La nostra redazione porge cari auguri di buona Pasqua a tutti i lettori. Per l'occasione abbiamo chiesto allo storico prof. Giuseppe Giovanelli di poter riprodurre un suo articolo comparso di recente sul periodico "Memoria Ecclesiae", curato dal Centro diocesano di studi storici di Marola e distribuito come allegato al settimanale cattolico "La Libertà": ci pareva tra l'altro particolarmente confacente al periodo della più grande festa cristiana. Giovanelli gentilmente ha acconsentito e lo ringraziamo. Si parla di una bella figura di donna castelnovese, che proporremmo anche di tenere presente per un'intitolazione stradale.
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Il 14 dicembre 1987, prossima ormai a compiere gli 80 anni, moriva al Cenacolo Francescano la madre “Enrica” Rabotti. Da 54 anni al servizio di bambini piccoli, dai neonati ai ragazzetti delle prime classi elementari. Una testimone e protagonista dei primi tempi di quella benefica istituzione voluta dal cappuccino padre Ruggero Dallara che ambiva non di fare grandi cose, ma solo di fare bene quella cosa che al mondo sembra tanto difficile: accogliere i bimbi per qualunque motivo abbandonati dai genitori, o “derelitti” come si diceva allora. E, per lui, farlo bene, significava farlo innanzitutto con competenza umana e professionale, portata però alla massima efficienza dal comandamento cristiano dell’amore.
I bimbi richiedono genitori a tempo totale. Per questo le “signorine” che si erano unite a padre Ruggero per fare da mamme a questi bimbi lo facevano donando la loro intera vita mediante i voti religiosi. Vestite di fatto in borghese, in realtà erano suore di pieno spirito francescano. Religiose ancora alla ricerca della loro identità che verrà con la regola approvata dal vescovo Beniamno Socche nel 1956.
Entrare in un istituto collaudato da decenni e secoli di vita può essere la ricerca di un rifugio. Entrare in un istituto in via di fondazione è un atto di fiducia, di abbandono sereno alla Provvidenza di Dio perché privo di ogni umana sicurezza. Un atto eroico? Era ciò che madre Enrica aveva fatto nel fulgore dei suoi ventisei anni.
Filomena Santippe Ruth
Chi era e da dove veniva madre Enrica? I lavori di restauro di quella che fu la sua casa avita in Castelnovo ne’ Monti hanno consentito di ritrovare il carteggio della mamma e, in mezzo a questo, molte sue lettere. La mamma, Celide Rabotti, era una fedele custode delle memorie di famiglie. Ella «custodiva nel suo cuore» (proprio come la Madre di Gesù) parole, gesti e vicende dei suoi cari e, per meglio riuscirci, custodiva anche ogni minimo documento che li riguardasse, così da accumulare un notevole carteggio che, recuperato in parte, ci permette di dare una risposta sicura alla domanda.
Madre “Enrica” era nata a Vetto, dove suo padre Annibale era segretario comunale, il 19 gennaio 1908. Era la quinta nascita della famiglia, sotto questo aspetto alquanto sfortunata perché già due figli erano morti nella culla.
Altre tre nascite porteranno a otto i figli, ma saranno altri due lutti: Norzia nata nel 1911 e Rovena nata nel 1912. Alla fine, la famiglia si troverà con tre figlie e un figlio: Fortunato, detto Tato, nato nel 1902; Enrica, nata nel 1905; Santippe (la futura madre Enrica) e Teresa, che nascerà nel 1909.
Al battesimo e alla stessa anagrafe civile Santippe ebbe altri due nomi: Filomena (il primo) come la nonna materna deceduta nove anni prima, e, secondo una consuetudine abbastanza diffusa tra le donne dei Rabotti che amavano i nomi delle eroine bibliche, Ruth.
Il primo nome avrà un discreto uso negli anni della infanzia e nei documenti anagrafici, ma presto prevarrà il secondo, abbreviato in Tippe. E, secondo un’altra usanza abbastanza diffusa nelle famiglie bene di Castelnovo che tendeva scherzosamente a rendere al maschile i nomi delle figlie, anche Filomena Santippe Ruth divenne semplicemente, per tutti, il Tippe. In particolare quando, già dalla prima infanzia, mostrò un carattere vivace e indipendente. Non ha che tre anni quando la mamma scrive di lei alla sorella Giacomina:
«La camicia della Santippe l’hai mandata troppo bella, non gliela ho ancora data, voglio che se la guadagni e meriti un po’... è buona ed ha buone qualità, ma ti assicuro che a volte mi fa portare, anzi perdere, [tanta] di quella pazienza... maggiore di quella che hanno i frati dell’universo intero!».
Sono le prime manifestazioni di quel carattere che, almeno in certe circostanze, può essere definito abbastanza peperino, pronto ad “accendersi” come un fiammifero, senza per questo nulla perdere in bontà e generosità.
Tra lutti e gioie
Nel 1910 Annibale viene trasferito, sempre come segretario, presso il comune di Novate Milanese, 3200 abitanti circa, a una manciata di chilometri da Milano. Crescono lavoro e responsabilità, ma con soddisfazione sua e della moglie Celide che si ritrova con i cognati Canovi (Luigi è direttore didattico delle scuole di Affori; ha sposato una sorella di Annibale) e si crea una grossa cerchia di amicizie. Ma è una gioia molto breve. Il primo maggio 1913 Annibale viene ricoverato d’urgenza, con autoambulanza, in un ospedale di Milano. Morirà due giorni dopo, il 3 maggio.
Dopo la morte di quattro figli, quella del marito è un vero e proprio strazio per Celide, che, tuttavia, reagisce con grande energia e forza d’animo assumendosi per i quattro figli superstiti anche la “parte” del padre.
La prima operazione da fare è il ritorno a casa. Il 13 luglio Celide e i bimbi lasciano Novate non per Castelnovo (dove vengono comunque a trascorrere tutta l’estate), ma per Reggio, in via San Zenone 6, per dar modo ai figli di frequentare le scuole, potendo seguire quegli studi post-elementari che nel capoluogo montano erano ancora impossibili. Qui Santippe e Teresa fanno la prima comunione insieme il 19 maggio 1918 e qui frequentano le scuole.
