Ascolta il file della terza settimana
Ascolta il file della quarta settimana
TERZA SETTIMANA
13 – 19 Gennaio 2013
A tenere banco questa settimana è Sant’Antonio abate. Quello che risulta strano è la diffusa devozione verso questo santo. Di lui sappiamo che è nato a Coma d’Egitto (oggi Qumans) nel 250, che a venti anni si ritirò nella Tebaide, a trentacinque passò a vita ascetica in un castello sulla riva sinistra del Nilo dove rimase per venti anni e raccolse in comunità alcuni seguaci. Si trasferì poi ad Alessandria per breve tempo, per poi ritirarsi nuovamente in una zona desertica, sul monte Qolzum, presso il Mar Rosso, ove morì nel 356, ultracentenario. Come mai è il protettore degli animali domestici? Da ragazzi ci spiegavano che nei momenti di maggiore difficoltà il demonio, per farlo allontanare dalla fede, intensificava le tentazioni apparendogli sotto forma di diversi animali, anche feroci. Forse perché era stato capace di resistere il popolino lo scelse come protettore di quegli animali che costituivano invece la loro ricchezza, per difenderli dal maligno.
PROVERBI
È il periodo più freddo dell’inverno.
Sant’Antùni da la barba bianca,
s’a n’ piöv la nêva la n’ mânca!
Sarà comunque un freddo di breve durata:
Sant’Antonio la gran freddura;
San Lorenzo la gran calura:
l’una e l’altra poco dura.
Sant’Antonio fa il ponte (col ghiaccio)
San Paolo lo rompe (25 Gennaio)
AL BÊN
MARIA LAVAVA
Arcinota anche questa preghiera-filastrocca, e presente ovunque, in italiano o in dialetto. Ne è stata trovata una versione anche in Brasile. Questo testo è quanto rimane di un componimento molto più lungo o, probabilmente, di più componimenti fusi assieme. Si tratta infatti di due situazioni differenti: la prima sottolinea la povertà della Famiglia di Nazaret; la seconda si riferisce ad una famiglia dei nostri luoghi costretta ad emigrare in cerca di pane.
Maria lavava,
Giuseppe stendeva:
il Bimbo piangeva
per la fame che aveva.
Sta bûn ‘l mi’ Gesú
che adès i’ t’ tögh sú:
dal làt a n’ ghe n’è,
dal pân a n’ gh’n’è pu’.
L’inverne l’è gnû:
a s’ tùca andâr via.
La Vergin Maria
ch’ la gh’abia pietâ.
FILASTROCCA
Tra le tante filastrocche destinate alla scoperta del corpo c’è la seguente. In questo caso si esamina la faccia.
Ucîn bel, bel, (e si toccava un occhio)
cuschì l’é su’ fradèl, (si toccava l’altro occhio)
urcîna bèla, bèla, (si toccava un’orecchio)
custa chì l’ê su’ surèla, (si toccava l’altro orecchio)
cùsta l’ê la pôrta dal frâ, (si toccava la bocca)
cust chì l’è al campanlîn (si prendeva il naso e lo si dondolava)
ch’al fa: din din, din din, din din.
INDOVINELLO
Trottolin che trottolava
senza gambe camminava
senza culo si sedeva.
Poverin, come faceva?
(Il gomitolo).
POESIA
AL BÊN
1990
Mi’ nùna, in cušîna,
filànd i caršö,
la zîva ‘l rušàri
cun i fiö d’i sö fiö.
“O Sgnûr, dêm a mênt
pra sti ragasèt:
tgnîj sân, tgnîj unèst
e fêj crèsre s-cèt”.
La pênsa ai sö òmi
ch’i’ ên drê lavurâr.
La fà la pulênta
da dâgh da mangiâr...
... e lì, int la parlêta,
cun al fúm d’ la pulênta,
a s’armès-cia la vìta
cun cul ch’ la turmenta...
