Non so perché, né da dove le fossero giunti, ma mia nonna Eva aveva due vasi di oleandri che, con i primi freddi, finivano al riparo in uno scantinato della “casa vecchia”, insieme al sedano, accuratamente levato dall’orto e interrato in un mastello riempito di sabbia, così da conservarsi - bianco e turgido - per l’inverno.
I cavolfiori e le verze, al contrario, come teste dormienti di creature silvane - elfi o folletti - restavano nell’orto; le rugose verze, bollite con le ossa del maiale e il riso, sarebbero diventate, nei mesi seguenti, un ottimo piatto invernale. Che poi, se ci aggiungevi l’uovo sbattuto con un bel po’ di parmigiano grattugiato (la tridüra), il sapore guadagnava indicibili vette di piacere.
Gli oleandri non si mangiavano, ovviamente, anzi: mia nonna diceva che erano velenosi; erano solo belli e passavano l’estate davanti a casa, insieme ai vasi dei gerani rossi e alla ciotola del basilico.
E all’immancabile “bevilacqua” (fragile, ma facilmente moltiplicabile tagliandone un rametto e ponendolo in acqua a fare le radici) sul davanzale della finestra.
Amava i fiori, mia nonna Eva, amava l’ordine e tutto ciò che era bello (come il ricamo e i pizzi all’uncinetto), tuttavia, da persona pragmatica qual era, sapeva che il tempo concesso alla bellezza dei fiori non doveva essere sottratto a quello del lavoro.
Se poi si trattava della cura della propria persona – e della propria bellezza - mia nonna affermava che fermarsi troppo davanti allo specchio era sintomo di vanità, qualcosa che aveva a che fare col diavolo, perciò ci si doveva lavare, sì, pettinare, tenere in ordine, sì, ma mai si doveva indugiare troppo in quelle sciocchezze. Era solo una perdita di tempo.
In verità, ho sempre pensato che fosse facile, per lei, pensarla così: era naturalmente bella, con la pelle di porcellana, guance rosate, capelli ricci, lunghissimi, grandi occhi grigi e un nasino minuscolo che sembrava quello della mia bambola. Niente a che vedere con la mia pelle olivastra e i miei lineamenti da zingara che, certo, non avevo ereditato da lei.
Utilità, dunque, era la parola d’ordine. Lo era soprattutto per la terra che mai veniva sciupata.
Non c’era un angolo, intorno a casa o nei campi, che non servisse a produrre qualcosa.
Nulla veniva sperperato e tutto veniva riciclato; la cenere della stufa, con il letame, diventava concime per le zolle argillose dell’orto, ma in quantità ben calibrata, perché, altrimenti, contenendo fosforo, avrebbe bruciato ogni pianta.
L’orto, poi, era strutturato in modo da accogliere tutte le verdure possibili, ben allineate nei loro campetti separati dai sentierini. E le sementi erano quelle raccolte da mia nonna anno per anno, messe a seccare su fogli di giornale e poi riposte in sacchetti di carta con tanto di nome.
Credo che se le scambiassero di famiglia in famiglia, così come si scambiavano i conigli maschi riproduttori o le uova da “dare a covv” alle chiocce, forse per evitare che, riproducendosi in endogamia, tra individui dello stesso ceppo, animali e piante si indebolissero troppo.
Le zucche, invece che nell’orto, si seminavano ai bordi del letamaio, dove stendevano le loro enormi foglie e i loro tralci tentacolari, pappandosi l’humus nero digerito e rigurgitato da migliaia di lombrichi e producendo i gialli frutti che sarebbero diventati tortelli altrettanto gialli.
I radicchi e le bietole, oltre a qualche fila nell’orto, li spargeva mio nonno qua e là nei campi, dove si sviluppavano rigogliosi, così che poi mi toccava star lì a mondare cesti e cesti di bietole, levando le “coste” bianche dalla foglia e liberandole da viscide lumachine, terriccio e pidocchi, quando mamma e nonna decidevano di fare lo scarpasùn o i tortelli verdi.