Come studenti, i quattro figli sembrano tutti precoci. Tato finisce le elementari a Reggio a nove anni e a 18 o 19 consegue il diploma di ingegneria a Milano, dove era ritornato a completare gli studi superiori presso i parenti. Enrica è maestra a 17 anni. Ed è lei la prima maestra di Santippe che, per desiderio di seguire la sorella, si fa insegnare a scrivere ben prima dei classici sei anni e, a Natale, offre le primizie dei suoi quaderni alla mamma: «Cara mamma, ti offriamo questi quaderni che mi ha insegnati l’Enrica a scrivere. Son poca cosa, ma aggradiscila. Ti bacio mamma cara, Santipina». Tra una pagina e l’altra le votazioni di questa sua – come appare dall’intestazione sui quaderni – “scuola privata”: «Diligenza e scrittura 10 lode».
L’atmosfera famigliare e scolastica ha un indubbio tono gozzaniano e basterebbero, a giustificarle, i troppi lutti della famiglia. I temi scolastici parlano di mamme morte o ammalate, di poveri infreddoliti, di bimbi che devono trascorrere tristi natali in solitudine. Tuttavia, al di là della facciata, non v’è né decadentismo né crepuscolarismo. È l’apertura al mondo di tre ragazzine che il dolore ha precocemente maturato, presentando loro la bellezza dell’aiuto e del servizio in piena gratuità, secondo il Vangelo, a cui sono costantemente richiamate dall’insegnamento della madre e della zia Giacomina. Da qui il contenuto scherzoso delle lettere di Enrica subito imitato da Santippe e Teresa. È uno spasso leggere le loro lettere alla befana con il racconto eroicomico del dentino da levare e “il Tippe” (quell’articolo “il” comincia presto, ancor prima delle elementari) che sì, va bene la bambola, ma non le spiace nemmeno «uno di quegli aeroplani». Però, a sette anni, il Tippe desidera quello che vuole la befana. Vivace, ma riflessiva, dialogica, ma disponibile a comprendere l’altrui punto di vista. E mostra molta creatività come si evince da questo passaggio di una lettera di Natale (quelle da metter sotto il piatto) scritta verso i nove o dieci anni: «Questa letterina l’ho scritta io, proprio io. La maestra ce ne ha dettata una; quella, però, l’ha ricopiata la Teresa. Gradiscila, sebbene tu sappia che non l’ha scritta lei».
La casa è frequentata dal maestro Luigi Valcavi, il celebre maestro-compositore di Valcava di Carpineti, dal quale certamente Tippe prende lezioni di pianoforte e attinge l’amore per il canto che poi le tornerà tanto utile nel suo lungo impegno di educatrice. C’è pure, in casa un’abbondante biblioteca con opere dei classici antichi e moderni nonché dei più popolari scrittori italiani ed europei della seconda metà dell’800. Da Nicolò Tommaseo a Giulio Verne. Diverse volte Tippe mostra di conoscere tutta la biblioteca e di aver letto parecchie opere.
Dal carteggio non emerge se e quale scuola post elementare abbia frequentato. Pare anzi che non abbia frequentato altra scuola oltre la quinta elementare, come risulta da un certificato di studio da lei richiesto alla scuola nel 1942. Ma, dallo scrivere, mostra una cultura per nulla inferiore a quella delle sorelle Enrica e Teresa, diplomate maestre. In effetti, così pare da diverse lettere, Santippe studiava anche lei le materie che le sorelle studiavano durante la frequenza alle scuole superiori. E, dalla vivacità con cui le ricorda, pare proprio che le abbia studiate molto bene. Una sua frase di pochi anni dopo («quelle stupidissime cose di scuola» da «stipare» nel cervello) dice con ogni probabilità il suo disagio di ragazza molto creativa verso una scuola mnemonicistica.
“Attacchina”, la confidente saggia
Nel 1920 Tato è già alle prese con le prime esperienze di lavoro in quel di Domodossola. Nel 1922 Enrica ha il diploma di maestra e inizia ad insegnare a Reggio, tenendosi accanto l’ancor piccola Teresa. Il 1922 porta anche il primo di tre gravi lutti che colpiscono la famiglia. Il 12 marzo di quell’anno, infatti, muore il nonno materno Ignazio dal quale i ragazzi avevano attinto una religiosità soda e profonda. Il 3 febbraio 1924 muore la zia materma Giacomina, forse la zia più affezionata alle tre ragazze. La perdita è molto sentita perché anche Giacomina ha fatto da mamma alle bimbe, sostituendo la sorella a Vetto, a Novate e a Reggio quando Celide doveva assentarsi per assistere i parenti o per amministrare i poderi e i beni di Castelnovo (i feudi, diranno scherzosamente i figli). E particolare era l’affezione alla zia Giacomina di Tippe che, in questi anni, è a Castelnovo, a sostegno della mamma.
Il lutto per Giacomina è ancora vivo quando, improvvisa, il 22 ottobre 1926, giunge la morte di Enrica. È una nube oscura sui diciotto anni di Santippe che, ora sente sulle sue spalle il dovere di assistere la madre e di assumere, verso Teresa, il ruolo già svolto da Enrica nei suoi confronti.
È lei che scrive a Tato e Teresa per tenerli informati delle vicende famigliari. Lei che aiuta la mamma in occasione di alcune prolungate malattie. E, nel frattempo, partecipa sempre più intensamente alla vita della parrocchia di Castelnovo ne’ Monti dove ha l’incarico di segretaria del Circolo della Gioventù femminile di Azione cattolica appena rifondato.
Nel tempo libero si dedica a lavori di cucina, ricamo, cucito, rilegatura, seguendo una passione radicata, anche questa, nelle donne dei Rabotti. Lavori, però, che le sembrano «le solite cose delle zitelline tipo». Nel 1931 si abbona alla rivista “Lavori femminili”. Tra quelle pagine la colpisce la rubrica di una redattrice, Gina Moro, che si firma “Attacchina”, un termine che nell’arte della seta indicava colei che attaccava il capo del filo del bozzolo sull’aspo.
