale riconoscimento in futuro? Si dovrebbe proteggere la biodiversità del nostro territorio, però se abiti in montagna per proteggere l’ambiente e non cementificare sempre di più le città, non dovresti ammalarti, non dovresti farti una famiglia e nemmeno fare figli perché se una donna deve partorire si fa dai 40 ai 70/80 km. con qualsiasi tempo per arrivare a Reggio al centro Mire, che sarà sicuramente una eccellenza. I nostri figli sino ad ora sono nati qui in sicurezza, in un ambiente nuovo ed accogliente. Al centro Mire andranno le mamme con gravidanze a rischio o al Core coloro che necessitano di interventi particolarmente complicati. Abbiamo medici, in reparti strategici come Rianimazione, Diagnostica, Cardiologia che ci assicurano il massimo della bravura e competenza. Inoltre non dimentichiamo l’unificazione, come lei giustamente ricordava, dell’ AUSL con il S. Maria Nuova. E potrei continuare ancora. Concludo questo sfogo personale, e qui gli insegnamenti della Sua mamma mi sono serviti tantissimo e anche ora riaffiorano, dicendo che in politica, perché il mantenimento del nostro ospedale è solo un problema politico, la ragione, l’obiettività e il buon senso non esistono. Ora men che meno. Anch’ io auspico che il nostro patrimonio territoriale resista. Noi cittadini dovremo fare resistenza affinché ciò avvenga e che “Dio ce la mandi buona”. Grazie per il suo autorevole e prezioso contributo.
(Luisa Valdesalici)
Il leggere l’avvio del quarto capoverso, ossia “Quando negli anni Settanta svolsi lo studio preliminare al piano di sviluppo della Comunità montana…”, mi fa tornare alla mente gli anni nei quali detto ente dava unicità e rappresentanza al nostro territorio nei confronti dei vari interlocutori, il che ne rafforzava a mio avviso la potenzialità negoziale, e si occupava altresì di programmazione, come il citato piano di sviluppo lascia ben intendere. Da allora il “contesto” è parecchio cambiato e non c’è più la Comunità montana – e io non so chi abbia ereditato tale funzione programmatoria, ammesso che sia rimasta – me resta comunque intatta la necessità di non perdere mai di vista la “tenuta” del nostro territorio, misurabile attraverso determinati indici, tra i quali figura verosimilmente il numero degli abitanti, e dei nuclei famigliari residenti, insieme a quello delle imprese ed attività economiche, e al livello occupazionale. Vanno tenute inoltre presenti le fasce di età, perché ci insegnano che una comunità senza ricambio generazionale perde vigore e prospettiva e si avvia ad una fase di inarrestabile declino, e a questo riguardo, pur se non dispongo di dati demografici aggiornati, tutti ci dicono che la nostra popolazione sta invecchiando e se vengono a mancare i posti di lavoro il fenomeno è destinato ad acuirsi sempre di più, con una inevitabile ricaduta sulla rete dei servizi. L’impressione corrente, stando almeno a quanto capita di ascoltare in giro, è che fino ad ora le azioni messe in campo dalla mano pubblica non abbiano dato grandi risultati sul fronte dell’economia e della occupazione, e a questo punto, se le cose stanno effettivamente come si sente dire, non resterebbe che puntare sulla iniziativa dei privati, affidandosi ad uno strumento non nuovo, ossia benefici fiscali, e incentivazioni di questo tipo, per chi investe in montagna, e più in generale per chi vi esercita una attività. Sul piano meramente contabile, c’è chi non vede di buon occhio siffatte agevolazioni, perché lo Stato ci “perderebbe” viste le minori entrate fiscali, ma si può obiettare che avrà poi modo di recuperarle se le aziende restano in attività, anziché chiudere i battenti, e semmai crescessero di numero, e dunque la strada della “detassazione” sembra essere percorribile, e reciprocamente vantaggiosa, un po’ come la tesi della cosiddetta Flax tax, ovvero una sola e bassa aliquota per tutti, che alla fine dovrebbe far aumentare il gettito fiscale per lo Stato (sto esprimendo un’opinione, senza pretesa di essere nel giusto).
(P.B.)