Riceviamo e pubblichiamo.
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I Liguri primigenii
di Benedetto Valdesalici
In Asta si racconta che
più vai verso la nuda
più cresce un canto.
D’inverno poi si sentono
distintamente più voci
a contrasto.
Taluno dice sia il vento che
accarezzando le cime
canta, modula, gorgheggia, spicca.
Tal’altro sostiene siano gli echi delle voci
degli eserciti degli antichi Liguri
intrappolate tra il vento e le cime.
I Liguri (Frinati, Apuani, Ilvati, Veituri, Veleati per dire del nome di alcune loro tribù) furono i primi popoli che abitarono e diedero nome a questo nostro Appennino (Alp in ligure come nel nostro dialetto) al tempo in cui loro stessi non sapevano né da dove venivano né come si chiamavano. Furono infatti i Greci a dar loro nome. Proprio per la loro sensibilità al canto i Liguri si chiamerebbero così, dall'etimo greco ligu, che significa canoro, sonoro. (ligu = chiaro, acuto, sonoro) "Popolo che parla ad alta voce”.
Esiodo narra la storia del loro mitico Re Cicno, amico e cugino di Fetonte, figlio del Sole, sacrificato alla sarcastica pietà di Giove che, dopo aver fulminato Fetonte mentre stava precipitando col carro del Sole sulla Terra, stanco dei gemiti di dolore di Re Cicno per la perdita dell’amico, lo trasformò in un cigno perché cantasse il suo canto più bello.
Se non è amore per il canto questo!
Vien da pensare al Maggio come canto del cigno della società agrosilvopastorale.
I Liguri erano un popolo anarchico, indomito e animista fatto di pastori nomadi, pirati di monte che praticavano l’abigeato, che vivevano in grotte, caverne e capanne nutrendosi di quel poco che producevano e raccoglievano.
Si dice non conoscessero la scrittura ma conobbero il governo delle acque, l’arte del mercanteggiare l’ambra, la perizia e la lungimiranza della metallurgia anche se non usarono il ferro (temprato) per le armi come i Romani da cui alfine furono sconfitti e deportati nel Sannio. Il legame con la propria terra, quello che spinse intere tribù a suicidarsi, piuttosto che affrontare la deportazione ad opera dei Romani, appare chiaramente connesso all'adorazione per gli elementi che di quella terra-madre fanno parte.
Amarono e adorarono in lunghe cerimonie le Vette dei monti produttrici dell’Incanto; le Fonti [Plin. XXXI,4], presso le quali seppellivano armi e monili; gli Alberi - diverse iscrizioni ricordano la venerazione per il faggio, alto e forte, in grado di sopravvivere a chi lo ha piantato; ma in particolare amarono il canto a cui attribuivano virtù magiche e taumaturgiche. Ad esempio durante le battaglie metà del loro esercito combatteva e l’altra metà cantava onde infondere vigore allo scontro.
L’unica altra Guerra cantata che conosciamo è il Maggio drammatico!
I Liguri sconfissero i Romani, che cercavano di annetterli, ben undici volte perché ”Combattevano con le proprie selve” come scrive di loro il romano Tito Livio.
Adoravano le proprie selve con lunghi riti arborei apotropaici e non lasciarono tracce di sé se non quello spropositato amore per i boschi e per il canto.
Si pensi alla potenza del “Complesso arboreo” presso i primitivi, alla loro sentita e vissuta religione degli alberi. Si consideri che a quel tempo gli alberi si piantavano, si coltivavano ma si abbracciavano anche, si adornavano di nastri e grazie, venivano festeggiati come Antenati che a Primavera rinascevano con tutta la vegetazione. Per gli alberi si cantava, agli alberi si officiava, intorno agli alberi si ballava. Gli alberi erano l’alfabeto dei Celti coi quali infine i Liguri si fusero.
A maggio la primavera impazza, s’infervora, fiorisce, s’impollina, rinasce, si rigenera.
E’ il grande mistero del farsi e disfarsi del mondo attraverso le stagioni.
Il Maggio è un albero dalla cima fiorita, un ramo fiorito, uno scettro, una spada, una danza di spade, la moresca e il suo canto. Perché il Maggio è prima di tutto canto: canto di gola, a squarciagola perché nessuno possa dire di non aver udito la voce della Festa e il vino aiuta il tono anche se, quando si esagera, fa ragliare invece che cantare.
"Quando il suol si variopinge
rende a ognun profumo grato
l’erba e i fior del molle prato
ad amar i cuori spinge"
L’amore per il canto contraddistinse gli antichi popoli Liguri abitatori di queste montagne e mi sembra che fino ai primi del novecento fosse distinzione anche di noi popoli montanini, penso a Lino Casanova e alla sua poesia in ottava rima “La nostra montagna non canta più” che inizia con questa premessa:
"…eravamo sempre in bolletta ma si cantava, nelle osterie in campagna….dappertutto si cantava, adesso che abbiamo qualche soldo in tasca non si canta più".