Attacchina presenta diversi lavori femminili che il Tippe ama eseguire e, magari, regalare alle figlie delle amiche. Cose davvero eleganti, dirà Itala Manfredi, una di queste. Ma Attacchina parla anche di solidarietà, di amore per il prossimo, di iniziative di aiuto concreto. E questo colpisce il Tippe che, nel 1933, le scrive:
«Cara Attacchina, son due anni ormai che sono abbonata a Lavori femminili e ho sempre letto con piacere le tue... affissioni [...]. Vorrei chiederti spiegazioni su la richiesta di aiuto di giovani letta nel numero di giugno di Lavori femminili. Intendevi solo propaganda al periodico? Sii così gentile da rispondermi ed io ti darò le spiegazioni di questa mia domanda. Sento che ormai devo pur fare qualcosa per guadagnarmi il Paradiso, ché ormai gli anni passano e si ammucchiano, ahimé, e prego sempre il Signore che mi indichi la via da seguire, ma distaccarmi del tutto da la Mamma, già molto provata, non ho coraggio. Qui dove abito non trovo occasioni da fare il bene, cominciando dalla mia casa; con mamma e sorella cosa vuoi che abbia da fare? Io credo, cara Attacchina, che comprenderai il mio stato d’animo e vorrai essere così buona da scusarmi. Con affetto Filom Santippe»
“Attacchina” è membro della Casa Famiglia Sacro Cuore di Sampierdarena – fondata dalla professoressa Rina (Caterina) Bottaro con l’aiuto di alcune buone signorine ricordate come “suore laiche” – che accoglie bimbe e ragazzine «povere e abbandonate» alle quali insegna taglio e cucito. La sua risposta in data 19 ottobre 1933:
«...tu dunque hai pregato ed io pure; ora stiamo a vedere come andranno le cose. Basta che le lasciamo condurre da Divin Capitano, non possiamo temere di nulla, vero?» «...a complemento di queste informazioni vieni in persona e vedrai tutto l’andamento della casa famiglia del S. Cuore».
La risposta di Santippe, in tanta parte ripetitiva della prima lettera, dice quanto le stia a cuore l’obiettivo che si sta prefissando e quale sofferenza le dia la solitudine nella quale lascerebbe la mamma facendosi suora in un ordine tradizionale:
«Cara Attacchina, prima di tutto grazie alla tua cortese risposta e grazie anche al tuo discernimento, o naso che dir si voglia, che mi facilita la risposta mia. Ora ti spiegherò e con il tuo consiglio mi verrai in aiuto, nevvero? Qui dove abito non trovo occasioni di far del bene e in casa con Mamma e sorella come mai potrò guadagnarmi un po’ di Paradiso? Farmi suora? Non ho cuore di distaccarmi del tutto dalla Mamma, già molto provata e darle così un nuovo dolore. Ma ora trovo che il tempo passa e che bisogna che mi muova e, come dici tu, chi sa che Attacchina non mi abbia additato la via?».
Altre due lettere ad Attacchina dicono il desiderio di Santippe di uscire da una situazione che, pur giudicata dalle amiche di attivo impegno, lei giudica invece di stallo:
«Cara Attacchina, avrai pensato male di me per questo lungo silenzio? Credo di no, anzi avrai detto che ponderavo! Infatti è così, ma ora ti dico che sono contenta di venire, se la Signora Direttrice e tu mi accettate; e dovrei farti anche il mio panegrico, ma credo che le persone sia meglio provarle, eh?
La tua cara lettera non mi ha affatto sgomentata (o sgominata) e ora sono ancora qui a risponderti lungamente e spiegarmi meglio che potrò. Come già ti scrissi, è proprio una vita di attività e di bene che cerco e, senza possedere alcuna abilità speciale, credo che potrò rendermi utile lo stesso costì, almeno lo spero. Ad ogni modo trovo giusto e naturale che la Signora Direttrice voglia una retta nei mesi di prova e tu vorrai accennarmi quanto è. Dimmi anche se hai pensato tu a presentarle la mia richiesta, come credo, e se devo ringraziarla direttamente.
Scrivimi ancora una lunga lettera, cara Attacchina, sorella mia, con tante cose belle! Quando ti potrò vedere? Mi vorrai bene anche se son brutta? Ho piacere poi anche perché siamo su per giù d’una età. Io posseggo venticinque anni e, come vedi, non è più un’età da ghiribizzi. Del resto posso dire (modestia a parte) di non averne mai avuti e di essere una buona ragazza (magari un po’ ochina) come forse tu avrai indovinato, poiché vedo che hai facoltà divinatorie.
Vorrei essermi spiegata bene, ma, in ogni caso, se per fisico o morale non andassi bene, mi rispedirai ai miei monti con grande velocità! Io non chiedo al Signore che di fare la sua volontà e di servirlo solo un poco per dimostrargli il mio amore. Aiutami anche tu e, perciò, tu con le tue preghiere e te ne sarò sempre grata.
Dimmi, se lo sai, se il treno che passa da Spezia prosegue per Sampierdarena e se per caso non sapessi qualche altra combinazione di viaggio».
«Carissima, ecco che ancora, come mi chiedi, ti scrivo, però sarebbe meglio che prendessi il mio coraggio e me ne venissi così, non è vero? Oh se qualcuno mi dicesse va! O almeno se tu mi dicessi vieni! Dalla mia prima richiesta è già passato tanto tempo! Certo che per lettera ci si può conoscere relativamente, però io trovo che tante cose si possono scrivere e dire no, forse per soggezione o chi sà altro; e proprio attraverso lettere che ti voglio tanto bene.
Bene, ora che ho tessuto le lodi delle lettere, parlerò un po’ del Circolo Gioventù Femminile. Esso esisteva già, forse più a parole che a fatti, ma solamente in settembre, dopo un ciclo di conferenze e propaganda delle dirigenti di Reggio, è stato ufficialmente istituito; ed a me è stato affidato il segretariato. Intanto ho accettato: attendevo la tua risposta e il tuo silenzio mi faceva pensar male... Beata te che sei stata a Roma! Provo un po’ d’invidia! Meno male che per trovare il Signore non occorre fare viaggi o fatiche! Però dev’essere lo stesso una gioia visitare luoghi così santi».
L’impossibile totale distacco dalla mamma, a quanto pare, rende impossibile l’adesione all’Istituto religioso cui apparteneva Attacchina. Anche perché questa “casa-famiglia” non aveva sicure prospettive di futuro, tanto che la stessa Bottaro dovette affidarla al “Cenacolo Domenicano” di Sestri, fondato da Domenica Rigon .
Nel frattempo Santippe ha modo di conoscere e frequentare il mondo che ruota intorno al convento francescano di via Ferrari Bonini e, in particolare, al Cenacolo Francescano fondato da padre Ruggero Dallara.
L’incontro, nell’autunno 1933 è quasi un colpo di fulmine. Santippe si innamora (non pare si possa usare un verbo più adatto) dell’“Ospizio Materno” gestito dal Cenacolo Francescano. Il 21 novembre 1933 ne parla con padre Ruggero Dallara e ne è conquistata: «[...] Quasi quasi gli ho promesso di diventare sua ospite anch’io. Certo che qui mi trovo bene», scrive, promettendo di parlarne a voce in famiglia.