AL BÊN - Mia nonna, alla sera, mentre filava il cargiòlo, recitava il rosario coi figli dei suoi figli. Diceva: “Signore, ascoltatemi per questi bimbetti: fateli restare sani, conservateli onesti e fateli crescere sinceri”! Pensa ai suoi uomini che sono al lavoro e prepara la polenta per dar loro da mangiare.... e lì, nella pentola, col fumo della polenta, si mescola la vita con tutto ciò che la tormenta.
USANZE
ARRANGIARSI PER SCIARE
Di neve davvero ai nostri tempi ne veniva una gamba. E poi durava a lungo. Se diventava un tormento per chi doveva restare chiuso in casa per noi ragazzi si tramutava in uno spasso. E ognuno si arrangiava come poteva. I giovani si costruivano gli sci. Andavano nel castagneto e prendevano un tronco giovane, con almeno un paio di metri di fusto rettilineo e senza nodi. A casa lo segavano nel senso della lunghezza poi sceglievano le due assicelle centrali, le piallavano e le sagomavano, in fine le mettevano in piega per avere le punte rialzate. Noi ragazzi invece dovevamo arrangiarci con quello che trovavamo. Se nei dintorni c’erano i resti di una botte disfatta eravamo a cavallo. Due doghe fungevano benissimo da sci. Altrimenti si inventava una slitta ricavandola dalla sponda di una sedia rotta. Anche una scaletta corta poteva soddisfare, ma aveva il difetto di impuntarsi facilmente. Se poi non c’era altro si rimediava riempiendo un sacco di juta con della paglia. In tal caso era difficile tenere in rotta il sacco, che tendeva a roteare e andare dove pareva a lui. Ma l’importante era trascorrere qualche ora sulla neve.
SAGGEZZA ANTICA
ACTA EST FABULA.
La commedia è finita. Il motto è attribuito ad Augusto che lo avrebbe pronunciato in punto di morte. Dopo un lungo periodo di accanimento o di dedizione ci sembra che le cose non abbiano prodotto ciò che speravamo. Ciò che ci sembrava assolutamente necessario diventa banale o inutile. Credevamo di interpretare un ruolo serio e importante, poi ci accorgiamo che l’esistenza è stata solo una commedia.
SUPERSTIZIONI
E c’era pure una superstizione riferita alla barba bianca di S. Antonio abate. Suona così:
Cùla ch’ fîla a Sant’Antùni
la fîla la bârba dal barbûn!
Chi fila la sera di Sant’Antonio abate
fila la barba del santo barbuto.
Era un invito ad evitare qualunque lavoro quel giorno, anche dopo cena, per non profanare la festa, irritare il santo e mettere a rischio la sua protezione sugli animali. Teniamo presente che le donne erano solite non perdere un attimo di tempo, stanchezza permettendo. Ci sono altri proverbi che scandiscono il lavoro della filatura, quasi un programma di lavoro:
Dai Sânt a l’Anunsiâda
túti ‘l sîri ‘na grân filâda.
Avrîl fîla un fûš po’ và a durmîre.
Màš: ad la rùca i’ n’imbaràs.
Šúgn e Šugnûn: la rùca int un cantûn.
Chiaro: i campi assorbono tutte le energie. E ancora:
Quando la mora è nera (appena comincia a maturare)
un fuso per sera;
quando è nera affatto (quando è bella matura)
se ne filan tre o quattro.
Le more maturano in Agosto-Settembre, quando le giornate si accorciano considerevolmente. Di conseguenza le ore di lavoro diminuiva in campagna e aumentavano in casa. D’inverno poi era tutto un filare e tessere. Ma per la festa di sant’Antonio bisognava stare svegli, scendere nella stalla (serviva ad avere un poco di calore gratis), scambiare opinioni e informazioni con gli ospiti venuti in vè-g, come dicevamo noi, o a filòs, come si dice in pianura. Per tenerla corta, anche il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio abate, bisognava festeggiare e quindi non si poteva neppure filare, e chi osava farlo lo faceva a proprio rischio. Filare la barba del santo è materialmente impossibile, ma l’espressione vuole sottolineare un’azione inutile e dannosa. Dalla barba non si ricava nulla. Come minimo è tempo perso. Ma indispettisci il santo.
