Ieri
“Sarete ben stati fortunati! Le case nuove col bagno”. Tante volte l’ho sentita questa frase, pronunciata da chi era stato risparmiato dalla furia devastante del sottosuolo, che dopo la prima spallata inflitta alcuni mesi prima, la seconda rase al suolo ogni abitazione. Se tale distruzione può essere ritenuta una fortuna, ebbene, non auguro a nessuno di essere baciati in tal modo dalla dea bendata. La casa che ti ha visto nascere, è la tua seconda culla; il paese, un nonno che racconta e tramanda storie, altrimenti destinate alla dimenticanza. Il ritornarvi periodicamente e aggirarsi in silenzio tra le rovine, non è altro che un pellegrinaggio, ogni reliquia custodita gelosamente sotto le pietre dei focolari distrutti.
Il nuovo borghetto, tirato su nel giro di pochi mesi, pur con le comodità mai godute in precedenza, aveva bruscamente interrotto l’intimità dei nuclei familiari, fusi in un’unica entità, gli usci sempre aperti dai quali si poteva entrare senza neppure bussare e chiedere permesso, minando in seguito quella socialità tipica delle piccole comunità. Pure le sette stalle furono ricostruite, leggermente discoste dalle case, tutte in fila e con una fetta d’orto digradante verso un fossato, ora tutte vuote se non qualche gallina razzolante. L’emigrazione delle giovani generazioni, ha fatto sì che un buon numero di queste abitazioni siano state cedute ad altri, alcune divenute le case estive, i terreni sconvolti dalla slavina abbandonati.
Ma per tutti il luogo rappresenta ancora “il ritorno”, quasi il rincasare verso sera, un rifugio ove spogliarsi delle fatiche della giornata.
Oggi
Una biscia lunga e nera attraversa d’improvviso il sentiero battuto, mimetizzandosi con fruscio tra la sterpaglia che ricopre il cumulo di macerie. Colta di sorpresa, a due passi di distanza mi immobilizzo, temendo vederne sbucare altre, forse pure qualche vipera che, a detta di molti, hanno nidificato tra gli anfratti delle muraglie, ma l’inatteso ospite che mi ha dato il benvenuto, forse si stava concedendo, al pari me, soltanto una passeggiata solitaria. Riprendo il passo pestando con forza sul terreno per farmi eventualmente annunciare, essendo risaputo che questi temibili rettili, sono geneticamente affetti da sordità, e la vista dell’uomo non solo li sorprende, ma incute loro il medesimo terrore suscitato. Pur essendo piena estate, il percorso costellato di pozzanghere, chiaro indizio che dal sottosuolo una ribellione nascosta ancora cerca sfogo verso l’esterno.
Poche sono ormai le tracce di ciò che è andato distrutto, il tutto amalgamato in una montagnola, sulla quale edera, ortiche e sanguinelle, si contendono gli spazi. Procedo con circospezione, soffermandomi presso i cumuli di pietre di ogni singola casa, come in attesa di veder sbucare da un uscio aperto un volto amico e sorridente, il familiare odore della pestata per la minestra di pasta e fagioli, pane appena sfornato. Presso la mia casa, scosto con un piede le sterpaglie con l’intento di scoprire una pietra, almeno una, squadrata dalle mani di mio padre, abile cavapietre, ma i solchi dello scalpello sono interamente ricoperti di muschio. Che altro potrei mai trovare tra quelle macerie da poter trafugare e conservare, se non una pietra?
Erano vecchie sì, le case, muri contorti e scale traballanti, i telai delle finestre privi di vetri, soltanto “l’impanada”, consistente in fogli di carta oleata incollata con intruglio di acqua e farina di frumento, strappata via d’estate per far entrare frescura. Alcune, più che vecchie decrepite, le pareti annerite, ma in tutte un grande camino, la catena penzolante sulla fiamma, appesa al gancio “la parlèta”, grande paiolo di rame, dove ogni santo giorno dell’anno, vi sbuffava annoiata la polenta. In autunno, sopra la distesa di braci, scoppiettavano allegre le castagne; sotto la cenere calda, protette dalla buccia, cocevano le patate. Solfe ripetitive? Forse. Ma soltanto per chi non le ha vissute.