L’attirano i bimbi piccoli – dai neonati ai sette/otto anni – accolti nell’Ospizio e la possibilità di fare loro tanto bene; ma, ancor più, è attratta dalla possibilità di amare in essi il Signore mediante il dono completo della sua vita. Oltre a padre Ruggero, la convincono l’esempio umile e attivo delle due prime collaboratrici del padre, Maria Boretti ed Ebe Olivieri.
Se Attacchina le aveva dato il coraggio di una scelta decisa prima che gli anni andassero troppo avanti, Padre Ruggero la introduce in quel cammino di conversione (dovremmo chiamarla, con Thomas Merton, metànoia) di cui il francescanesimo si fa guida sicura ed esperta.
Per mamma, sorella e fratello il distacco è una sorpresa, forse perchè tanta parte del suo dramma interiore era loro sfuggito, presi più che altro dalle manifestazioni esteriori della sua inquietudine, dalla sua manifesta tendenza a rifiutare scelte convenzionali dettate in gran parte dalla famiglia ritenuta, in quegli anni, la prima del paese.
«Ocarone», già l’aveva definita il fratello Tato, a quanto pare, per l’incapacità di cogliere le occasioni di collocarsi nel mondo, lei che per famiglia, simpatia, vivacità, eleganza autentica, era un “ottimo partito” per tanti ragazzi di famiglia bene. Tra le sue carte c’è ancora una cartolina illustrata rappresentante un giovanotto che fa una serenata con la chitarra a una signorina piangente. Nel retro questo breve eloquente testo: «Con nostalgica tenerezza, Armando F.». Non mancava, dunque, chi le faceva la corte.
Ed è proprio Tato a ritenere la scelta del Tippe – la sorella prediletta, generosa, buona, servizievole, che manteneva i contatti con lui giramondo – una infatuazione, uno “scaravolto del cervello”, un colpo di testa dal quale la ragazza zuccona si sarebbe presto ravveduta. Da qui il suo lasciarla fare («capirà!»). Ed è lui stesso che, con questa speranza, l’accompagna al Cenacolo.
Ma arriva la primavera del 1934 e la scelta di vita francescana del Tippe si fa sempre più decisa e più radicata. Tato la chiama «ocarone francescano». Lei – che non ama fare le cose a mezzo e lo dice espressamente – gli scrive per dirgli le sue buone ragioni e la risposta del fratello appare per certi versi sorprendente, pur mantenendo ancora alcune riserve:
«Cara Tippe, hai fatto bene a scrivermi, fa come vuoi però va a trovare la mamma. Mi ha scritto in questi giorni, non dice niente, però si capisce che la tua decisione è quella che l’addolora di più. Se ti piace star lì, cerca di conciliare le cose in modo di andare a casa ogni tanto per qualche mese. Sai bene che casa è a Castelnovo, la mamma poveretta è troppo sola; i nostri parenti coinquilini non le fanno nessuna compagnia, anzi al contrario. Scrivimi, addio, io sto bene e le mie gambe sono perfettamente a posto. Tanti baci, Tato».
Tippe sa bene di dare un dolore alla mamma e, nello stesso tempo, di limitare la libertà della sorella Teresa cui tocca, ora, stare accanto alla mamma per quell’aiuto che da una decina di anni le ha sempre dato lei. «Se qualche cosa mi ha fatto soffrire – ricorderà nel 1940 – è stato proprio perché volevo troppo bene a voi». Ma è proprio la mamma la prima a essere vicina alla figlia incompresa con un gesto che, pur nel dolore, dice condivisione. Mentre Teresa, immusonita, non le scrive e Tato da Varsavia va rimuginando con insistenza: «Ma cusa gal in dal servell cla ragaseta...», Celide si preoccupa di inviarle un bel sacco di frumento per i bimbi del Cenacolo.
Arriva l’estate e Tippe segue i bambini nella colonia “San Francesco” fondata da padre Ruggero a Bondano di Marina di Massa, utilizzando una villetta, dono dei conti Ceccopieri, posta accanto a pineta e spiaggia. È la prima esperienza di un lavoro che in tanta parte, per oltre una decina d’anni, graverà sulle sue spalle, confidando sulla pesantezza del quale Tato spera sempre in un ripensamento: «L’aria marina non ha mica raddrizzato il cervello all’ocarone di Reggio?» chiede, quasi con sorpresa, alla mamma.
È Tippe che, tornata dalla colonia, il 29 settembre (data fatidica per i castelnovini, data della grande secolare fiera di san Michele e di riunioni famigliari) risponde ribadendo, con tutta semplicità, di essere felice e contenta, più del previsto:
«La Teresa non mi scrive? Me infelice! Vedete, si può esser infelici anche nella felicità? È un controsenso ed anche per me una bugia, poiché, ve l’ho già detto e ora lo ripeto (fra parentesi, credo che vi farò molte ripetizioni, d’ogni sorta, di parole, di errori e di concetto; meglio, così faccio vedere che sono di carattere) sono felice e contenta. Per quanto un pochino l’immaginassi... era un pochino! Del tanto è dolce il Signore... provare per credere.
Non ridete di me, vi prego; e il vostro bene, però, ve lo chiedo ancora, me ne date? Quando venite a trovarmi? Ho bell’e visto che Tato verrà così in avanti, più avanti da venire per Natale solo.
Il sacco è arrivato. Le signorine vi ricordano e salutano. Per San Francesco i bambini forse reciteranno per festeggiare il decimo anniversario della casa. Venite a vedere le facce di Ferruccio? E tutte le altre faccine? Sto ritornando bianca e voi altre v’hanno trovato bene?
Grazie mille del sacco di grano per gli uccellini. Ogni tanto saltano su a dire, quando pregano, "diciamo un’Ave Maria per la sua mamma".
E anch’io dico un’Ave Maria per la mia mamma e la mia sorella e il fratello. Tippe».
Il Cenacolo non ha ancora una regola definita. Le sorelle sono suore alla buona. Vestono come semplici donne di casa. Tippe dirà questo con un termine del suo linguaggio creativo: suore pataiole.
I “nipotini” della Cèlide
D’ora in poi i sacchi della Celide per i bimbi del Cenacolo cominceranno a farsi sempre più frequenti. Si riempiranno di mele, pere e fagioli in estate; di castagne e noci in autunno; e quando le stagioni non avranno frutti, dalle mani della Celide partiranno vaglia postali e assegni. La ricchezza della famiglia Rabotti comicia a prendere una direzione precisa e, pochi anni dopo, come vedremo, crescendo la spinta, convergerà tutta verso il Cenacolo Francescano.
