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Confondere il latte col vino (di Enrico Bussi)

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Pubblichiamo una nota di Enrico Bussi dei Rurali Reggiani sui problemi di mercato del parmigiano-reggiano. Di questi temi si è discusso sabato scorso 14 febbraio a Felina

 

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Parmigiano ReggianoC’è da ridere se capita di prendere la bottiglia sbagliata in casa, c’è da piangere se succede nelle grandi scelte sull’Appennino reggiano per affrontare la crisi di mercato del latte. L’Italia investita dai cambiamenti internazionali si trova vergognosamente priva di ogni strumento di difesa e arriva nuda alla fine del regime delle quote dell’UE senza averne fatto un buon uso come gli altri Paesi.

Ha perduto tutta la grande industria lattiero-casearia (Galbani, Locatelli, Invernizzi, Polenghi, Parmalat, ecc.) comprata da due multinazionali (Nestlè e Lactalis) e non ha un gruppo italiano della grande distribuzione che operi in Paesi dell’UE. Si salvano giusto i caseifici artigianali che lavorano il latte locale per formaggi con denominazione di drigine protetta come il Parmigiano Reggiano e la loro presenza ha salvato il nostro Appennino dallo svuotamento.

Il Parmigiano Reggiano ha un processo poco costoso e conveniente, incide per il 25% sul valore del latte lavorato e offre al consumatore un concentrato di 17 kg di latte per ogni kg di formaggio. All’opposto, i formaggi industriali costano più del 75% del valore del latte impiegato e l’industria recupera pagando meno il latte alla stalla e vendendo al consumatore molta più acqua e grasso, un kg di formaggino contiene soltanto 4-5 kg di latte.

Dunque, la lavorazione artigianale di un formaggio di alta qualità pronto per il consumo ha permesso ai contadini di mantenere il controllo di numerosi caseifici, di tenere la trasformazione nei pressi della produzione del latte e di aumentare l’occupazione. Da questo sistema dipende la vitalità del nostro Appennino rispetto a quello abbandonato delle altre zone emiliane e toscane. La salvezza sta nel rafforzare ogni caseificio costruito e aggiornato per generazioni senza illudersi di cambiare le regole della grande distribuzione organizzata. La stessa industria alimentare maggiore deve accettare le condizioni imposte dalla GDO e i consorzi di secondo grado sono ancor più deboli. Tantoché sono falliti tutti i consorzi nati a Reggio Emilia, Modena, Bologna, Parma, così come l’ultimo tentativo fatto dallo stesso Consorzio di tutela del Parmigiano Reggiano e in dicembre Lactalis ha comprato il Consorzio delle Latterie Friulane.

Nonostante l’evidenza, torna l’idea di affidare a un consorzio la vendita del formaggio e viene riproposta a un manipolo di caseifici di montagna sollecitati a seguire il successo realizzato nel settore vinicolo. Confondere il latte col vino in questo caso non è più una commedia, ma può diventare una tragedia colposa perché trascura due aspetti evidenti. Il latte abbonda in nord Europa dove hanno radici le multinazionali del latte che pompando ci sovrastano e dettano i prezzi del latte ai contadini che non stanno assieme in una latteria sociale per il formaggio DOP. All’opposto del latte in Italia abbonda l’uva su cui si sono sviluppate le nostre industrie del vino, compreso il consorzio reggiano tra cantine sociali, e sono diventate le nostre multinazionali del settore.

Dunque, mandare i caseifici di montagna a competere con grande industria e GDO è un errore tragico, come un capo partigiano che manda un suo reparto in campo aperto contro i carri armati. Per uscire dalla crisi è indispensabile aiutare i caseifici a identificare il formaggio per venderlo meglio ai grossisti che vanno in caseificio (necessari per piazzare la maggior parte delle 230.000 forme) e ai nuovi clienti da cercare lontano.

Se un tempo i contadini sono diventati datori di lavoro per casari e aiutanti, adesso cominciano a diventare datori di lavoro di chi vende in Italia e all’estero generando nuova occupazione in zona. Ma è meglio se si mettono d’accordo per seguire criteri comuni per sfruttare la buona immagine del Parmigiano Reggiano dell’Appennino reggiano conquistata sul mercato negli anni.