E le aie, che dire delle aie, dove ogni mansione veniva svolta sovente in gruppo, ogni anfratto tra porticati e fienili complice dei nostri giochi, i primi, maldestri approcci amorosi durante i raduni al chiaro di luna? Vano cercare l’aia grande, spazio comune denominato pomposamente “la piàza”, la piazza, spazzata con cura in previsione della trebbiatura, pavimentata mediante “l’imbiùdada”, consistente questa in spennellate con sterco di mucca diluito, un ciuffo di foglie di granturco legato alla sommità di un lungo manico di legno, fungente da pennello, le caselle del gioco della settimana disegnate nella polvere. Quanta competizione nel gioco del “bacàn”, baccano, consistente nel mettere in fila e in piedi delle pietre con su la posta, poche monetine, da abbattere poi con la “piastra” da una certa distanza e raccogliere il bottino. In simile gioco si faceva pure “il morto”, fuori gioco colui che veniva messo a terra, e d’acchito mi sovvengono i pianti del Geli, Angelo, preso sovente di mira e fatto fuori dai più esperti ai primi tiri. Per questi suoi pianti, era diventato un po’ lo zimbello del gruppo, sino a che poi scappava in casa, sua madre comparire sull’aia e sbraitare: “Delinquent! Vargougnav!” Delinquenti! Vergognatevi!
Quanto era lontana ancora la luna seppur vicina nelle sere d’agosto, rossa, bassa e piena, che transitava lenta per poi scomparire oltre la cima del Cusna.
Scorgo un luccichio tra la sterpaglia, ma non è altro che un pezzetto di vetro che cattura i raggi del sole, poco discosta “la veste” di vimini di un fiasco, annerita e ormai sfatta, altri fruscii e svolazzi di una coppia di merli, forse disturbata dalla mia presenza.
Torna il silenzio e in esso mi immergo in sintonia con la pace del luogo, quasi avessi varcato la soglia di un luogo sacro, rispettosa di ciò che rappresenta l’intorno.
Sono stata fortunata? Sì, sicuramente sì. Non per la casa nuova, il bagno, le finestre coi vetri e pure con le tende, ma per tutto ciò che quelle rovine, pur tra serpi ed ortiche, ancora rappresentano.
Lì, pur nelle ristrettezze, ho avuto un’infanzia felice, ho imparato a sognare soltanto ciò che mi sarebbe stato in futuro possibile avere, ho avuto in dono amicizie sincere e durature, che neppure il distacco forzato dell’emigrazione, ha scalfito e distrutto. Nessuna forza avversa della natura potrà mai sottrarmi tutto questo.
(Ave Govi)
Altri racconti de "Il Salotto letterario"
IL suo racconto che ho letto con interesse, mi ha commosso perché mi ha fatto rivivere la sua stessa emozione, nel ricordo di una infanzia vissuta nelle stesse condizioni ambientali. Io non sono stato toccato dalla disastrosa calamità del Meruzzo anche se ne ero a conoscenza perché una mia carissima zia viveva a Carniana, Forse perché ero anch’io bambino, ma il ricordo di quella infanzia vissuta senza pretese ma con tanta gioia nel cuore, non ha paragone con quella che attualmente viene considerata “benessere”. Ha ragione signora Ave siamo stati fortunati.
(S.V.)
Bravissima! Leggerla è vero piacere… continui.
(Commento firmato)
Che emozione sentire questi racconti! Ho 50 anni ma certe esperienze (non tutte queste) le ho vissute anche io. La trebbiatrice sull’aia, le chiavi di casa sempre sull’uscio, andare “in vegg” la sera. Il mio paese che d’estate si riempiva di risate di ragazzi e bimbi, anziani e non tutti assieme! Il rispetto della roba degli altri, degli anziani, dell’amicizia, dell’aiuto vicendevole… e via discorrendo. Se il buon Dio mi lascia la memoria mi farà un regalo grandissimo. Comunque complimenti alla narratrice.
(m.1964)
Eppure non c’è niente di nuovo, solo il cielo di settembre, il fiorire dell’erica lo sbocciare del cardo, l’Appennino è ancora verdissimo. Il vecchio mulino ad acqua, con le mole di pietra consumate e i cardini di ruggine, ha quella crepa ormai definitiva nel muro, l’acqua ristagna a monte della paratia sepolta dai rovi e chiusa. Vent’anni, il gioco della giovinezza in quel vecchio mulino sul fiume, dove la corrente non sarebbe mai arrivata, dove le travi rendevano ancora più basso il soffitto saturato di pannocchie di granoturco, carcasse di copertoni ricoperte di tela gialla come poltrone, una distrutta madia, recuperata a consolle di un mangiadischi a batteria, lampade ad olio a buttare sulle pareti, il sentirci immortali… Avevamo vent’anni.
(Giovanni Annigoni)