Anche Celide, dunque, silenziosamente, ma non misteriosamente, comincia a mettersi sulle orme di Maria Boretti e di Ebe Olivieri, delle quali diventa presto amica pur nel segno della discrezione. Tippe le parla spesso dei singoli bambini ed è un vero e proprio percorso di ravvicinamento perché sa che la mamma quei bimbi, dopo averli visti, li sogna anche di notte e l’aiutano, ripensando ai suoi quattro piccoli morti ancora in culla, a ritrovare serenità interiore e speranza.
Anche Teresa cede e, su questo, è ben presto tutt’una con la mamma.
Bisogna però fare attenzione al linguaggio di Tippe: è il linguaggio giocoso e scherzoso del piccolo Tippe-Giamburrasca che, nella scelta francescana, sembra aver ritrovata l’innocenza della sua infanzia:
«[...] E ora che cosa di nuovo potrei dirvi? Che mi piacerebbe avervi vicine è cosa vecchia, che vi voglio bene è stravecchia e che non vi voglio bene è... nuova!? [....] in fondo vi voglio ancora bene e più di prima e allora le mie dispute si risolvono bene. Ci avete capito nel mio ragionamento? Adesso lo rileggo per vedere se ci capisco anch’io. Portate pazienza e scrivetemi delle cose belle. Le mie cose belle ora le tengo tutte per me, ve le dirò poi più avanti quando avverranno gli... straripamenti. I miei bambini mi fanno fare delle arrabbiature tremende. Povera me!...
La Rosa è andata via e tanti altri campioni del genere ne sono arrivati. Ci volete bene ancora? Celide, li hai in mente quando sei a letto? Che fortunata nonnina di tanti e siffatti nipotini».
Questa della “nonna” ha tutte le parvenze, abbastanza frequenti, delle enfasi pedagogiche e addirittura agiografiche. Non è questo il caso. Per Tippe i bimbi del Cenacolo sono suoi figli di adozione, non legale, ma fattuale. Dunque, sua mamma ne è la nonna e la sorella ne è la zia. Dirà nella lettera del 27 luglio 1938: «E voi, quando tornerete in mezzo ai figli e nipoti adottivi? Per quanto diciate o non vogliate, sono proprio anche vostri se sono miei, e se mi volete ancora un po’ di bene!».
Celide e Teresa non solo visitano spesso il Cenacolo, ma si fanno attive ricercatrici di aiuti fra le amiche per confezionare abiti e biancheria, raccogliere sacchi di frumento patate e fagioli che inviano regolarmente a Reggio. «Egregia Signora – scrive col solito tono scherzoso alla mamma il 18 settembre 1935 – questa mia circolare per farle noto che il pregiatissimo sacco di frumento è arrivato a destinazione e per dirle che quanto prima si tramuterà in farina, poi in pane, poi in vita per i piccolini che lei sa; e come succeda tutto ciò solo Dio lo sa e lo sa pure la carità. Dio gl’armirta in Paradis».
«Sono arrivati i sacchi. Grazie mille, mille grazie – scrive ancora, ad esempio, l’8 ottobre 1938 – per ogni fagiolo e ogni patata». E sono ritornelli che si ripetono di stagione in stagione, di anno in anno.
Sirocchia Domitilla, sirocchia Enrica
Sedate le bufere famigliari, la vita di Tippe prende a viaggiare sempre più serena, tutta presa dall’assistenza ai bimbi a Reggio e, nell’estate, a Bondano, presso la Colonia San Francesco, insieme a Ebe Olivieri. Ospiti una trentina di bimbi “reietti”, come dice una cronaca del tempo del giornale reggiano "Il solco fascista" (27 luglio 1938). Tanto impegno non impedisce a Tippe – abbronzata d’estate, “bianca” d’inverno per il suo ritorno alle nebbie reggiane – di scrivere anche più di una volta al mese alla mamma e alla sorella. Anche la vicinanza materiale si fa abbastanza intensa perché la famiglia Rabotti mantiene una casa a Reggio e, d’estate, va al mare a Marina di Massa, così che i contatti sono abbastanza frequenti. Tippe può conciliare la sua scelta con i doveri di figlia.
Il 14 agosto 1935, nelle mani di padre Ruggero, emette la professione religiosa nel Terz’ordine Francescano. Le Piccole Figlie di San Francesco d’Assisi – così le ha chiamate il fondatore – non hanno ancora una regola, ma stando “rodandosi” nell’esercizio della carità verso i più piccoli alla ricerca di una propria fisionomia canonica alla quale pensano, ma con estrema apertura e disponibilità a quello che cercano di capire come “disegno della Provvidenza di Dio”.
Con questi primi voti, anche Tippe cerca la sua identità di religiosa, per quanto ancora lontana dalle consuetudini degli ordini religiosi femminili tradizionali. Formalmente sono viste come signorine, ma loro si considerano “sorelle”. Molto terra-terra, come suo solito, Tippe, nel continuo e paziente dialogo con mamma e sorella si chiama “suora”, e si firmerà, con loro “suor sorella, suor figlia”, pur continuando spesso a firmarsi “il Tippe” ogni qualvolta sarà necessario riaffermare, sempre coi suoi modi scherzosi, di essere la figlia e la sorella di sempre.
E, proprio secondo le consuetudini religiose di allora, la scelta della vita religiosa viene accompagnata dal cambio del nome. Come dire: “morta” a questo mondo. Anche Tippe, dunque, è alla ricerca di un nuovo nome. Le piacerebbe chiamarsi Francesca, per sottolineare la sua appartenenza alla schiera dei seguaci del santo di Assisi. E, infatti, un paio di volte usa proprio questo nome.
Il 18 ottobre 1934 ne discute con la mamma scherzando suoi tre nomi di battesimo:
««Carissime sorelle della Filomena, che crede di essere ed è veramente Filomena Filomena. Oppure anche quest’altra: una Santippe Santippe. Mi manca di diventare una Ruth Ruth e poi avrò fatto fede alla mia fede di nascita. Speriamo che come sono riuscita a ripersonificare le prime due, così riesca anche nella terza... [...] La conoscete la Teresa? Una cara signorina che abita sui monti, sorella d’un’altra che abita fra le nubi e che si confonde ogni giorno più pensando a tutte le piogge e tempeste e nuvolaglie che lasciò così largamente cadere sulle montagne sue care. Bé, perdonatemi e non pensate più ai cattivi esempi e fate a modo ed io guarderò per conto mio di non esser più nuvola lagrimosa e bigia, ma... nuvoletta... rosa (naturalmente qui le rotelline della memoria girano su una goccia o nuvoletta sitibonda a un fior gridò...).