Nel mio saggio su Pietro da Talada, pubblicato da Garfagnana editrice, c’è questa pagina sui Liguri, oltre a tanti altri richiami sui collegamenti tra i loro culti e i resti delle pietre incise, come le coppelle, o il nome delle Alpi e degli Appennini (da Alp o Alb e Pen – divinità delle cime; che poi il monte Penna lì dalle parti di Villaminozzo sta a testimoniarlo!). Le acque e un solo antico popolo a cavallo del crinale. Di essi Plinio dice che “utilizzavano le sorgenti di acque calde e le annoveravano come divinità”, segno di un sentimento religioso legata alla natura ma erano considerati anche una stirpe musicale (che questa caratteristica ci sia stata tramandata e sia rimasta nella tradizione dei maggi?) e si dice che in battaglia una parte fosse impegnata a cantare. Sono gli antichi abitanti del crinale, i Liguri, l’unico popolo che i Romani furono costretti a deportare in massa per riuscire a piegarli definitivamente. Le loro consuetudini e le loro attività, prima della colonizzazione romana, sono stati narrati da storici come Tito Livio ma è comunque lo “sguardo” del vincitore sullo sconfitto, quindi non sempre imparziale. Tito Livio racconta di una stirpe fiera, rude e combattiva, che non era interessata alla guerra di conquista ma che amava vivere in sedi stabili. Vivevano in oppida e castella, (i castellari), tenevano conciliabula in apposite piazze e in campi di riunione, dimoravano in vici o viculi presso sorgenti. Non conoscevano la proprietà privata e, probabilmente, nei nuclei familiari esisteva una tendenza al matriarcato; le loro donne vengono descritte come forti e muscolose, dai fisici magri e asciutti, resistenti alla fatica come gli uomini. Dal punto di vista religioso adoravano le vette delle montagne, le piante (il faggio) e, più di ogni altra cosa, le sorgenti. Le foreste sacre, i boschi sacri, i Luci erano sedi di cerimonie in relazione a molteplici eventi naturali. Furono tre le campagne romane contro i Liguri e, se si guardano i numeri dei morti, si può tranquillamente dire che si trattò di un vero e proprio genocidio, a cui venne aggiunto l’orrore della deportazione. Nella primavera del 180 a.C. due di questi eserciti comandati dai proconsoli Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Panfilo marciano contro gli Apuani con l’ordine di risolvere definitivamente il “problema apuano”. I Liguri sono completamente sorpresi dall’azione dei Romani che sono entrati in campagna prima del consueto, cioè prima che assumessero il comando i nuovi consoli Aulo Postumio Albino e Quinto Fulvio Flacco (consul suffectus) e sono costretti alla resa in numero di 12.000. Consultato il Senato si prende la decisione di deportare 40.000 capifamiglia con mogli e figli nel lontano Sannio in una zona di ager publicus già appartenuto ai Taurasini vicino a Benevento. I Liguri deportati sono destinati a condividere l’antico pagus Aequanus degli Irpini con la colonia di Benevento. Le rovine del loro centro urbano si trovano in un bosco a tre chilometri da Circello. Qui vivranno per secoli in isolamento etnico col nome di Ligures Baebiani e Corneliani dal nome dei proconsoli che li avevano sconfitti. I consoli dell’anno nel frattempo hanno raggiunto Pisa con le legioni assegnate loro, e proseguono le operazioni militari: Quinto Fulvio Flacco rastrella il territorio degli Apuani e cattura altri 7.000 capifamiglia che sono anch’essi deportati nel Sannio. Aulo Postumio affronta a sua volta i Friniati presso il monte Ballista e Suismontium (Bismantova, in Emilia) costringendoli alla resa. Poi, battuti i Montani ad occidente, prende imbarco su una flotta e costeggia il territorio degli Ingauni e Intemelii. Sopravvivono in vallate isolate poche migliaia di Apuani che, dopo molti anni di pace, nel 155 a.C. si ribellano nuovamente: ma sono definitivamente sconfitti dai legionari romani comandati dal console Marco Claudio Marcello, che ottiene il trionfo ed una dedica di riconoscenza da parte degli abitanti di Luni. Ma per i poveri liguri non era finita. Circa duecento anni dopo, durante le guerre civili, il Sannio si alleò con Mario contro Silla. Nell’82 a.C., al termine delle guerre sociali, gli Hirpini, con a capo il caudino Gavio Ponzio detto il Telesino, della stessa famiglia dei Pontius l’eroe delle Forche Caudine, riorganizzò ciò che rimaneva del Sannio e si avviò a Porta Collina per affrontare il nemico. Finì che Silla uccise tutti gli Hirpini, poi li massacrò a colpi di scure, prese i cadaveri dei condottieri più in vista mozzò loro il capo e li conficcò sui pali che circondavano il campo. “Mai Roma potrà vivere in pace sino a che un solo sannita avrà formato una comunità a sé”, aveva detto. In quell’occasione la sua ferocia fu tale da impietosire gli stessi romani. Probabilmente dei liguri deportati in quelle zone non rimase traccia, mentre lo storico reggiano don Francesco Milani nel suo libro su Minozzo (1938) pare convinto della permanenza ligure nelle fasce reggiane di crinale. Egli afferma che i caratteri somatici della popolazione minozzese attuale sono quelli riconosciuti nei Liguri, così come l’attinenza psichica con le note distintive dell’antico popolo: sobrietà, robustezza, dura tenacia al lavoro assiduo, spirito d’intraprendenza che porta a spostarsi nei periodi dell’anno in cui il lavoro in campagna è fermo. Anche il professor Giuseppe Giovanelli, nella sua storia su Cerreto delle Alpi (1991), afferma che la descrizione dei Liguri fatta da Diodoro Siculo si attaglia a misura alle attuali popolazioni cerretane. Insomma: nonostante i massacri e le deportazioni di Roma la grande, pare che l’indomito spirito ligure sia ancora tra noi.
(Normanna)
Bello e interessante! Senza che le proprie radici possano affondare e persistere un albero cade e noi oggi siamo su questa china. Complimenti!
(Marco Leonardi)