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Detenuti: persone, non categorie

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Don Matteo Mioni

Nel pomeriggio di ieri, domenica 15 aprile, nel salone parrocchiale di Fontanaluccia (alto modenese ma diocesi reggiana), don Matteo Mioni, Fratello della carità, cappellano del carcere della Pulce di Reggio Emilia, ha tenuto un incontro sul tema “La realtà delle carceri”.

Non è stata una classica relazione informativa; o almeno non solo. Già dalle prime battute si è capito che per intendere appieno quello che don Matteo cercava di dire si doveva  tentare di abbandonare la logica umana  su quanto spesso si sente dire sul detenuto (come fosse una categoria umana e non una condizione vissuta diversamente, così come le persone sono diverse), sulla punizione, sulla detenzione come slogan del tipo “sbagli e paghi, nessuna pietà”.

La lettura del vangelo del Buon Pastore ci ha messo la prima parola: ragionare in termini diversi, di recupero ed attenzione alla persona che si è persa. E se anche questa persona continua a perdersi e non ce la fa a redimersi ad un corretto codice di comportamento, il buon pastore deve sempre aspettare e cercare e rallegrarsi qualora qualcosa cambi.

“In Italia la legge è avanzata”, dice don Mioni,  “quello che manca è la parte rieducativa, la riabilitazione e il reinserimento nella società”.

Diventa difficile per un detenuto avere il tempo e i mezzi per pensare all’errore commesso… rimane troppo concentrato su quando la pena finirà e spesso  vive nella prepotenza, confusione, mancanza di spazi (tre persone in 8 mq.) e di condizioni perché l’attenzione si sposti sulla riflessione. Spesso, quando il detenuto esce, è più scaltro di prima, perché “educato” dal sistema.

Queste alcune considerazioni per aiutare a comprendere che il carcere vissuto in questo modo non porta a nulla di buono. Anche se necessariamente le persone devono “pagare” per i loro errori. Il discorso quindi è: cosa significa “pagare”? Come si può vivere un carcere in modo che davvero il detenuto capisca l’errore commesso e non abbia più occasione di ricadervi, quando fuori?

Domande difficili, senz’altro, ma la risposta di don Matteo è chiara e scuote le coscienze: non è costruendo nuove carceri e lasciando i detenuti soli ad affrontare le proprie vite che si risolve il problema, ma è ascoltandoli, non etichettandoli come persi, diversi, contagiosi. E’ prendendosi cura di loro, andandoli a trovare, intessendo rapporti e relazioni e dando loro opportunità di cambiamento.

Don Matteo riferisce anche di mettere l’appartamento della parrocchia a disposizione di alcuni di loro nel difficile momento del reinserimento, per creare un clima di “Famiglia” e di fiducia.

Il messaggio finale è rivolto ad una apertura di cuore, ad un ascolto, ad una logica simile a quella del Buon Pastore. Tutto può partire da piccoli gesti: una lettera, un incontro, partecipare alla S. Messa insieme a loro, donare qualche soldo affinchè abbiano il necessario per lavarsi…

Il bello è capire che le grandi cose, spesso, nascono da piccoli gesti.

(Antonella Dallagiacoma)

 

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