Come state? Come stiamo? E perché poi ancora parlare di “noi donne”?
Come stanno le donne in Appennino?
Stanno. Da sempre, stanno.
Trovo l’occasione per scrivere questo articolo dalle rinnovate nomine alle alte cariche del Consiglio del Parco, dove – con malcelata ovvietà – scopro che la presenza femminile è assolutamente esclusa, e non mi addentro ad analizzare il perché di alcuni – soliti – nomi, c’è chi può farlo sicuramente meglio di me, se vorrà (io lo vorrei).
Parto invece da una condizione che mi riguarda molto da vicino perché donna e perché risiedo in Appennino e trovo il modo di aprire una riflessione che è diventata davvero necessaria.
Siamo in Europa, nel 2015 e siamo… arretrati – profondamente arretrati: la parte femminile in Montagna – tranne qualche rarità – è relegata a baluardo della famiglia, consacrata da una prole – di solito – plurima che “ruolizza” ancor meglio la femminilità.
Poche le condizioni per far emergere il proprio talento, impossibili le opportunità politiche in cui ciò che si ascolta è davvero la persona: chi viene ingaggiata, di solito, serve proprio per fare presenza femminile e per essere ancor meglio “manipolata” se eletta. Se qualcuna ha avuto più voce in capitolo è invitata a raccontare le battaglie estenuanti a cui ha dovuto far fronte, così da diffondere una esperienza che a chi seguirà potrà forse giovare, perché se è arrivata ad avere un ruolo importante deve esserci una sola ragione: è stata magnifica, ha compiuto azioni magnifiche per realizzare se stessa.
A guardarci da vicino sembra proprio che non sia passata nessuna Storia, almeno qui, che puoi solo essere accanto ad un uomo, e così:
- se sei sola devi eludere la tua condizione da zitella, cercando abilmente di non ricevere compatimento;
- se sei separata, sei chiaramente “una poco di buono”;
- se sei separata, sola e con prole – affari tuoi, ben ti sta, te la sei cercata - inseguendo /tra trampoli di immorale giudizio/ un “luogo” in grado di farti incontrare un pugno di persone, per non sentirsi sempre “scansate” , sufficientemente sopportate, con bambini naturalmente diversi da quelli degli altri, delle famiglie normali – intendo;
- se sei con un uomo, il ridondante appellativo “mio marito…” troneggia ogni cinque minuti nei discorsi della gente normale (va da sé che la gente comune - come diceva Primo Levi - è ben più pericolosa di quel che si crede), così come la tutela e la garanzia di averne uno ti affrancano da ogni altra inumana condizione che poi saresti costretta a subire (vedi sopra).
Ho indagato per molto tempo le ragioni culturali e antropologiche che stanno alla base di idee tanto consolidate da finire relegate nell’inconscietà, negli atteggiamenti diffusi.
Sollevo – credo – la più importante, per le altre ci vorrebbero settimane.
Da sempre la donna è portatrice di una carica “sessuale” che la società - non solo maschile - “mal tollera”, perché sovvertitrice di un ordine costituito che è quello dei padri (non delle madri), della legge, della norma, della regola – che tale deve restare. La donna portatrice di tanta ricchezza può solo essere “esorcizzata” in una dimensione intimistica e famigliare in cui farle credere che a lei e ai suoi figli penserà l’uomo: una dimensione di assoluto controllo e dominio.
In termini macroscopici questo significa – anche nel post-contemporaneo 2015:
- stipendi più bassi;
- mansioni codificate che non sono date dalla natura ma dalla società (il peso morale di essere madre non corrisponde e non equivale al correlativo paterno – eppure come figlia son certa di poter dire che i miei genitori hanno contribuito in pari misura a fare il bene e il male della mia infanzia!);
- ruoli lavorativi di contorno alle figure maschili;
- ruoli politici inesistenti;
- opportunità artistiche/culturali/sportive irrisorie.
E la riflessione ora si fa seria perché se proprio vogliamo ragionarla tutta, queste società arretrate – come ben sappiamo - sono il terreno fertile di mafie e camorre, in cui un solo ruolo femminile, un solo modo di essere donna, è clichè e segno distintivo di un sistema feudale che non ha nessuna intenzione di cambiare, votato al dominio e alla paura (e il dio Denaro in questo tempo ha segregato nella paura un bel po’ di nefandezze).