Lo scarpasùn, nel “soeul” (lo stampo rotondo con al centro un sole inciso, ruotante su se stesso, dal diametro grande quanto la bocca del forno), che cuoceva emanando quel profumo straordinario e irresistibile, era uno dei miei cibi preferiti; la mia idea di “mangiare bene” coincideva, allora, con quel sapore e quell’inconfondibile odore.
E non si contavano le cucchiaiate del composto di bietole (con trito di prezzemolo ed aglio, ricotta, parmigiano e riso cotto nel latte) che mi mangiavo prima che mia mamma lo trasferisse nello stampo per la cottura. Era il ripieno - molto diverso da quello dell’erbazzone di pianura - che andava ben spianato nel “soeul” rivestito dalla sottilissima sfoglia e che andava poi spennellato in superficie con l’uovo sbattuto con un pizzico di sale.
E i radicchi, quando la neve concedeva un po’ di tregua, li si raccoglieva anche a febbraio, che sembravano guasti visti da fuori, ma poi bastava togliere la parte esterna, appena marcescente, e il “pane”, quel viluppo di foglie crocchianti, ne usciva fresco e gustoso; ottimo con le uova sode.
Nell’orto, piuttosto ampio e prossimo al pozzo, c’era di tutto, compreso un grande noce proprio al centro, e una recinzione, all’intorno, proteggeva le piante da visite sgradite. Dalle galline, sicuramente, perché di pecore e capre, in quel periodo, a Soraggio non ce n’erano più, mentre i caprioli e i cinghiali, per fortuna, non c’erano ancora.
C’erano i tacchini (i piit) della Tina e di Marino Zorra, che a me facevano molta paura, perché mi avevano detto che saltavano addosso ai bambini e cavavano gli occhi, così, quando svoltavo l’angolo della loro casa e sentivo il “guliguliguli” di quelle bestiacce dal ripugnante collo nudo, mi mettevo a correre con la speranza di non essere assalita.
C’era la volpe, che spesso acchiappava qualche gallina, e dalla scia delle penne lasciate in giro capivi che se l’era portata verso Casa Ferrari e il fosso di Monte Castello.
C’era il tasso, ma quello s’occupava soltanto di andare nei campi a staccare le pannocchie di granoturco, arrampicandosi sui gambi.
Quanto s’arrabbiava, mio nonno Carlo! Non bestemmiava, non era il tipo, era troppo “di chiesa”; si limitava a rivolgersi a Dio chiamandolo “sacro”, poi, dopo aver borbottato un po’, prendeva una vecchia camicia, un cappellaccio, qualche bastone e costruiva uno spaventapasseri che piazzava nella coltivazione di granoturco, sperando che il tasso cadesse nell’inganno.
Penso che funzionasse, perché poi il granoturco lo raccoglievamo e lo spannocchiavamo, quindi il tasso non se lo rubava tutto.
Proprio a ottobre si spannocchiava, cioè si faceva lo “spagnottino”.
I miei lo facevano sotto il portico, tuttavia ne ricordo uno un po’ particolare, in casa di una famiglia di mezzadri poverissimi che a Soraggio si trattennero per pochi anni.
Era così per i mezzadri: a Sant’Andrea, dopo aver raccolto e seccato le castagne, spesso dovevano lasciare il podere per trasferirsi in un altro, pertanto facevano “San Martino” un po’ più tardi di quelli della pianura, che rispettavano proprio il vero San Martino: l’undici novembre.
Ricordo la miseria indicibile di quella casa, dove le pannocchie di granoturco, invece di essere state ammassate sotto al portico, si trovavano in sala: una montagna di pannocchie sul pavimento di mattoni e noi bambini seduti sopra ad aprirle per poi passarle agli adulti.
Ci sembrava un gioco, ma, alla lunga, ci si stancava. Era un lavoro a catena: i bambini e le donne ad aprire le pannocchie; gli uomini a strappare le foglie esterne lasciandone solo un ciuffo; i più anziani a raccogliere le pannocchie a mazzi nella mano sinistra, stringendo le foglie e legandole con uno “stropetto” quando nella mano non ce ne stavano più.