Le latterie hanno fatto i primi passi con successo, bisogna aiutarle senza deviazioni pericolose, senza l’illusione di affidare questo nuovo compito al management esterno (quello che si paga a terzi non lo si mette in casa). E c’è da schivare la trappola dell’industria che si presenta come se fosse un consorzio di cooperative e agisce come le altre industrie, compra latte dai produttori allo sbaraglio, alleva tante vacche con l’indiano, mescola formaggio buono con quello meno, allunga degli impasti con acqua e grasso, abusa di una marca simile alla DOP e fa morire il sistema che sostiene l’Appennino reggiano.
(Enrico Bussi, associazione Rurali Reggiani)

 

 

 

 

9 COMMENTS

  1. Caro dr. Bussi, colgo poco gli aspetti del suo bell’articolo, per ignoranza mia. Mi risulta però evidente, e trovo conferma, che il problema non è chimico tanto meno microbiologico. Tutto quello che potevamo dimostrare in questi ambiti tecnici è stato ampiamente dimostrato. Il problema è una politica di vendita efficace, che tenga presente, e sfrutti a suo favore, il fatto che il Parmigiano-Reggiano è prodotto in un’unica zona al mondo. Alla luce di questa “acquisizione” non riesco a capire come mai non valgono le leggi del monopolio. Cordiali saluti.

    (Sincero Bresciani)

    • Firma - Sincero Bresciani
    • Rispondo a Sincero Bresciani che mi chiede se valgono o non valgono le regole del monopolio: certo che valgono, ma il monopolio più forte sta dalla parte di chi vende. Meno di 10 gruppi della GDO vendono il 75% di tutto il cibo e impongono le regole anche alla grande multinazionale alimentare, si chiami Ferrero o Barilla. Per fortuna anche la DOP è rinomata senza dover spendere tutto in pubblicità rispetto alla massa preponderante di formaggi del tutto simili che si fanno in zone più vaste e potenti in Italia (Grana Padano) e all’estero (vari similgrana). Se perdiamo anche la distinzione assicurata dal caseificio artigianale e dall’erba di montagna, anche la nostra zona è destinata alla desertificazione come le altre zone dell’Appennino attorno al comprensorio del Parmigiano Reggiano.

      (Enrico Bussi)

      • Firma - Enrico Bussi
  2. Nel leggere che l’Italia “ha perduto tutta la grande industria lattiero-casearia” viene spontaneo pensare ai tanti cartelli, presenti un po’ ovunque, che informano dell’intenzione di vendere un immobile o di cedere una attività, e tutto questo insieme ci dà la melanconica idea di un Paese “in vendita”, senza contare il continuo calo degli allevamenti zootecnici, che sembra inarrestabile. Quanto poi ai “caseifici artigianali che lavorano il latte locale per formaggi con denominazione di origine protetta come il Parmigiano Reggiano, la loro presenza ha salvato il nostro Appennino dallo svuotamento”, viene da chiedersi se chi pensa ad una “nuova ruralità e ritorno alla terra” reputi di dover ripartire in qualche modo da lì – ammesso che sia ancora possibile, ed eventualmente affiancandovi altre tipologie di produzione agricola, che potremmo definire complementari – o se intenda invece che si debba ormai guardare ad altre e diverse coltivazioni rispetto a quella tradizionale di questi posti, che era giustappunto ad indirizzo lattiero caseario.

    (P.B.)

    • Firma - P.B.
  3. Buongiorno ad entrambi. Non avevo “messo a fuoco” la distinzione importante tra i due monopoli, chi vende e chi produce. A rigor di logica dovrebbero essere i secondi a prevalere, dettando quindi le condizioni per la vendita e la tutela del prodotto. Così non è per la mancanza, a mio modo di vedere, di un regista che si fa parte dei produttori(?). Secondo me la “nuova ruralità” è vincente nella misura in cui amplifica le peculiarità del prodotto e del suo intorno; corredato da tracciabilità (termine forse troppo di moda) o meno, ma comunque senza prevedere un’agricoltura complementare che forse non risolverebbe il problema. Anche perchè gli imprenditori agricoli, a quanto mi risulta, sono già sensibilizzati verso “il complementare” come risorsa ausiliaria. Un bel tema, difficile, molto difficile, da affrontare.

    (Sincero Bresciani)

    • Firma - Sincero Bresciani
  4. Sincero, lo stato delle cose è che la GDO ha una dimensione enorme rispetto a qualunque produttore. Per esempio, Barilla, o Ferrero, o Nestlè, ecc. che sono tra i produttori alimentari più grandi, sono monopolisti assoluti dei loro marchi e registi unici dei tanti loro stabilimenti, ma devono sottostare alle condizioni dei gruppi della GDO che sono molto più concentrati e forti di qualsiasi grande produttore.