SATIRE
JÀCME DA LA CÊSA
Ritorniamo per un momento su questo autore. Come già detto, di Jacme nulla sappiamo. Solo che era una persona molto schiva e che le sue poesie le ha lasciate leggere solo a qualche amico intimo. Nel 1976 la biblioteca di Felina, a cura di Giuseppe Giovanelli, mise in circolazione un dattiloscritto in cui si raccoglievano i 274 versi sopravvissuti all’autore. Tutto qui. Tra questi versi ve ne sono una trentina dedicati alla festa di S. Giovanni. In alcune località c’era la consuetudine di suonare le campane per tutta la notte tra il 23 e il 24 Giugno. È sottinteso che i campanari, per restare svegli, lubrificavano la gola col vino a disposizione. Dopo una descrizione minuta di ciò che accade durante la notte il poeta rivolge una invocazione a S. Giovanni perché protegga i raccolti. Una specie di Rogazioni personali.
Al campâni d’ la mi’ Cêša, tú-c i’ àn
gli aspètne ch’a vègna ‘l dì d’ San Švan
per sunâr da la sîra a la matîna
cu’ i sunadûr ch’i’ bèvne in cantîna.
In cumpagnìa dal sgnûr Pervòst
j’ ingùgn-ne un bicerîn d’ cl’aqua d’ l’òst,
ma apèna al prêt al s’ gîra ‘drêda a l’ús
ecco ch’ l’è ûra d’arèvre al canalús.
Atàca a la bùta i’ gh’avdî Jusfôla:
a v’ pâr ch’al sia adrê cuntâr ‘na fôla,
ma s’i’ guardê bên, in quatr’ e quatr’òt
al scunìs la bùta e ânch al barilòt.
Al vîn da Mèsa l’é int ‘na butšèla
e gh’ pênsa Viturèl da la Cašèla
a cantâr gloria e a dâr la bendisiûn
fîn ch’al vîn al le làsa in cugnisiûn.
Mešanòta la n’é mia ancùr pasâda
che Ginèto e su’ fradèl da la Strâda,
dòp ch’i’ han scunî per bên ‘na damigiâna
i’ n’ càti pu’ la sûga d’ la campâna.
Spaurî cùma un fulèt int al sagrâ
‘na gràsia grànda a Sân Švàn l’ha šmandâ.
Cul bûn òm ch’ l’é al nòster Viturèl
l’ha šmandâ un pô d’ rušâda int al servèl.
Ma, cùma a s’ sà, la vìsta d’ Sân Švàn
l’ê asê lunga da vèder i’ ingàn,
e per furtûna che la su’ buntâ
l’ê ‘ncùra asê d’armètre i nòstre pcâ.
O Sân Švàn, pr’ al campâni d’ la mi’ cêša,
e per chî ch’a li sûna ancùra sênsa spêša,
dês al furmênt e al furmentûn ,
salvê l’úva pr’un pô d’ vîn bûn
ch’a s’ fàga vìver bên in alegrìa
tú-c insèm in sânta cumpagnìa.
CURIOSITÀ
LE ACQUE SOLFOROSE
Con la schiettezza tipica della gente di campagna le sorgenti di acqua solforosa venivano chiamate semplicemente: l’àqua mârsa. Il nostro territorio è dotato di molte di tali sorgenti. Io ho notizia di quella che si trova sotto Maiola, alla confluenza dei due fossi (di Maiola e di Donadiolla) nel rio Maillo. Cosa curasse veramente non lo so. Ricordo solo che molte persone si recavano laggiù, nella gola strettissima, a riempire fiaschi di quell’acqua. E tutti dicevano: La sà d’öv mârs! Però insistevano nell’assumerla dicendo che curava il fegato. Un’altra sorgente con caratteristiche analoghe la troviamo presso Vezzolo. Una terza sorgente, in questo caso detta acqua calda, si trovava nei pressi di Casale di Vedriano. Ma poi penso che in ogni borgo vi sia un qualcosa di analogo, considerando la natura vulcanica del nostro territorio e gli elementi presenti, come i gessi o altro.