La cosa divertente erano le chiacchiere, i racconti; per fare lo “spagnottino” ci si riuniva tutti, a turno, di casa in casa; le novità giravano, le risate si sprecavano e per noi bambini era piacevole farne parte.
Poi c’era sempre qualche bicchiere di vino per i grandi e pure un goccino per noi, ma rigorosamente diluito con l’acqua; già era brusco di suo, quel vino, di alcool conteneva forse una piccola traccia, ma con l’acqua sapeva quasi d’aceto!
Quella volta nessuno ci offrì da bere: i mezzadri erano troppo poveri anche per mettere a disposizione lo scarso vinello prodotto in casa.
A me, però, venne una sete tremenda e chiesi dell’acqua.
Mi presentarono un bicchiere che non vedeva uno straccio da mesi: unto, impiastricciato di non so cosa, talmente sporco che rimasi di sasso. Eppure, mi vergognavo troppo a rifiutarlo, non potevo; ero piccolissima, pur tuttavia sapevo che avrei offeso quelle persone; mi feci coraggio, chiusi gli occhi e bevvi. Non mi ricordo di aver preso nessuna malattia…
E pensare che mia mamma, per “sgurare” le stoviglie, in mancanza di detersivo, usciva sotto il portico e usava il “sabbione” conservato in un pentolino: era la sabbia rossastra che inframmezzava le arenarie della Battuta e che grattava le pentole senza graffiarle.
E quanto sciacquava, mia mamma, quant’acqua cavata dal pozzo e poi tirata su bollente dalla cassetta della stufa economica, pur di vedere i bicchieri brillare!
Sotto al lavandino, conservata per vincere l’unto alla bisogna, c’era un sacchetto di polvere bianca: era la “saponina”, un composto multiuso capace di sciogliere qualsiasi grasso; credo lo comprassero dall’ovaiolo che girava col mulo.
Non ricordo chi, ma per lavare le bottiglie prima di imbottigliare il vino qualcuno adoperava la parietaria, l’erba che prosperava anche sui muri della “casa vecchia” e tutt’intorno al fienile.
Vicino alla rete dell’orto fioriva, invece, un ciuffo di menta piperita, però in cucina non la si usava, e non ho mai capito come mai fosse lì.
Altre erbe, più o meno officinali, rimandavano a chissà quale passato di quella casa antichissima, forse settecentesca, o forse ancora più vecchia. Perché davvero, col senno di poi, è indubitabile che quelle erano erbe da “medgone” o da convento. O da streghe.
C’era la camomilla che si apriva in mille fiori nel perimetro esterno del pollaio, ed era davvero tanta: se ci camminavi in mezzo, ti impregnavi del suo odore mielato. Mia nonna la raccoglieva, la seccava e poi la usavamo durante l’anno. Non sapevo nemmeno che si potesse comprare.
C’era l’erba amara, la balsamita, che chiamavamo “erba di Santa Maria” e che aveva lo stesso odore della “gomma del ponte”, il chewing gum in strisce verdi col ponte di Brooklyn sull’involucro.
C’era il tanaceto, un grosso cespo dai corimbi fatti di capolini gialli in un angolo dell’aia, quell’aia antica dove mio nonno raccontava che, un tempo, battevano il grano “a mano” con una pietra tirata dalle mucche e i correggiati, dopo averla spalmata di sterco bovino misto ad acqua - praticamente catramandola - per impedire ai chicchi di perdersi nel terreno.
Io non ho fatto in tempo a vederlo, ma mio nonno mi diceva che per battere il frumento, prima dell’arrivo delle macchine trebbiatrici, serviva appunto uno spazio piano e senza buchi, perciò si “imbiudavano” le aie. Gli escrementi delle vacche, in italiano, si chiamavano “bovina”, o “buina” e, in dialetto montanaro, diventarono “biuda”. Il “catrame” di sterco bovino ed acqua, tirato e lisciato con grosse scope di frasche di castagno o carpino, una volta seccato dal sole diventava una pellicola resistentissima e uniforme e non rilasciava nessun odore al frumento.