La ricerca di un nome pare sua personale perchè sia Maria Boretti che Ebe Olivieri continuano a mantenere il loro nome. Nel 1935 comincia a firmarsi Domitilla, il nome di una martire romana, parente dell’imperatore Domiziano, deportata nell’isola di Ventotene per la sua testimonianza di fede in Gesù.
Dalle lettere non appare direttamente la motivazione della scelta. Essa emerge, però, da un ritaglio di giornale (parrebbe il "Corriere della Sera") del 20 novembre 1935, inviato alla mamma, contenente un racconto di Alfredo Panzini dal titolo: Domitilla serva di Dio.
«Serva del Signore»: ecco ciò che attira Tippe, oltre ogni umana convenienza o decoro dei quali parlava il racconto. Servire il Signore nelle persone dei piccoli abbandonati: qui il Tippe ritiene di aver finalmente capito la sua vocazione.
Da buona conoscitrice della letteratura francescana, anziché “suora” o “sorella” ama ritornare alla lingua del XIII secolo e dire “sirocchia”. Un modo in più per tenere alto il buon umore delle sue lettere firmandosi “sirocchia Domitilla”.
La scelta non pare avere alcunché di ufficiale e, sicuramente, non è l’assunzione di un nuovo nome, quanto piuttosto l’assunzione di un programma di vita. In effetti, tutti, a Reggio o a Marina di Massa, dove trascorre la maggior parte dell’anno, la conoscono come Santippe. Questo, sì, a padre Ruggero non pare un nome “intonato” allo spirito francescano e, perciò, le affida un nuovo nome: Enrica. È l’agosto il 1939. Padre Ruggero ha terminato la prima stesura della regola e si appresta a sottoporla all’approvazione del vescovo Brettoni.
«...così la vostra figliola e sorella – scrive Tippe a mamma e Teresa il 7 settembre 1939 – diventerà davvero Domitilla sora pataiola! Teniamo ancora il vestito solito e sarà la stessa vita su per giù, ma con più disciplina e preghiera. Quelle che avevano un nome stonato l’hanno cambiato. Il mio, veramente, non stonava alla mia persona, ma mi hanno dato quello di Enrica, sirocchia Enrica, sorella Enrica.
Non credo che la già proprietaria di tal nome reclami pel furto fattole, ma spero che mi aiuterà a dargli lustro. Un bacio dalla Domitilla francescana. Un augurio di paradiso (questo sì che lo gradirai) da Enrica nuova».
La guerra
Sono anni di guerra anche il 1935 e il 1936, quando gli italiani vanno alla conquista dell’Etiopia; ma i combattimenti sono lontani, le informazioni (lo si saprà dopo) fuorvianti. Non c’è alcun timore che gli Abissini vengano a combattere in Italia, ma fa paura l’austerità conseguente alle sanzioni economiche comminate all’Italia dalla Società delle Nazioni.
Diverso, invece, è il caso della guerra che si annuncia fra il 1939 e il 1940. Marina di Massa è molto vicina al porto militare della Spezia. La popolazione teme i bombardamenti e quei curiosi “segni di salvaguardia” che vengono posti sui tetti delle colonie, quel riempirsi di soldati delle colonie più grosse mettono timori e apprensioni.
Tippe – che pure è molto partecipe agli eventi del suo tempo, anche perché suo fratello è abbastanza intrigato col fascismo, che per lui vuol dire lavoro – spera «contro ogni speranza» che la guerra non coinvolga l’Italia. Poi, quando essa esplode, è certa che non coinvolgerà la Colonia di San Francesco. È troppo piccola; non interessa ai militari e quindi c’è da stare sicuri.
Lo fa per rincuorare la mamma. Ci scherza anche su. «Rispondo proprio a tamburo battente. Non per niente siamo in guerra [...] Qui siamo al sicuro, ma i pensionanti hanno paura lo stesso. C’è solo la Domitilla vostra che non teme nulla!». E rilegge, a modo suo, il famoso detto di Mussolini: «Noi tireremo diritto». «Sì. Mussolini ha ragione. Noi tireremo diritti. Fino al Paradiso».
Con questo programma, che vuol dire non tirarsi mai indietro per i suoi bimbi, si prepara ad ogni evenienza bellica. Tanto più che, morta a soli 44 anni sorella Ebe Olivieri (8 febbraio 1939), direttrice della Colonia, responsabilità e lavoro le sono semplicemente raddoppiati.
Ogni sua lettera del 1942 diventa un’assicurazione: «Qui non siamo bombardati!». Ma diventa anche un continuo ringraziamento per i sacchi di frumento e di patate e addirittura un carico di legna che da Casa Rabotti di Castelnovo raggiungono i bimbi del Cenacolo.
Il 25 luglio 1943 porta timori anche a Marina di Massa. Mentre la certezza di essere protetti dal lenzuolo bianco sul tetto comincia un po’ a sfaldarsi, tanto più cresce la certezza che sull’innocenza dei bambini veglierà il Signore. Poi, però, quando i cannoni fanno sentire la loro vicinanza, la prudenza consiglia di trovare un altro rifugio. E sarà l’orfanotrofio “Beppino Giovannacci”, a Mulazzo, all’interno della Lunigiana, sulla via di Pontremoli.
Per la famiglia Rabotti è l’anno più terribile. Fortunato, ritornato a casa nel 1941 per sposarsi, in seguito ad un accordo personale con il ministro Ciano si trova in Albania, prima a Valona, poi a Tirana; prima da solo, poi con la moglie Elia (accento sulla "e", ndr). L’armistizio dell’otto settembre scatena la guerra partigiana contro gli italiani d’Albania. Il 21 ottobre 1943, a Prisca, presso Tirana, Tato viene ucciso dai partigiani.
Sulla famiglia sembra calare il silenzio. Troppo è il dolore. Anche per Tippe perché, nonostante tutto, in Tato vedeva sempre il suo fratellone affezionato e perché le vicende della guerra non le consentono di essere vicino alla mamma. Proprio in quei giorni, infatti la Colonia sta completando lo sfollamento a Mulazzo. Per Tippe inizia un continuo viavai dalla Colonia a Mulazzo, in treno, in bicicletta, a piedi; un viavai che diverse volte si allungherà fino a Fidenza e a San Martino in Rio dove il Cenacolo è sfollato e che la costringerà ad andare sempre «a spron battuto, come Teodorico da Verona». Con la differenza, ci tiene a precisare, «che lui andava all’inferno, io in Paradiso».