MEDICINA EMPIRICA
I BUTASÖ
Non so dirvi a quale malessere corrispondono oggi, dopo che la scienza è entrata in ogni famiglia. Quando ero piccolo io si trattava dell’infiammazione di una ghiandola della gola che procurava disagio nel deglutire e qualche linea di febbre. Come si curavano? Toccava alla persona più esperta. E la cura era tanto semplice quanto drastica: la persona preposta alla cura si ungeva con olio d’ulivo i polpastrelli dei due pollici poi cominciava a frizionare le due ghiandole collocate nell’avambraccio, facilmente individuabili al tatto perché risultavano gonfie. Quel movimento doveva scioglierle, azzerarle. E di fatto accadeva, con beneficio per la gola dell’interessato.
GIOCHI
LA CAVERIÖLA
(La cavallina)
Penso sia istintivo anche per gli esseri umani tentare di domare gli animali o i compagni di gioco mediante la cavalcatura. Il nostro gioco consisteva nel disporre un compagno a fare da base, con la parte anteriore appoggiata ad un supporto e il corpo disposto a mo’ di cavallo. Gli altri dovevano prendere la rincorsa e saltargli sulla schiena cercando di collocarsi il più avanti possibile per dare ad altri lo spazio per fare altrettanto. Doveva essere di schiena robusta chi era sotto per reggere il maggior numero di partecipanti senza cedere.
Era, si, un gioco, ma era anche un test sulla furbizia. Chi saltava doveva sfiancare il compagno che si trovava sotto. E questo doveva intuire il momento in cui un compagno si gettava sulla sua schiena e opporre la massima resistenza. Vinceva chi resisteva meglio nel ruolo di cavallo.
TERZA SETTIMANA
13 – 19 Gennaio 2013
A tenere banco questa settimana è Sant’Antonio abate. Quello che risulta strano è la diffusa devozione verso questo santo. Di lui sappiamo che è nato a Coma d’Egitto (oggi Qumans) nel 250, che a venti anni si ritirò nella Tebaide, a trentacinque passò a vita ascetica in un castello sulla riva sinistra del Nilo dove rimase per venti anni e raccolse in comunità alcuni seguaci. Si trasferì poi ad Alessandria per breve tempo, per poi ritirarsi nuovamente in una zona desertica, sul monte Qolzum, presso il Mar Rosso, ove morì nel 356, ultracentenario. Come mai è il protettore degli animali domestici? Da ragazzi ci spiegavano che nei momenti di maggiore difficoltà il demonio, per farlo allontanare dalla fede, intensificava le tentazioni apparendogli sotto forma di diversi animali, anche feroci. Forse perché era stato capace di resistere il popolino lo scelse come protettore di quegli animali che costituivano invece la loro ricchezza, per difenderli dal maligno.
PROVERBI
È il periodo più freddo dell’inverno.
Sant’Antùni da la barba bianca,
s’a n’ piöv la nêva la n’ mânca!
Sarà comunque un freddo di breve durata:
Sant’Antonio la gran freddura;
San Lorenzo la gran calura:
l’una e l’altra poco dura.
Sant’Antonio fa il ponte (col ghiaccio)
San Paolo lo rompe (25 Gennaio)
AL BÊN
MARIA LAVAVA
Arcinota anche questa preghiera-filastrocca, e presente ovunque, in italiano o in dialetto. Ne è stata trovata una versione anche in Brasile. Questo testo è quanto rimane di un componimento molto più lungo o, probabilmente, di più componimenti fusi assieme. Si tratta infatti di due situazioni differenti: la prima sottolinea la povertà della Famiglia di Nazaret; la seconda si riferisce ad una famiglia dei nostri luoghi costretta ad emigrare in cerca di pane.