Così se contro le altre culture, guardiamo esterrefatti alle vicende di Parigi e non vediamo l’ora di poter postare su Facebook il nostro odio per tanta animalità, non notiamo la trave nel nostro occhio dove vige la legge: “Stai zitta e sii bella, altrimenti? Altrimenti t’ammazzo come un maiale”… e una lunga fila di donne sgozzate, massacrate, pugnalate arrichisce la cronaca dei nostri quotidiani… con un numero di vittime esorbitante.
Ma intanto abbiamo un rinnovato consiglio del Parco, dunque – di che lamentarci: “Evviva le donne, evviva il buon vino!”.
“Queste società arretrate – come ben sappiamo – sono il terreno fertile di mafie e camorre”… parole buttate lì per darsi un tono, forse. Se c’è una parte della provincia infestata dalla mafie è la bassa. La montagna per ora si salva. Così almeno si dice.
(MN)
La mafia è anche solo dare il posto pubblico al nipote. La mafia è una mentalità.
(Natascia Nobili)
Nel linguaggio e nel comportamento della gente di montagna non esiste, a mio avviso, odio o comunque incompatibilità nei confronti delle situazioni familiari anomale, ma difficoltà a capire come sia possibile non farsi una famiglia o disfarne una. Il senso va colto nell’energia positiva che una famiglia sana esprime nella società sia sotto forma di investimento per l’oggi, sia di protezione per il domani. Un’ulteriore spiegazione può anche essere il mantenimento della forza lavoro necessario in tutti i mestieri, che ha pure funzione di autostimolo, nel senso che una buona prospettiva economica basata su molta domanda induce ad investire e genera a sua volta altra buona speranza. Chi scrive, comunque, è uno zitellone di prima qualità, uccel di bosco da tempi biblici e criticato per questo assai. Tuttavia conscio del fatto che se la donna non vuole fare la madre, la moglie, la compagna di una vita l’essere umano è destinato a scomparire o a diventare esemplare protetto del Parco nazionale con buona pace per la specie umana.
(Il fumoso)
Ho letto l’editoriale di Natascia Nobili sul ruolo delle donne nella nostra montagna e ho pensato di inviare un breve commento del tutto personale. Un commento – dirò subito – politicamente scorretto. Già, perché non sono d’accordo su tutto e sul profilo generale dato dal pezzo su questa questione. Ci sta il tema del ruolo e dell’immagine della donna oggi nella nostra società e particolarmente anche in montagna. Ci sta sempre e ci sta tutto. Basta tenere accesa la televisione per arrivare almeno a uno spot o entrare in uno qualsiasi dei nostri locali più giovani il sabato sera. Basta leggere le cronache o stare un po’ davanti ai nostri pronto soccorso. Ma ci sta nuovamente, non come ieri. E proseguire nell’analisi e nelle conclusioni di ieri mi sembra non aiuti la maturazione del nostro presente. Ci sta quindi il tema e molto necessario il parlarne, e il parlarne tanto e ad ogni occasione, perché la donna e il femminile continuano a soffrire di un dolore gratuito, spesso violento, troppo silenzioso, alle volte crudele. La donna e il femminile. Perché a soffrire in chiunque sono la gentilezza, la pazienza dell’ascolto, la cultura della vita, il coraggio di una lacrima e di una nostalgia, la debolezza del corpo e l’incapacità di una prepotenza. La determinazione a seguire la vita e le persone senza oltrepassarle, senza mettere da parte, senza risolverla sbrigativamente per una questione personale sia di potere o di affermazione personale. La donna che esige rispetto e giustizia non mi sembra più la donna che ambisce all’impresa e al potere. Guardiamoci attorno. E’ giusto dubitare della completezza e della piena rappresentatività di ogni organismo che non comprenda uomini e donne, ma ritenere che ancora lì sia il cuore della questione femminile mi sembra un po’ riduttivo e addirittura sviante. Oggi sono donne, anche nella nostra provincia e anche in montagna ad esercitare ruoli e funzioni pubbliche e private di grande responsabilità. Citarle sarebbe sbagliato perché non è rilevante il genere, ma la capacità e il merito che le hanno portate fin lì. La donna che è urgente ascoltare è quella che subisce ancor’oggi prepotenza e violenza. In casa come al lavoro e nelle relazioni sociali. E’ come se l’attenzione vastissima – addirittura normativa – alla donna nella dimensione pubblica, l’avesse nuovamente abbandonata a se stessa in quella privata. Lì dove si deve nuovamente rifugiare. Lì dove ancora è abbandonata, magari perché aggrappata naturalmente alla vita, perché madre o perché figlia. Non mi pare che la discriminazione più grande sia oggi quella verso la donna che