Spiego subito che l’espressione “a tipo” ha avuto vita breve, per fortuna, però indicava un gruppo di prodotti scadenti, di rimedi sostitutivi in mancanza di quelli originali. L’espressione era entrata in uso durante la seconda guerra, credo nel 1942, e, lì per lì, indicava dei tessuti fatti con prodotti chimici al posto dei prodotti naturali (seta, lana, canapa, lino). Poi, come solo la gente riesce a fare, oltre ogni logica e senza timori riverenziali, l’espressione è passata ad indicare qualsiasi cosa fasulla, priva di consistenza. Al punto che, quando la guerra divenne pericolosa anche da noi, circolava anche una Avemaria a tipo, cioè priva del placet canonico della Curia, ma ugualmente sincera, che io ho potuto ascoltare da un partigiano di sentinella sul Martino (a Castellaro di Vetto), e che poi ho rintracciato anche in Romagna, nella valle del Bidente.
Mi sarebbe piaciuto sapere se a mio nonno sia passato per la mente il proverbio Le disgrazie non vengono mai sole quando, un lunedì, a Castelnovo, entrò dal paltino per comperare dei toscani o, almeno, del tabacco da pipa e si sentì dire che non ce n’era più, che i rifornimenti non erano arrivati, e che non si sapeva quando e se sarebbero mai arrivati, coi tempi che correvano!
Lepido non chiedeva poi molto alla vita, ma doveva negarsi anche la fumatina dopo i pasti? Quell’attimo di scarica psicologica che lo aiutava a riappacificarsi con il lavoro, la fatica e le contrarietà dell’esistenza? Per questa debolezza aveva un suo rituale particolare quando il tempo lo permetteva: finito il pasto si alzava da tavola e, un poco curvo per gli anni e le fatiche, si accostava alla finestra della sala, si metteva a cavalcioni della sedia con le braccia appoggiate al davanzale e con lo sguardo ispezionava i campi di quel grande anfiteatro che ha come protagonista centrale la Pietra. Poi girava il mezzo toscano con la brace all’interno della bocca. Non chiedetemi perché. Non l’ho mai saputo. Pare che, con quell’accorgimento, il sigaro durasse più a lungo. La finestra della sala aveva un vantaggio: era in asse con la porta e la finestra vicino al forno, che si affacciava sulla macchia, il bosco a settentrione della casa. E da lì saliva l’aria fresca.
Tutta colpa della guerra, si diceva in giro. E delle sanzioni commerciali imposte all’Italia da Inghilterra e Francia, alle quali Benito aveva dichiarato guerra. La povera gente era costretta ad inventarsi stratagemmi per sopravvivere, perché le importazioni non arrivavano e l’allora capo del governo aveva inventato l’autarchia credendo di fare dispetto chissà a chi. La conclusione, scontata e chiara per tutti, fu che anche i generi di prima necessità ben presto cominciarono a scarseggiare fino a sparire. Oppure li trovavi, sì, ma solo al mercato nero.
E mentre i pensieri si accavallavano per poi sciogliersi di fronte all’impotenza, come le spire del fumo che di tanto in tanto emetteva, Lepido accarezzava i prati con lo sguardo e subiva, indifferente, la canzonatura delle cicale accovacciate lì, sulla quercia, a due passi da casa. Come se volessero sbeffeggiare le sue fatiche. Quando diventavano insopportabili uno schiocco di mani le tacitava per un breve periodo.
Anche il caffè era scomparso dalle scansie dei bottegai. A noi interessava poco perché, allora, usavamo ancora l’orzo prodotto in casa e corretto con un surrogato definito genericamente caffè olandese. Su quest’argomento, la mancanza di caffè, circolavano alcuni campetti in dialetto che erano diventati come dei proverbi e venivano anche canticchiati in una cantilena. Pare che l’autore fosse nientemeno che Isaia da Villaberza:
Fîn che ‘l re l’êra re
a s’abbîva dal bûn cafè;
I l’hân fàt Imperadûr: (dell’Africa Orientale Italiana)
dal cafè a n’ se sênt gnân l’udûr!
Adès ch’ l’è re ânch d’ l’Albanìa
al cafè al le manda via.
La politica di quel periodo non era condivisa nel nostro circoscritto mondo agricolo. Specialmente in quella zona centrale della Valle del Tassobio ove non arrivavano strade, luce, acqua, telefono. Per restare in argomento ricordo una strofetta del tempo, credo ormai dimenticata. La canticchiavamo in sordina perché le camicie nere erano ancora influenti e rabbiose, sull’aria di una più famosa canzone del ventennio:
Duce, Duce, t’m’ê rubâ i cunìj!
Tröja d’ ‘na brúta bèstia, t’ m’ê rubâ i pu’ bèj.
(Duce, Duce mi ha rubato i conigli. Vigliacco di una brutta bestia, mi hai rubato i più belli!).