Mentre l’aia era proprio davanti alla “casa vecchia”, l’orto era sul lato opposto e, da quella parte, rasente al muro della casa, c’era la ruta, vicino ad un arbusto d’uva spina; poi c’era il cren, dalle larghe foglie verde scuro, la cui radice, grattugiata e mischiata con l’aceto, dava una salsina bianca e piccantissima che si poteva accompagnare ai lessi.
Inoltre c’erano le rose. Le rose della varietà centifolia, quelle dal portamento disordinato, sarmentoso, selvagge come i rovi, con i fusti del tutto foderati di spine che era impossibile evitare; quelle dal fiore a forma di cavolo, rosa pallido, con petali permalosi che cadevano a poche ore dalla raccolta. Ma belle, paffute, romantiche, profumatissime. Non conoscevo altre rose.
C’erano solo quelle nell’orto, vicino alla rete e, ai piedi di quelle rose, in primavera, fiorivano, a mazzi, pochi narcisi e gli iris blu.
Poi, in luglio, era la volta di un giglio bianco, un meraviglioso giglio di San Luigi che mia nonna Eva, puntualmente, sistemava nell’oratorio davanti all’affresco della visitazione di Maria ad Elisabetta.
Infine, da ottobre a novembre, nell’orto sbocciavano loro: i crisantemi. Abbondanti, robusti, dai gambi lunghi e dal forte odore che tanto ricordava l’incenso.
I crisantemi erano fiori utili, non come gli oleandri che erano solo belli. I crisantemi stavano nell’orto perché dovevano essere portati al cimitero.
La mia idea di morte e di cimiteri, quand’ero bambina, non sapeva di angoscia, di timore o di disgusto; mi avevano sempre portato a vedere i morti, quando qualcuno veniva a mancare nelle famiglie, che fossero parenti o amici o semplici conoscenti.
Mi avevano sempre portata a recitare il rosario davanti a quei corpi pallidi, immobili e avevo percepito la morte come qualcosa di calmo, di naturale, che sapeva di serenità più che di paura. Anche se poi, intorno, la gente piangeva.
La morte aveva anche un odore: quello delle candele, innanzitutto, poi quello dell’incenso, in chiesa, quando i preti (erano tanti, allora, a concelebrare) giravano intorno alla bara lanciando sbuffate d’incenso e cantando quel “Dies Irae, dies illa/ solvet saeclum in favilla:/teste David cum Sybilla…” che quasi mi entusiasmava e poi il potentissimo “Libera me, Domine, de morte æterna, in die illa tremenda, quando coeli movendi sunt et terra. Dum veneris iudicare sæculum per ignem.”
Erano riti fatti di gesti, suoni, luci e odori che riconducevano al solenne, al sacro nel suo vero significato di relazione fra l’individuo, un gruppo/una comunità e il referente simbolico, il prete, che faceva da tramite con ciò in cui la comunità trovava una delle ragioni della propria identità. Erano liturgie che davano valore e grandezza alla figura di qualsiasi defunto, al più ricco come al più povero.
La morte era cosa naturale e far visita al cimitero era un momento d’incontro e di socializzazione anche per i più piccoli. Così, quando s’avvicinavano le feste del primo e del due novembre, sapevo che c’era da andare a Gombio, là in basso, in fondo, vicino alla chiesa vecchia; quella che don Valerio apriva soltanto a Pasqua e per i Santi, perché il cimitero era proprio laggiù.
Partivamo, nei pomeriggi precedenti, rigorosamente a piedi, con tutto quel che serviva per rimettere a nuovo, per quanto possibile, tutte le tombe dei nostri defunti. E portavamo i crisantemi.
