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Chiamiamola pure civiltà

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Riceviamo e pubblichiamo.

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Non è certo una novità: la nostra società si regge sull’ipocrisia. Poi il costume pubblico di raccontare piccole e grandi bugie non fa altro che aggiungere “legna”, ma il vero motore è il primo. Sarebbe sicuramente tutta una storia da riscrivere, quella dell’umanità, soprattutto da quando i rapporti tra persone e gruppi si sono sviluppati e hanno cominciato ad assumere una certa importanza. Da quando l’uomo è, propriamente, “animale sociale”. Si tratta, anche se può capitare che neppure ci se ne renda conto, di una regola tacitamente accettata dalla quasi totalità di noi. Chi non vi si adegua o è un “pazzo” oppure viene prontamente emarginato, costituendo un evidente ostacolo, un turbamento – quando non un vero e proprio pericolo – allo svolgersi “regolare” dei rapporti “civili” e vicendevoli.

Prove di questo stato di cose le abbiamo, le possiamo, le potremmo avere continuamente. Ma ci turiamo spesso occhi/orecchie/bocca, come le tre famose e simpatiche scimmiette. Facciamo finta di niente. Staremmo male. Funziona così. E’ il sistema.
Ci farebbe poco piacere, immaginiamo, sapere cosa dicono di noi i gentili colleghi quando non siamo al lavoro. Oppure avere cognizione di come, non di rado, confidenti, all’apparenza tanto comprensivi e pazienti e compunti, che hanno raccolto le nostre pene e i nostri sfoghi su problemi personali o famigliari colti magari in momenti di più acuta debolezza, bisbiglino a terzi non richiesti, alla prima occasione e con assoluta nonchalance, cose che davamo per scontate essere riservate (tzè). Ed inoltre, ancora, potremmo scoprire cose spiacevoli sapendo quel che si sussurra quando manchiamo ad una cena con amici, dove (lo sappiamo perché sentiamo con le nostre orecchie, a proposito degli altri, quando ci siamo) si commenta e si ride volentieri “di tutto e di più” attorno agli “amici” assenti.
Sappiamo tutti bene cosa significa, in tante situazioni, “parlare”. Abbiamo quindi probabilmente piacere di “non sapere”. La temiamo, in fondo, la verità. Saremmo portati a rompere dei legami. Ci avveleneremmo la vita. Rileviamo l’ipocrisia altrui ma ci guardiamo bene dal farlo con la nostra. Neanche ci sfiora, il pensiero. Quasi sempre la parola (la parola sincera, qui s’intende) comporta conseguenze destabilizzanti più o meno a vasto raggio. In maniera certamente distorta, chi tace (inteso qui chiaramente nel senso “mafiosetto”) è normalmente definito, infatti, una “persona dignitosa”. Abbiamo presenti gli esempi, senza entrare nel particolare.

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Quanto dunque, anche in questo campo, è “destabilizzante” la Parola di quel Vangelo che, purtuttavia, la nostra società ha elevato formalmente a suo testo-guida, che onora e difende “a spada tratta” (come accade attualmente, tanto per fare un esempio, con la questione dei crocifissi)! Con un effetto che, tutto sommato, può apparire anche ridicolo se la questione non fosse seria. Chi davvero vuole e riesce ad essere seguace del Cristo morto in croce per la cattiveria umana è un umile, un “povero”, uno che “non conta niente” (questo almeno secondo i parametri comunemente in voga e a noi tanti cari). Non è certo uno di quelli che si agita per ricavarne vantaggi – di qualsiasi tipo (materiali, politici, di prestigio, tutto quel che si vuole). Il primo sa bene che tutto il suo essere deve guardare ben oltre lo stretto corpo che lo contiene, destinato alla polvere. E che le azioni compiute in questo mondo devono essere messe in conto per il dopo, allorquando saranno giudicate da Qualcuno che ci vede e segue sempre, tutti, anche nel segreto più segreto, anche se non ci pensiamo mai.

In questo quadro, chi può dirsi allora veramente cristiano? A che titolo la nostra società si arroga il “diritto” di difendere le proprie radici cristiane (se solo si avesse un po’ di pudore…)? Quanto è divaricato il comportamento che assumiamo nel privato rispetto a quello pubblico? Quanto, in quello pubblico, conta quel che facciamo vedere, quel che desideriamo che si sappia e quel che invece teniamo riservato, quel che non abbiamo piacere venga conosciuto? Da dove scaturisce quell’irrefrenabile voglia di sbandierare al mondo i titoli (scolastici/accademici, di lavoro…) che abbiamo conseguito pur sapendo che essi dovrebbero essere, eventualmente, solo meri strumenti per la nostra crescita e, attraverso essa, magari, di quella di chi ci sta intorno, di una comunità di persone più o meno vasta (piuttosto che essere invece, appena ottenuti, niente più che millantati crediti – perché ancora tutti da esprimere, quindi potenziali seppur spesso duramente ed encomiabilmente sudati – per un maggiore prestigio sociale di cui godere tra i nostri simili, cioè, per distinguerci/innalzarci rispetto alla “massa”)? Quale lo scopo di anteporre, naturaliter, sigle e onorificenze ad un nome – quello che ci hanno dato alla nascita – quanto basterebbe semplicemente e fraternamente: “Piacere, uomo come te?”. Ecc. ecc.

Ipocrisia, ipocrisia, tutto è ipocrisia. Chiamiamola pure civiltà. Basta sapere di quel che stiamo parlando.

(cf)

2 COMMENTS

  1. Azzeccatissimo
    Godevolissima e azzeccata analisi di ciò che normalmente quasi tutti facciamo forse perchè in cuor nostro pensiamo di essere sempre migliori degli altri, mentre non pensiamo che forse in fondo in fondo siamo tutti sulla stessa barca di questa grande famiglia che è l’umanità.

    (Elisabetta Marmiroli)