vuole fare politica o dirigere un’impresa ma quella, invece, ribaltando la storia, verso la donna che vorrebbe essere semplicemente se stessa, ogni giorno e ovunque. E non sono sicuro, fra l’altro, che il rapporto discriminante sia ancora sempre al riguardo fra donne discriminate e uomini prepotenti. Mi pare invece, ripeto, che in crisi e discriminato sia un atteggiamento di conciliazione, sobrietà, rispetto verso la persona, la vita, il creato e che a subirne le conseguenze siano sia donne che uomini. Dall’altra parte un certo imperante macismo, ben distribuito ormai fra tutti e tutte. Sono sicuro che il maschio sia ancora il primattore della prepotenza fisica e privata che tante donne soffrono indicibilmente. Non sono tanto sicuro invece che lo stesso si possa dire della prepotenza sociale e pubblica, perché a ruoli di genere spesso incrociati. A questo riguardo v’è una più ampia e decisiva questione culturale e di civiltà che comprende ma sovrasta quella di genere. Ridurla a quest’ultima mi pare non solo sbagliato ma controproducente per tutti. E la montagna mi pare al riguardo che sia parte del mondo, come ogni altra parte del mondo. Un’ultima riflessione, che apparirà ancor più eccepibile per la vasta ipocrisia e il “luogocomunismo” che regola i nostri pubblici dibattiti. E’ davvero così sconcertante una visione del mondo spirituale, culturale, biologica e antropologica che mantiene senso e significati propri al genere maschile e femminile purchè secondo un principio irrinunciabile di libertà e responsabilità individuale? Prendendo anche atto di una regolazione ed un’organizzazione sociale che nasce da questa libera visione e non per imposizione normativa ma per la somma delle scelte individuali? A me pare chiaramente di no.
(Giovanni Teneggi)
Ringrazio i commenti e invito Giovanni Teneggi a dialogare intorno al tema della libertà, magari trovando uno spazio di confronto visivo di maggiore definizione sui temi espressi. Come scrivo, la questione è molto complessa, ma è necessario parlarne.
(Natascia Nobili)
Gentilissimo Giovanni, Lei scrive: “E’ giusto dubitare della completezza e della piena rappresentatività di ogni organismo che non comprenda uomini e donne, ma ritenere che ancora lì sia il cuore della questione femminile mi sembra un po’ riduttivo e addirittura sviante“. Giovanelli (presidente del Parco nazionale) risponde in altro articolo: “Le donne non sono tra chi comanda, ma tra dipendenti e collaboratori“. Temo proprio che Natascia abbia centrato appieno il problema.
(Fulminant La Penna)
Signor “Fulminant La Penna”, le parole che Lei mi attribuisce tra virgolette sono Sue non mie. Traducono il Suo pensiero. Il mio è diverso. La prego, se vorrà ancora riportare mie dichiarazioni tra virgolette, di riportarle alla lettera. Grazie.
(Fausto Giovanelli)
Uomo, donna, a mio modesto parere, quando sento parlare di quote rosa, rabbrividisco, sintomo che la mentalità maschilista è ancora molto in voga. Penso, “quote rosa”, il dire più becero, denigrante, ghettizzante che si possa esclamare. Numero di donne per legge, in percentuale:orrido. Parliamo di persone, di ruoli, di capacità, di preparazione, di talenti. Uomini, donne, non esistono, esistono persone che si vogliono impegnare nel sociale, nel lavoro a prescindere se hanno portato il grembiulino rosa o celeste. Ahimè, crescere, quello dobbiamo fare, lentamente, ma provarci, buona vita.
(Corrado)
Complimenti al signor Teneggi per la lucida analisi, per questo elogio della normalità, dello stile di vita, di genere, di responsabilità e di rispetto reciproco. Dalle disquisizioni della signora Nobili sembra di intuire che, per essere una donna moderna, bisogna essere necessariamente in carriera e libera da vincoli di ogni genere e, quando qualcosa non riesce, è sempre responsabilità del genere maschile. Resto dell’idea che una donna possa realizzarsi anche facendo la moglie, la madre e curando la propria famiglia, fermo restando che deve essere libera di impostare la propria vita pensando alla carriera e alla realizzazione delle proprie aspirazioni. Una cosa non esclude necessariamente l’altra.
(Ivano Pioppi)
Mi permetto, in punta di piedi e con rispetto alle vostre consuetudini, ma a sentire le risposte del signor Giovanelli al signor Teneggi mi permetto di sussurrare: ne avete strada da fare per permettere a una donna “comune” di essere espressione di un modo di vivere se non ha un percorso, diciamo, da tesserato. Siamo in un nuovo ciclo e la speranza, senza citare Papa Francesco; il saper leggere il futuro “est donna”, senza quote rosa.