Andare al cimitero, per me, era un po’ anche studiare la storia: quella della mia famiglia e quella del paese.
Erano tutti lì: i genitori di mia nonna Eva, Luigi Copellini e Delfina Birzi, poi i genitori di mio nonno Carlo, Achille Albertini (lo stesso nome di mio padre) e Adele Manfredi (dei Manfredi di Fergnola). I Copellini erano proprio originari di Gombio e solo più tardi, leggendo il libro di don Francesco Milani su Marola, scoprii che questo cognome poteva derivare da un toponimo di Marola: “il copello”, uno dei castagneti che, fin dai tempi di Matilde, erano stati dati in concessione per la raccolta delle castagne alle povere popolazioni della zona di Villaminozzo.
Copellini è, comunque, un cognome raro e circoscritto alle nostre zone.
E tra i Copellini di Gombio ci fu, nell’Ottocento, un artigiano straordinario, un “campanaro” che fondeva le campane per le chiese; un genio, a suo modo, ma un bel tipo, visto che, in un attimo di rabbia, pare avesse ammazzato il genero.
Dai documenti del processo, pazientemente esaminati da Sauro Rodolfi (figlio della maestra Antonietta Grossi, mio compagno di classe alle elementari e ora valente organista), pare che il Copellini fosse riuscito a fuggire; tuttavia, mio padre dice di aver sentito da suo nonno che, in realtà, l’assassino s’era nascosto nella torre colombaia di casa Copellini e che lì abbia aspettato la prescrizione del reato.
Quante cose s’imparavano al cimitero! In un angolo, proprio attaccata al muro, quasi a volersi nascondere, c’era una lapide bianca. Era quella di Ida Roser. Era una delle due tedesche che, avendo sposato uomini del luogo, si erano trasferite a Gombio.
Ida Roser, di Berlino, era la moglie di Narciso Scarenzi (altro cognome rarissimo), un simpatizzante di Camillo Prampolini, fervente socialista con baffoni e barba da ribelle.
Ida, con l’amica Augusta, era poi stata la protagonista, nel 1944, del famoso episodio in cui il loro coraggio e la loro conoscenza della lingua tedesca avevano salvato Gombio da una feroce rappresaglia nazista.
Era stata sepolta nel cimitero locale, ma era protestante, perciò… l’avevano messa in un angolo.
S’imparavano tante storie al cimitero, poi s’incontrava tanta gente.
La zia Gelsomina del Mulino Zannoni, sorella di mia nonna Eva, per esempio; una donna forte, sempre serena, con le mani d’oro, come mia nonna capace di fare di tutto.
Una gran camminatrice che, almeno una volta alla settimana, capitava a Soraggio a trovare mia nonna passando a piedi dal Monte Castello. Era lì anche lei, al cimitero a sistemare le tombe.
Poi c’era la mia amica Noemi Fracassi, la piccola Noemi dalle mani bianchissime e delicate e dagli occhi a mandorla: la chiamavamo “la cinesina” e lei rideva, perché aveva un forte senso dell’umorismo e mica se la prendeva!
Noemi aveva uno zio molto particolare, uno zio importante, che viveva a Milano e che (meraviglia!) pitturava come un vero pittore! Infatti, nella cucina della casa di Noemi, lì alla chiesa vecchia, c’era un grande dipinto sul muro, e l’aveva fatto lui: lo zio Dino!
Dino Fracassi lavorava a Milano dai “Martinitt”, che erano ragazzi orfani, per quel che ci aveva detto Noemi. È grazie a lui che capii il significato di quella parola: orfano, con tutto il suo portato di dolore.
Sì, s’imparavano tante cose al vecchio cimitero, che ora non c’è più; la storia delle famiglie e la grande storia, quella che poi abbiamo studiato a scuola.
Perciò era bello prendere su i crisantemi dall’orto e portarli fin laggiù; era un dialogo con il passato che nutriva l’anima.
Era la consapevolezza della forza di quelle generazioni che a noi toccava solo raccogliere come un testimone e tramandare ai nostri figli.