Ed era ancora vivo, anche se erano già passati diversi anni, il ricordo della reazioni di un certo Puldîn dal Grès, che seppe tener testa ad un manipolo di fascisti giunti sul posto per somministrargli l’olio di ricino. A parer loro Puldîn era un tipo in odore di socialismo. Ritiratosi in casa prima che lo accerchiassero, aveva preso in mano la scure per squadrare i tronchi e fatto in modo che gli intrusi la vedessero e la valutassero. Si trattava di una vera mannaia, ma con la parte tagliente lunga una trentina di centimetri, rettilinea, e pesante alcuni chili. All'epoca Puldîn aveva la nomea del duro a causa di un incidente occorsogli in gioventù. Per difendersi da un tizio che lo stava vessando aveva raccolto un sasso e lanciato contro costui. Sfortuna volle che lo colpisse alla tempia e lo facesse secco. Ci fu anche il processo che assolse l'imputato per legittima difesa. I fascisti Puldîn li aveva accolti così: “Gnî ùter, s’i’ gh’aî curà-g! Me i’ va squârt in mèš”! (Venite avanti se avete coraggio! Io vi spacco in due!). “Squartâr in mèš” era l’espressione usata quando si divideva in due il maiale dopo averlo ucciso e ripulito. Gli anziani del luogo affermavano che quel manipolo di prepotenti non si è più fatto vedere a Legoreccio.
Ma ritorniamo a Lepido. Chiedere in prestito un po’ di tabacco? Ma a chi, prima di tutto? E poi non era dignitoso! E chi ne aveva di scorta di sicuro non lo vendeva. Nella lunga camminata da Castelnovo a casa riemersero memorie di chissà quale esperienza. Della grande guerra? Del lavoro in Francia? Certamente di un periodo di vacche magre. Comunque quella volta aveva incamerato alcune vaghe nozioni sulla concia del tabacco e pensò di sfruttarle in questo momento di ristrettezze.
Il mattino seguente, prima che il sole asciugasse la rugiada, salì sulla spianata del Martino, raccolse una buona quantità di betonica (in dialetto Ptùnga). A casa staccò tutte le foglie più larghe e le distese per bene su un tavolaccio, le inumidì con aceto, sistemò poi il tavolaccio in solaio, all’ombra, in un punto ben ventilato. Eravamo in piena estate. Il caldo facilitò l’essiccazione delle foglie. Qualche giorno dopo le prese, le triturò per bene con le mani e ripose il tutto in un sacchetto di stoffa. Nel frattempo aveva riempito la pipa. L’odore non era gradevole, e penso che anche il sapore fosse poco soddisfacente! Inconsciamente ciò contribuì a fargli ridurre il consumo di tabacco. Non ho più rivisto il nonno replicare quell’operazione.
Anche l’iniziazione dei ragazzi al fumo aveva un rito proprio, praticato di nascosto, naturalmente! Si sceglieva un segmento di vitalba secca (gusêdra), si toglieva la scorza poi si accendeva inspirando intensamente. Il tiraggio di quel finto sigaro era perfetto. Anche troppo. A volte infatti, oltre al fumo, arrivava in gola anche la fiamma.
Il mezzo sigaro con la brace in bocca era tipico in quel periodo di vendette, così che la brace ardente non fosse visibile e permettesse a qualche cecchino di centrare la testa del fumatore.
(Corrado Parisoli)
Ero al corrente di altre forme di protezione contro i cecchini, ma questa non la sapevo. Grazie, Corrado.
(Savino Rabotti)
Nelle campagne padane era in uso far essiccare la barba delle pannocchie di mais, tra l’altro operazione molto veloce, per poi inserire questo raccolto all’interno di una pipa o di una cartina da sigaretta (analoga a quelle odierne) per poi aspirarne il fumo come fosse tabacco.
(Angelo)
Continuo il commento di Corrado: l’uso di fumare il sigaro alla rovescia deriva anche dalla necessità, per una squadra di posamine in missione notturna, di un infallibile sistema per portare il fuoco acceso dalla propria trincea a quella avversaria senza essere avvistati, sia durante il trasporto della mina, sia al momento di accendere la miccia. Le vedette fumavano anche pipe, tipiche quelle in terra, più facili da fumare e ugualmente invisibili.
(Massimiliano)
Mio papà, classe 1912, durante la guerra tritava la corteccia delle viti merlot, cabernet, fragolino. Fumava anche i semi dei finocchi. I semi dei finocchi li fumai anch’io. Valentina, la fruttivendola che aveva la bottega sul viale dell’internato Ignoto di Terranegra (PD) vendeva ai bambini del catechismo frutta secca, bastoncini di liquirizia che intingevamo nelle arance, biscotti peverini e lunghi coni di carta (circa 20 cm) ripieni di semi di finocchio che chiamavamo “fenocetti”. Li fumavamo insieme. Una tirata mi ed una ti.
(Angelo Cecchinato)