Sarà così fino a guerra finita. Poi si aggiunge l’evacuazione dell’ospizio per anziani e anziane che padre Ruggero aveva aperto ad Aulla. Anche le vecchiette, le più abbandonate, sfollate a Mulazzo. «C’è stato da divertirsi», dice con la sua consueta autoironia, «[Mulazzo] sembra l’arca di Noé». Autoironico e francescano anche il racconto della festa dell’Epifania 1944 in sfollamento:
«Abbiamo fatto recitare i bambini e l’interesse del paese è stato molto; di conseguenza l’incasso è stato in proporzione! In quei giorni di festa, poi, [gli abitanti di Mulazzo] hanno fatto a gara ad invitare a casa propria i piccoli derelitti. Ne erano rimasti solo cinque, proprio i rimasugli della derelizione, ossia i più brutti esternamente.
Le vecchiette non le ha invitate nessuno! E nemmeno le sorelle! Si vede che non siamo affatto carine!».
«Noi stiamo bene – scrive il 23 aprile 1944 – , però sentiamo sempre, con l’anima negli occhi, se non spuntasse la sospirata pace. Bé, pazienza, verrà anche lei». E, poco dopo: «La vostra sorella sta bene e vi saluta tanto e v’assicura che (qualche volta) vi ricorda, più spesso vi vede nel Signore, nel suo Cuore che ama tutti e tutto». E ancora: «Siamo contente, qui tutte assieme e godiamo di tanta pace, di tutta quella che il mondo irride e capir non può». E poi scherza, ricordando come anche loro, a Mulazzo, con bimbi e vecchiette, sono in guerra: alle patate, alle castagne e alla polenta. E il suo grazie per tanti doni che la famiglia Rabotti riesce ad inviare a Mulazzo, nonostante il ribollire della Linea Gotica, è sempre quello: «Dio v’l’armirta in Paradis!» (ma, per tranquillizzarle, aggiunge: a suo tempo, naturalmente!).
Nella difficoltà di far arrivare le lettere a casa, è lo stesso padre Ruggero che s’incarica, con un ingegnoso passaparola tra amici, di far arrivare a Castelnovo – anzi nel piccolo borgo di Mozzòla dove Celide, Teresa e la vedova di Tato sono sfollati – la notizia che “sorella Enrica” sta bene. In una lettera di Tippe del 4 febbraio 1945 padre Ruggero mette un suo affrettato post-scriptum di lode alla Divina Provvidenza.
E finalmente “passa” anche la guerra lasciando bimbi, ospiti e cenacoline «tutti sani e salvi e senza spaventi. Il Signore è stato ancora una volta buono». Ritornare a Marina di Massa, cioè alla normalità, è il nuovo compito che costa a Tippe fatiche non minori di quelle della guerra.
Scrive il 12 giugno 1945:
«Al momento sono tornata marinara e vi scrivo da Massa, ridotta in malo modo, crivellata dalle cannonate da far pietà. La vita, però, si riprende giorno per giorno, da mangiare se ne trova, ma ben a caro prezzo e, nell’aspettativa di poter accomodare le case che materiale non ce n’è, c’è un gran daffare per portare via le macerie.
La nostra colonia ha avuto solo tre cannonate e di poco danno; molto danno invece l’abbiamo avuto nel mobiglio. S’era tutto portato a Massa (a Mulazzo il puro necessario) e qui è stato portato via una buona parte e molto bruciato dagli apparecchi che hanno deposto un bidone incendiario proprio sul locale dov’era.
[...] Chissà quando si potrà riaprire la Colonia. Ad Aulla, poi, che è tutta a terra, i vecchi e le vecchie non li vogliono e dicono che stanno bene dove sono. La nostra casa, quasi unica in piedi, l’hanno presa per mettervi gli uffici».
Per togliere mamma, sorella e cognata (e amiche castelnovine e reggiane) dalla tristezza per la morte di Tato, le impegna a far calze per i bimbi e, se un po’ di lana avanza, anche per le “Cenacoline” che le vicende belliche ultime avevano reso senza calze e con le scarpe fruste.
Il Tippe: donna di grande spiritualità
Il lettore avrà già notato come se, nella vita di sorella Tippe-Domitilla-Enrica, i fatti hanno il sapore del fioretto francescano, questo accade per la profonda spiritualità che li connota e che esce, come un profumo timido ma avvincente, dalle sue lettere, per quanto spesso affrettate, a volte scritte in treno appoggiando il foglio a un libro o nel gelo di una notte di guerra. Oppure, nel migliore dei casi, dopo una giornata di estenuante assistenza a bimbi neonati o di pochi anni.
Spirito di servizio. Già la scelta di identificarsi in «Domitilla serva del Signore» dice lo spirito con cui ha accettato di entrare nell’avventura che padre Ruggero andava proponendo ad un gruppo di donne. Alcune «da benestanti che erano» e, tra queste, dobbiamo mettere anche Tippe. Tippe è la donna che ha accettato di mettere i suoi venticinque anni in quello che unicamente le è apparso il “partito migliore”: essere la serva del Signore per servirlo nei bimbi, i “piccoli” che il Signore ha detto «lasciate che vengano a me». Per questo il Cenacolo è la «casa del Signore». E il Signore, dice, «è il mio Padrone, che ha tanti figli da accudire».
Letizia francescana. Potremmo dire, da questa sua prima gioia, che l’estro e la fantasia che hanno fatto di lei “il Tippe” si trasformano nelle note con le quali ella canta il suo Magnificat. Non si può altrimenti spiegare la sua gioia di vivere, la sua serenità costante anche nelle maggiori difficoltà. Le sue lettere non sono “umoristiche”, ma sono espressione di una serenità interiore che da nulla si lascia turbare sapendo di essere nelle mani del Signore. C’è tanto del “nulla ti turbi” di santa Teresa “la grande”, in tutto ciò, ma vissuto nella perfetta letizia francescana.
Pietà eucaristica. Poi c’è il suo rapporto “sponsale” (i voti) con Gesù; «il Signore», dice lei da buona “serva”. La prima gioia, una volta entrata fra le “Cenacoline” è di poter vivere sotto lo stesso tetto di Gesù Eucaristico, di poterlo visitare con tutta facilità. «Qui almeno c’è gusto ad alzarsi presto perché si può andare a Messa e fare la Comunione e stare un po’ vicini al Signore che abita in chiesa. Pensate, andare a trovare il Signore! Come se niente fosse. Per non farsene un gran caso, ci vuole solo una sfacciata come me».
Devozione a Maria. Valga questa sola frase in piena guerra: «Qui stiamo bene, sempre, e speriamo sempre nella Madonna che metta a posto tutte le cose! E questa è una speranza sicura».