Che bei ricordi, leggendo le tue parole mi sembra ancora di riviverli.
Com’era bello vivere a Gombio!
(La “cinesina”)
Grazie! Un altro bel quadro (oseri definire postimpressionista) del bel tempo andato. E quel bel per me significa ritrovare un’emozione, un ricordo, una similitudine. Questi regali alle future generazioni richiedono però un lavoro “comune” uno sforzo di comunicazione della memoria per evitare che diventino “fiabe”, “miti e leggende”, e questo perchè sappiamo che gli affetti che durano nel tempo contengono orditi di verità.
Grazie.
(Marisa Nice Montecchi)
Come sempre ed ancora un grandissimo grazie per le emozioni che mi regali.
(Luciano)
E’ sempre un piacere leggere i tuoi racconti. Non smettere mai di farlo! Doni emozioni e fai rivivere i tempi passati con grande gioia. Grazie.
(Edna Ganapini)
Quanta emozione, quanta nostalgia in quei racconti, nei quali ti ritrovi bambino e volendo, con un briciolo di fantasia, puoi scoprire un angolo anche per te e rivivere quei momenti felici e pieni di calore, di speranza e soprattutto di solidarietà e d’amore per il prossimo. Grazie infinite Normanna, i tuoi racconti mettono di buonumore e inducono, quasi istigano chi li legge a guardare con serenità il futuro, nonostante tutto.
(Sergio Tagliati)
Come sempre i tuoi racconti sono un salutare tuffo in un passato il cui contesto io non ho vissuto Normanna, ma che ho imparato a conoscere sui libri e al cinematografo. Ciò non toglie che è evidentemente contemporaneo al mio, anzi, vista la nostra differenza d’età, certamente successivo. E di questo mi rendo conto dall’atmosfera che si respira in quell’orto, in quelle riunioni intorno al granoturco, o al cimitero dove ci si ritrovava e si imparavano tante cose. E’ la presenza nella vita di tutti della cucina, del cibo preparato con tempo e cura dalle donne di casa; é l’assenza del telefono, delle macchine e della televisione che li rende coevi; ed il rapporto fra coetanei e membri di generazioni diverse in una stessa famiglia. In città o in montagna c’era comunque un dialogo fra uomini, donne e bambini in una casa. C’era uno scambio di notizie, forse più che di pensieri e di idee. E questo livello di comunicazione fatto di novità, di annunci, di ricette, si respira perfettamente in quel che scrivi. Ma il più gran merito dei tuoi racconti, credo, è l’assenza di una inutile e trita nostalgia. Le tue istantanee ci dicono che il mondo una volta era diverso, se fosse migliore o peggiore non ha importanza. La storia non si giudica, era così.
(Lucio Margherita)
I sistemi di comunicazione che abbiamo oggi sono inversamente proporzionali alla voglia di comunicare. Cosa sarà successo? Secondo me oggi abbiamo troppi paradisi artificiali (televisione internet, etc) e siamo vuoti dentro. Fino alle scuole medie andavo di sera nelle case del paese, “in vegg”, e mi divertivo ad ascoltare le fole che raccontava mio padre ad esempio con altri paesani. O mia madre. E si scambiavano ricette di cucina scritte malamente sulla carta dello zucchero, oppure sferruzzavano o ti insegnavano a ricamare. Intorno ad un fuoco ed in questo periodo a mondine o balùs. Per i morti, a parte andare al cimitero, ero contenta perchè venivano i parenti da fuori (i miei da Perugia) a visitare i cari al camposanto e si soffermavano qualche giorno. Così ascoltavo “fole” nuove. Venderei l’anima al diavolo per poter rivivere quei momenti e poterli trasmettere ai miei figli! Grazie del tuffo nel passato!
(Mariapia Corsi)
Lasciare testimonianza di un mondo che sparisce è cosa di grande valore e raccontarla così bene è grande talento. Grazie Normanna Albertini, scrittrice. Gente nostra.
(Simona Sentieri)