Maria lavava,
Giuseppe stendeva:
il Bimbo piangeva
per la fame che aveva.
Sta bûn ‘l mi’ Gesú
che adès i’ t’ tögh sú:
dal làt a n’ ghe n’è,
dal pân a n’ gh’n’è pu’.
L’inverne l’è gnû:
a s’ tùca andâr via.
La Vergin Maria
ch’ la gh’abia pietâ.
FILASTROCCA
Tra le tante filastrocche destinate alla scoperta del corpo c’è la seguente. In questo caso si esamina la faccia.
Ucîn bel, bel, (e si toccava un occhio)
cuschì l’é su’ fradèl, (si toccava l’altro occhio)
urcîna bèla, bèla, (si toccava un’orecchio)
custa chì l’ê su’ surèla, (si toccava l’altro orecchio)
cùsta l’ê la pôrta dal frâ, (si toccava la bocca)
cust chì l’è al campanlîn (si prendeva il naso e lo si dondolava)
ch’al fa: din din, din din, din din.
INDOVINELLO
Trottolin che trottolava
senza gambe camminava
senza culo si sedeva.
Poverin, come faceva?
(Il gomitolo).
POESIA
AL BÊN
1990
Mi’ nùna, in cušîna,
filànd i caršö,
la zîva ‘l rušàri
cun i fiö d’i sö fiö.
“O Sgnûr, dêm a mênt
pra sti ragasèt:
tgnîj sân, tgnîj unèst
e fêj crèsre s-cèt”.
La pênsa ai sö òmi
ch’i’ ên drê lavurâr.
La fà la pulênta
da dâgh da mangiâr...
... e lì, int la parlêta,
cun al fúm d’ la pulênta,
a s’armès-cia la vìta
cun cul ch’ la turmenta...
AL BÊN - Mia nonna, alla sera, mentre filava il cargiòlo, recitava il rosario coi figli dei suoi figli. Diceva: “Signore, ascoltatemi per questi bimbetti: fateli restare sani, conservateli onesti e fateli crescere sinceri”! Pensa ai suoi uomini che sono al lavoro e prepara la polenta per dar loro da mangiare.... e lì, nella pentola, col fumo della polenta, si mescola la vita con tutto ciò che la tormenta.
USANZE
ARRANGIARSI PER SCIARE
Di neve davvero ai nostri tempi ne veniva una gamba. E poi durava a lungo. Se diventava un tormento per chi doveva restare chiuso in casa per noi ragazzi si tramutava in uno spasso. E ognuno si arrangiava come poteva. I giovani si costruivano gli sci. Andavano nel castagneto e prendevano un tronco giovane, con almeno un paio di metri di fusto rettilineo e senza nodi. A casa lo segavano nel senso della lunghezza poi sceglievano le due assicelle centrali, le piallavano e le sagomavano, in fine le mettevano in piega per avere le punte rialzate. Noi ragazzi invece dovevamo arrangiarci con quello che trovavamo. Se nei dintorni c’erano i resti di una botte disfatta eravamo a cavallo. Due doghe fungevano benissimo da sci. Altrimenti si inventava una slitta ricavandola dalla sponda di una sedia rotta. Anche una scaletta corta poteva soddisfare, ma aveva il difetto di impuntarsi facilmente. Se poi non c’era altro si rimediava riempiendo un sacco di juta con della paglia. In tal caso era difficile tenere in rotta il sacco, che tendeva a roteare e andare dove pareva a lui. Ma l’importante era trascorrere qualche ora sulla neve.
SAGGEZZA ANTICA
ACTA EST FABULA.
La commedia è finita. Il motto è attribuito ad Augusto che lo avrebbe pronunciato in punto di morte. Dopo un lungo periodo di accanimento o di dedizione ci sembra che le cose non abbiano prodotto ciò che speravamo. Ciò che ci sembrava assolutamente necessario diventa banale o inutile. Credevamo di interpretare un ruolo serio e importante, poi ci accorgiamo che l’esistenza è stata solo una commedia.