Sulla via del Paradiso. «Voglio bene al Signore»: è il suo ritornello e lo ripete alla mamma e alla sorella come la cosa più naturale. Se non gli volesse bene, il Signore non sarebbe il partito migliore. E volergli bene significa incamminarsi sulla via del Paradiso mediante le opere di bene. Così che l’augurio migliore che può fare per i compleanni è: «Che possiate andare in Paradiso». O ringraziando per i doni inviati ai bimbi del Cenacolo è sempe questo, nel suo dialetto montanaro: «Dio ve lo rimeriti in Paradiso».
La vita stessa del Cenacolo insieme alle consorelle, ha significato proprio perché ha per meta il Paradiso. Scrive, sul principio della guerra: «I treni vanno, le corriere pure e le gambe lo stesso. E c’è tanta gente che va, che va e infilandocisi in mezzo si è portati avanti. Proprio come il gregge delle suore che camminano per andare in Paradiso. A mettercisi nel mezzo, anche se si è cattivi, s’è portate a destinazione, mercé l’avanzarsi della massa».
Un volto su cui risplende la letizia di San Francesco
Con la fine della guerra finisce praticamente anche il carteggio conservato nella casa di Castelnovo Monti. Ci sono forse più ragioni. Nel 1947 muore madre Maria Boretti e Tippe deve sostituirla, nell’impegnativo lavoro di aiutare padre Ruggero a dare alle Piccole Figlie di San Francesco quelle “costituzioni” che il vescovo Brettoni, a causa di tante vicende personali (era morto il 13 novembre 1945), belliche e diocesane, non aveva potuto concedere. Le concederà il vescovo Socche nel 1956.
La seconda ragione è che anche le condizioni della mamma vanno facendosi sempre più critiche, e quindi più frequenti le visite di Tippe, in sostituzione delle lettere.
Sul finire del 1949 anche la mamma muore e pure lo zio Romeo (suo fratello) pare in fin di vita. Nella grande casa di Castelnovo rimangono Teresa e la cognata Elia. Tante cose cambiano.
Dai “feudi” della Celide non scendono più sacchi di noci o castagne o patate, ma il valore in denaro dei “feudi" stessi via via venduti. Tippe, infatti, non tarda a disfarsi della sua quota di eredità per “investire” (il termine è giusto: la sua mira è sempre il Paradiso) nella vita del Cenacolo.
A Reggio e ovunque operi il Cenacolo è conosciuta ormai soltanto come sorella Enrica. Lontanissimo sembra ormai quel mondo per il quale lei era semplicemente “il Tippe”.
Dal 1954 al 1958 diventa superiora generale e, allora, comincia ad essere chiamata madre Enrica. Un volto su cui risplende la perfetta letizia di S. Francesco; un cuore che sa far innamorare il cuore delle novizie del più puro sponsale amore per il Signore.
Ma è questa è una storia che esula dal carteggio di Castelnovo; e poiché se ne trova poca nelle poche pubblicazioni del Cenacolo, meriterà certamente di essere scritta.
La signorina dal maggiolino rosso
La storia del Tippe ha un capitolo laterale, anche questo poco noto, e riguarda la sorella Teresa. La quale, dopo la morte della mamma, seguendo un impulso del cuore più che gli inviti di Tippe, intensifica sempre più i suoi soggiorni al Cenacolo. Non rare volte è lei stessa che si prende un gruppo di bimbi per donare loro un po’ di vacanza montana nella casa dei Rabotti di Castelnovo le cui stanze sono, altrimenti, sempre più silenziose.
A questi bimbi, dopo i beni di Tippe, vanno gradualmente, di anno in anno, anche quelli di Teresa che, usando un’espressione della sorella, diventa una «mezza cenacolina».
Teresa, infatti, finisce con il prendere residenza pressoché stabile al Cenacolo, alla cui vita collabora come se fosse in tutto e per tutto una piccola figlia di S. Francesco, in spirito di povertà, umiltà, semplicità di vita, sempre più convinta e affascinata dall’avventura spirituale francescana di quella che per lei è sempre il suo “grande Tippe”.
Si mette dunque nella sua scia, da semplice laica, con discrezione, senza nulla fare per emergere in prima persona. Si fa anche lei serva di tutti per essere serva dei “piccoli” del Cenacolo. È molto richiesta come autista con il suo famoso maggiolino Volkswagen rosso che, per chi non la conosce a fondo, diventa il mezzo con cui è identificata: «la signorina del maggiolino rosso».
Si fa anche sempre più distaccata dai suoi possedimenti che lascia in amministrazione al marito di una nipote di Elia. Ma quando il Cenacolo ha bisogno di somme cospicue (calcolate, con la lira del tempo, in milioni), senza esitare più di tanto, chiede all’amministratore di vendere qualcosa corrispondente alla somma richiesta. Così, l’uno dopo l’altro, se ne vanno i tre appartamenti e il negozio che possiede nel condominio “Grattacielo” di Castelnovo Monti; e se ne va pure la sua metà del “feudo” (podere”) di Bondolo.
Per alcuni anni continua a mantenersi la proprietà dell’appartamento in casa Rabotti, sempre a Castelnovo ne’ Monti, quasi come una riserva di sicurezza o punto di appoggio per le sue sempre più rare venute a Castelnovo.
Ad un ennesimo bisogno del Cenacolo, chiede all’amministratore di disfarsi pure della nuda proprietà di quello, per potersene così mantenere la disponibilità vita natural durante. Questa volta, di fronte a una condizione che non ne rende facile l’esibizione sul mercato, è l’amministratore stesso che l’acquista, non prima di averne fatto stimare il valore, come di consueto, a consulenti terzi.
Teresa può così salire a Castelnovo ancora qualche volta. Ma chi la incontra vede bene – anche se non conosce i retroscena della storia – che il suo cuore è ormai tutto per i “piccoli” del Cenacolo. Anche lei, come il Tippe, ha scelto la via del Paradiso.
Muore il 5 febbraio 1996 nella clinica di Villaverde, dopo un breve ricovero. Sepolta nel cimitero di Castelnovo ne’ Monti.
(Giuseppe Giovanelli - Tratto da "Memoria Ecclesiae" n. 29/2014)
Complimenti a Redacon per la scelta di pubblicare l’articolo di Giuseppe Giovanelli. Ottima e piacevole la lettura che consiglio a tutti. Testo ricco di contenuti che ci permette di conoscere le vicissitudini di una famiglia di Castelnovo e di Santippe Rabotti vissuta con spirito francescano al servizio dei poveri. Grazie.
(Oscar Pignedoli)