(Antonio Curcio)
Altro argomento molto interessante: la normalità. Sarebbe importante parlarne, cos’è, cosa vuol dire? Credo ci si realizzi come persone, indipendentemente dal genere, se la società lo permette. La mia provocazione va molto al di là del concetto di “carriera”, ma sarei felice, Ivano Pioppi, di parlarne anche di persona. Grazie del confronto.
(Natascia Nobili)
L’essere “relegata a baluardo della famiglia” mi sembrerebbe, per la donna, motivo di vanto e fierezza, e non già una ragione per sentirsi umiliata, anche pensando a quanti stanno oggi riscoprendo e rivalutando il valore sociale della famiglia (dopo averlo a lungo sminuito o ignorato). Più in generale, sull’odierno ruolo della donna e sulle difficoltà che essa può incontrare o meno nel mondo del lavoro, o in altri campi, le opinioni che si ascoltano sono le più diverse e disparate, e financo opposte, e ogni tesi può avere le proprie argomentazioni, ma non possono esservi francamente dubbi sul fatto che da qualche decennio a questa parte il ruolo dell’uomo, quale capofamiglia, sia stato messo in persistente discussione e fortemente contestato, e da allora quel ruolo sia profondamente cambiato, così come i rapporti interni alla famiglia. Posso naturalmente sbagliarmi, ma penso che detta trasformazione sia stata una delle principali cause della crisi in cui versa oggigiorno la famiglia, e di riflesso la società, anche perché quando si “sovverte un ordine costituito”, prendendo a prestito un concetto dell’articolo, come era il nostro modello famigliare, occorrerebbe sapere in quale modo sostituirlo, in maniera altrettanto solida ed efficace, pena il rischio di lasciare un “vuoto” che in una comunità può aprire la strada a grande disorientamento e a tante incertezze.
(P.B.)
Mettiamo anche, “P.B.”, che la crisi in cui versiamo sia dovuta alla messa in discussione del capofamiglia, si stanno valutando le discussioni? Si ascolta che cosa non funziona? Si accetta? Grazie.
(Natascia Nobili)
Ripeto volentieri anche per il signor Curcio: le parole che il signor “Fulminant La Penna” mi ha attribuito qui sopra non sono mie. Non le riporto di nuovo. Quelle parole, a partire dal verbo “comandare”, riflettono un’idea da ventennio della pubblica amministrazione, dei rapporti di lavoro e dell’organizzazione di qualunque team efficiente. Non hanno nulla a che fare col modus operandi del Parco e ancor meno col mio pensiero. La mia risposta, data in altra sede, sulla critica alla composizione tutta maschile del consiglio del Parco, comincia con le non equivoche parole “sono d’accordo”. Lo ribadisco.
(Fausto Giovanelli)
“Si stanno valutando le discussioni? Si ascolta che cosa non funziona? Si accetta?”, sono le domande che si pone l’Autrice nel suo commento,e che mi sembrano coerenti con l’articolo, ma alle quali viene da rispondere che è da un po’ di tempo, ormai, che si discute e si parla di tutto e in ogni dove, con risultati che non mi sembrano entusiasmanti sul piano sociale. In questi decenni ci siamo nutriti e anche inebriati di bei discorsi e tante parole, abbiamo forse messo in secondo piano i comportamenti, anche quelli più semplici e quotidiani, che forse varrebbe ora la pena di recuperare, quanto ad importanza, perché è soltanto dai comportamenti che si può capire se una società ha valori e modelli stabili in cui intende riconoscersi e che vanno a costituire la sua “normalità”, come succedeva un tempo. Gli stili di vita possono ovviamente mutare, per un insieme di ragioni, ma principi e valori di riferimento possono nondimeno restare tali, specie se hanno dato buoni frutti, e andrebbe comunque ponderato molto attentamente ogni cambiamento dei “capisaldi” etici e valoriali, per non essere poi costretti a fare tardive retromarce, ovvero “chiudere la stalla quando i buoi sono scappati”, come mi pare stia accadendo sul fronte educativo, dove si auspica un ritorno al “saper dir di no” a giovani e ragazzi, quando necessita, dopo una non breve stagione nella quale è prevalso invece il concetto del “vietato vietare”. Mi scuserà l’Autrice se mi sono dilungato un po’ troppo, e semmai ripetuto, ma l’argomento è di quelli “tosti”, e anche controversi.
(P.B.)