SUPERSTIZIONI
E c’era pure una superstizione riferita alla barba bianca di S. Antonio abate. Suona così:
Cùla ch’ fîla a Sant’Antùni
la fîla la bârba dal barbûn!
Chi fila la sera di Sant’Antonio abate
fila la barba del santo barbuto.
Era un invito ad evitare qualunque lavoro quel giorno, anche dopo cena, per non profanare la festa, irritare il santo e mettere a rischio la sua protezione sugli animali. Teniamo presente che le donne erano solite non perdere un attimo di tempo, stanchezza permettendo. Ci sono altri proverbi che scandiscono il lavoro della filatura, quasi un programma di lavoro:
Dai Sânt a l’Anunsiâda
túti ‘l sîri ‘na grân filâda.
Avrîl fîla un fûš po’ và a durmîre.
Màš: ad la rùca i’ n’imbaràs.
Šúgn e Šugnûn: la rùca int un cantûn.
Chiaro: i campi assorbono tutte le energie. E ancora:
Quando la mora è nera (appena comincia a maturare)
un fuso per sera;
quando è nera affatto (quando è bella matura)
se ne filan tre o quattro.
Le more maturano in Agosto-Settembre, quando le giornate si accorciano considerevolmente. Di conseguenza le ore di lavoro diminuiva in campagna e aumentavano in casa. D’inverno poi era tutto un filare e tessere. Ma per la festa di sant’Antonio bisognava stare svegli, scendere nella stalla (serviva ad avere un poco di calore gratis), scambiare opinioni e informazioni con gli ospiti venuti in vè-g, come dicevamo noi, o a filòs, come si dice in pianura. Per tenerla corta, anche il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio abate, bisognava festeggiare e quindi non si poteva neppure filare, e chi osava farlo lo faceva a proprio rischio. Filare la barba del santo è materialmente impossibile, ma l’espressione vuole sottolineare un’azione inutile e dannosa. Dalla barba non si ricava nulla. Come minimo è tempo perso. Ma indispettisci il santo.
SATIRE
JÀCME DA LA CÊSA
Ritorniamo per un momento su questo autore. Come già detto, di Jacme nulla sappiamo. Solo che era una persona molto schiva e che le sue poesie le ha lasciate leggere solo a qualche amico intimo. Nel 1976 la biblioteca di Felina, a cura di Giuseppe Giovanelli, mise in circolazione un dattiloscritto in cui si raccoglievano i 274 versi sopravvissuti all’autore. Tutto qui. Tra questi versi ve ne sono una trentina dedicati alla festa di S. Giovanni. In alcune località c’era la consuetudine di suonare le campane per tutta la notte tra il 23 e il 24 Giugno. È sottinteso che i campanari, per restare svegli, lubrificavano la gola col vino a disposizione. Dopo una descrizione minuta di ciò che accade durante la notte il poeta rivolge una invocazione a S. Giovanni perché protegga i raccolti. Una specie di Rogazioni personali.
Al campâni d’ la mi’ Cêša, tú-c i’ àn
gli aspètne ch’a vègna ‘l dì d’ San Švan
per sunâr da la sîra a la matîna
cu’ i sunadûr ch’i’ bèvne in cantîna.
In cumpagnìa dal sgnûr Pervòst
j’ ingùgn-ne un bicerîn d’ cl’aqua d’ l’òst,
ma apèna al prêt al s’ gîra ‘drêda a l’ús
ecco ch’ l’è ûra d’arèvre al canalús.
Atàca a la bùta i’ gh’avdî Jusfôla:
a v’ pâr ch’al sia adrê cuntâr ‘na fôla,
ma s’i’ guardê bên, in quatr’ e quatr’òt
al scunìs la bùta e ânch al barilòt.
