“Non c'è al mondo città uguale, che vi offra tali delizie così che uno si crede in paradiso”.
Così Marco Polo descriveva la città di Hangzhou, poco a sud di Shangai.
Ma di quella Cina medioevale, antica e tutto sommato romantica è rimasto ben poco e sempre meno sarà percettibile.
I profili delle città scorrono lungo il finestrino dell’autobus che ci sta portando verso l’Hunan, ma sono tutti disordinati e confusi.
Già dopo poche ore è chiaro quanto la Cina moderna abbia perso lo spirito taoista di un’esistenza umana in armonia e ordine con la natura circostante, sembra piuttosto di procedere in un’infinita spoglia periferia di una grande metropoli.
Alti grigi palazzi in costruzione senza nessuna logica urbanistica o, evitando di cadere nell’arroganza occidentale, un equilibrio e una bellezza che a noi risulta di difficile lettura.
Finalmente in mezzo alla natura verde e rigogliosa, la nostra prima destinazione fatica a farsi trovare, si nasconde tra alte montagne, a due giorni di viaggio verso nord da Hong Kong.
Arriviamo al parco di Zhangjiajie al mattino presto, in questo luogo dicono si siano ispirati i creatori del grande successo cinematografico Avatar.
E’ un parco che si estende su decine di chilometri quadrati di montagne e pinnacoli carsici, prima riserva naturale ad essere riconosciuto di interesse nazionale dal Governo cinese già nel lontano 1982.
Malgrado l’ubicazione remota di questo luogo, affascina il sistema tecnologico che riconosce le impronte digitale del visitatore, rendendo il parco accessibile per tre giorni.
I turisti che ci circondano sono tutti cinesi, anche dopo avere camminato per chilometri e scalato migliaia di gradini, li incontriamo (o meglio li scontriamo) in fila a centinaia, arrivati prima di noi grazie alle innumerevoli funivie costruite negli ultimi anni, rendendo il parco troppo accessibile e assolutamente non sostenibile. Rimaniamo in sospeso per alcuni giorni tra un set cinematografico che ricorda "Jurassic Park" e infinite scalinate e sentieri isolati, dove gli unici incontri sono bassi portantini sudati che fanno barcollare le pance di turisti indolenti in cerca dell’emozione della salita.
Tra le meraviglie dei pinnacoli carsici, i ponti di pietra naturale modellati dal vento nei secoli, non si può fare a meno di notare (con un certo rammarico) l’enorme sporcizia lungo il percorso, bottiglie vuote, carte varie, resti di cibo.
Il parco di Zhangjiajie ci regala momenti esclusivi l’ultima sera, quando dopo una pioggia battente la nebbia, salendo, ci fa perdere tra le pieghe del tempo nei piccoli villaggi di montagna, rischiarati dalle luci delle lanterne e abitati dalla minoranza Tujia. Arrampicandoci tra sentieri scavati nella roccia abbandoniamo il vociare dei turisti, le spinte tra le code alle stazioni di funivia. Gli odori della giungla rinvigoriti dall’umidità ci fanno tornare indietro in quella Cina che non esiste quasi più. Cala la notte, ma la via verso l’albergo è ben tracciata, rientriamo che è buio.
Ci mettiamo sei ore per arrivare a Fenghuang, la città della fenice, sdraiata da secoli lungo il fiume Tuo Jiang, citta di frontiera tra gli Han le minoranze Miao e Tujia, custode ancora oggi di preziosi e rari resti Ming e Quing.
Ubicata in una zona tanto remota quanto inaccessibile, la città ci accoglie la sera con i suoi ponti illuminati e le lanterne attorno alle vecchie case. Fenghuang sembra attendere tranquilla i visitatori che ogni anno si riversano tra le sue stradine strette e umide a ridosso del fiume.
Le case in legno hanno facciate che sporgono pericolosamente sulle rive del fiume, spesso delle palizzate assicurano i piani più alti da cedimenti improvvisi.
I materiali degli antichi edifici, i templi, la leggera bruma mattutina e le barche di bambù rendono la città un’isola remota e misteriosa, lontana dalle frenetiche città, fatte di alti condomini di cemento a poche ore di viaggio.
I ristoranti nella parte vecchia offrono menù tipici della regione. Qui tutte le pietanze, siano carni, pesci o verdure vengono accompagnate con peperoncini freschi, rossi e verdi che richiedono abbondanti boccali di birra per essere trangugiati.
Spesso davanti ai ristoranti gli avventori possono scegliere l’animale (generalmente vivo) da gustare. Il menu spazia dalle oche alle anatre passando per i fagiani fino ai serpenti, per i più coraggiosi.
La cultura del peperoncino è una vera è propria scienza, basta andare ad un mercato locale per vedere la cura con cui vengono coltivati, separati ed essiccati. Il passaggio davanti a questi banchi lunghi diversi metri lascia un certo pizzico alla gola.. che tuttavia aiuta ad assopire gli altri odori a volte forti dei mercati.
Riprendiamo il viaggio, un treno e diverse ore di autobus per valicare fino a giungere nella provincia del Guangxi.
(Matteo Manfredini )