    (Enrico Bussi)

    • Firma - EnricoBussi
  5. Le alternative al settore lattiero-caseario non esistono in termini di peso equivalente. Le 230.000 forme di formaggio, il burro, i suini, la salumeria, i servizi che ruotano attorno alla filiera foraggio-formaggio sono l’unico motore che fa viaggiare la nostra economia, in termini di fatturato, di posti di lavoro e capacità di utilizzare e valorizzare sul mercato l’erba, la principale risorsa dell’Appennino. Tutto il resto, cereali, frutta, legno, altre coltivazioni servono come integrazione, meritano di essere valorizzate e potenziate a loro volta, ma di certo non si può immaginare la possibilità di trasformare la nostra realtà in quella della Val d’Adige o delle Langhe, nè avrebbe senso.

    (Enrico Bussi)

    • Firma - EnricoBussi
  6. “Un bel tema, difficile, molto difficile, da affrontare”, sono le parole con cui si chiude un commento, ma se la materia è importante, e ciò è indubbio, vale comunque la pena di darsi una qualche risposta in merito, nonostante le “difficoltà” che possiamo incontrare nel farlo, anche se potrebbe poi succedere che ad un certo punto siano gli eventi stessi, sospinti da fattori vari e imponderabili, a scavalcare tutte le nostre teorie e disquisizioni. Girando per le strade d’Europa – e oggi lo si può fare anche in maniera virtuale, attraverso filmati, riprese televisive, servizi fotografici, articoli di stampa – si ha non di rado l’impressione che in diverse nazioni, pure tra quelle che sono date per molto forti sul piano economico e industriale, l’agricoltura non sia per niente in crisi, anzi dà l’idea di essere fiorente, posto che si vedono fattorie in funzione, distese di campi ininterrottamente coltivati, mandrie di animali al pascolo, composte spesso da vacche da latte, e si leggono resoconti che vanno giusto in questo senso. Viene pertanto naturale fare un confronto con la situazione nostra, dove è in atto da anni un continuo esodo dalla terra, che inizialmente ha interessato soprattutto le aree montane e collinari, ma si è poi esteso anche alle zone più “fertili” e redditizie, intese cioè come quelle lavorabili con minor fatica e minori spese rispetto alle prime, il che sta a dirci che da noi il fenomeno “esodo” non è dipeso soltanto da ragioni economiche, ma verosimilmente anche da diffuse e radicate motivazioni sociali (il cui recupero non è talora affatto semplice). Oggigiorno si auspica e si invoca da più parti un ritorno alla terra e ci stiamo interrogando se ed in quale modo questo sia possibile e le risposte al riguardo non sono in effetti semplici, anche considerando l’orografia del nostro territorio e la sua organizzazione fondiaria; ma se, come per l’appunto sembra, in Europa vi sono Stati e collettività che hanno saputo mantenere nel tempo il giusto riconoscimento al valore delle attività agricole, potrà succedere che pure da noi si inverta stabilmente la tendenza di questi decenni, in maniera per così dire spontanea, e sarebbe allora importante che in quel momento la nostra società, intesa nel suo insieme, non si lasci sfuggire l’occasione e sappia “stringersi” con determinatezza e convinzione intorno alla propria agricoltura, evitando di commettere gli errori del passato. Da ultimo, mi sembrano oggettive e logiche le argomentazioni portate dall’Autore nel suo secondo commento.

    (P.B.)

    • Firma - P.B.
    • “P.B.”, come vede la difficoltà del tema non mi sottrae dal partecipare. “Si auspica, s’invoca… un ritorno” difficile (difficile bis) forse anche perchè la nuova PAC su alcuni aspetti è anacronistica, e di fatto non so quanto realmente aiuti un giovane (pazienza, sono over 40) ad affacciarsi con prudenza ma entusiasmo all’imprenditoria agricola.

      (Sincero Bresciani)

      • Firma - SinceroBresciani
  7. Ok, è tutto, nella sua tragica realtà, chiaro. Mi permetto un ultima domanda, che non vuole essere polemica, ma serve solo a me per capire le dinamiche ed i rapporti di forza: da 70 anni abbiamo un Consorzio (Consorzio di tutela), che tra i compiti riporta “tutelare il Parmigiano Reggiano dalle sue imitazioni, promuovere e diffondere la conoscenza e il consumo di Parmigiano Reggiano”. Perchè non assume posizioni più decise facendo valere, con le modalità consentite dal suo ruolo, il “piccolo” monopolio anche nei confronti dei giganti? Non è proprio possibile? Davvero senza polemica, voglio solo capire. Ho letto un bell’articolo del crpa sulla possibilità di produrre seme di erba medica. In Appennino qualcuno ha provato; questo è un indicatore grave della situazione critica in cui siamo, in particolare se pensiamo che l’erba medica (preferisco erba spagna come la chiamava a volte mia nonna!) è alla base della razione delle vacche. Buona giornata.

    (Sincero Bresciani)

    • Firma - Sincero Bresciani