Al vîn da Mèsa l’é int ‘na butšèla
e gh’ pênsa Viturèl da la Cašèla
a cantâr gloria e a dâr la bendisiûn
fîn ch’al vîn al le làsa in cugnisiûn.
Mešanòta la n’é mia ancùr pasâda
che Ginèto e su’ fradèl da la Strâda,
dòp ch’i’ han scunî per bên ‘na damigiâna
i’ n’ càti pu’ la sûga d’ la campâna.
Spaurî cùma un fulèt int al sagrâ
‘na gràsia grànda a Sân Švàn l’ha šmandâ.
Cul bûn òm ch’ l’é al nòster Viturèl
l’ha šmandâ un pô d’ rušâda int al servèl.
Ma, cùma a s’ sà, la vìsta d’ Sân Švàn
l’ê asê lunga da vèder i’ ingàn,
e per furtûna che la su’ buntâ
l’ê ‘ncùra asê d’armètre i nòstre pcâ.
O Sân Švàn, pr’ al campâni d’ la mi’ cêša,
e per chî ch’a li sûna ancùra sênsa spêša,
dês al furmênt e al furmentûn ,
salvê l’úva pr’un pô d’ vîn bûn
ch’a s’ fàga vìver bên in alegrìa
tú-c insèm in sânta cumpagnìa.
CURIOSITÀ
LE ACQUE SOLFOROSE
Con la schiettezza tipica della gente di campagna le sorgenti di acqua solforosa venivano chiamate semplicemente: l’àqua mârsa. Il nostro territorio è dotato di molte di tali sorgenti. Io ho notizia di quella che si trova sotto Maiola, alla confluenza dei due fossi (di Maiola e di Donadiolla) nel rio Maillo. Cosa curasse veramente non lo so. Ricordo solo che molte persone si recavano laggiù, nella gola strettissima, a riempire fiaschi di quell’acqua. E tutti dicevano: La sà d’öv mârs! Però insistevano nell’assumerla dicendo che curava il fegato. Un’altra sorgente con caratteristiche analoghe la troviamo presso Vezzolo. Una terza sorgente, in questo caso detta acqua calda, si trovava nei pressi di Casale di Vedriano. Ma poi penso che in ogni borgo vi sia un qualcosa di analogo, considerando la natura vulcanica del nostro territorio e gli elementi presenti, come i gessi o altro.
MEDICINA EMPIRICA
I BUTASÖ
Non so dirvi a quale malessere corrispondono oggi, dopo che la scienza è entrata in ogni famiglia. Quando ero piccolo io si trattava dell’infiammazione di una ghiandola della gola che procurava disagio nel deglutire e qualche linea di febbre. Come si curavano? Toccava alla persona più esperta. E la cura era tanto semplice quanto drastica: la persona preposta alla cura si ungeva con olio d’ulivo i polpastrelli dei due pollici poi cominciava a frizionare le due ghiandole collocate nell’avambraccio, facilmente individuabili al tatto perché risultavano gonfie. Quel movimento doveva scioglierle, azzerarle. E di fatto accadeva, con beneficio per la gola dell’interessato.
GIOCHI
LA CAVERIÖLA
(La cavallina)
Penso sia istintivo anche per gli esseri umani tentare di domare gli animali o i compagni di gioco mediante la cavalcatura. Il nostro gioco consisteva nel disporre un compagno a fare da base, con la parte anteriore appoggiata ad un supporto e il corpo disposto a mo’ di cavallo. Gli altri dovevano prendere la rincorsa e saltargli sulla schiena cercando di collocarsi il più avanti possibile per dare ad altri lo spazio per fare altrettanto. Doveva essere di schiena robusta chi era sotto per reggere il maggior numero di partecipanti senza cedere.
Era, si, un gioco, ma era anche un test sulla furbizia. Chi saltava doveva sfiancare il compagno che si trovava sotto. E questo doveva intuire il momento in cui un compagno si gettava sulla sua schiena e opporre la massima resistenza. Vinceva chi resisteva meglio nel ruolo di cavallo.