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Chiesa di frontiera

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Le etichette sono sempre riduttive. Don Giacomo Panizza, classe 1947, originario di Pontoglio (Brescia), viene chiamato prete anti-'ndrangheta. È questo impegno che lo ha reso popolare in Italia, specie dopo la sua partecipazione alla trasmissione televisiva "Vieni via con me", di Fabio Fazio e  Roberto Saviano, nel novembre 2010. Un eccesso mediatico? No: don Giacomo è sottoposto ad un programma di protezione e ci sono malviventi che certamente lo preferirebbero sepolto piuttosto che attivo con i disabili della sua Comunità Progetto Sud, nel cuore di Lamezia Terme, per di più in una palazzina confiscata ad un clan tra i più efferati. Di "prete che ha sfidato la 'ndrangheta" parla del resto anche il sottotitolo del suo ultimo libro, "Qui ho conosciuto purgatorio, inferno e paradiso", scritto a quattro mani con Goffredo Fofi per l'editrice Feltrinelli. E il suo recente passaggio nel Reggiano, che lo ha portato anche ad un convegno a Casalgrande, s'inseriva giustappunto nei "Percorsi di cittadinanza e legalità", un lodevole progetto educativo promosso dal Consorzio "Oscar Romero". Ci sta tutta, allora, quell'etichetta, anche se rischia di schiacciare la persona su una sola dimensione. Ma è sufficiente incontrare don Panizza di persona per vedersi comparire davanti agli occhi tutte le altre "dimensioni". Per esempio quella di direttore della Caritas diocesana, che fa catechesi sulla tavola della Trinità di Rublev presentandola come "filoxenia di Abramo" ("È il contrario della xenofobia!", esclama illuminandosi); oppure quella di vicario pastorale, che tesse e rifà come Penelope il progetto quinquennale della sua Chiesa di adozione ascoltando vescovo, preti, diaconi, religiosi e operatori laici. Se ci fermassimo qui, ancora una volta ai "titoli", nessuno sospetterebbe l'anima ribelle di don Giacomo, la sua vocazione indubbiamente atipica, le accuse di maoismo e i processi che ha subìto dentro la Chiesa, più che fuori. Scomodo, come tanti intraprendenti per amore del Vangelo. Esuberante anche nel discorso, in cui apre e non sempre chiude tante parentesi di vita e di fede. Racconta dei 150 posti di lavoro che, insieme alla sua squadra di gente in carrozzina, rom e calabresi onesti, è riuscito a creare tra centri di riabilitazione per i distrofici e cooperative per la raccolta dei rifiuti porta a porta.

Alla fine del colloquio gli dico che vedo in lui, emigrante a rovescio, un po' del genio imprenditoriale bresciano messo a servizio del Mezzogiorno. Don Giacomo sorride e non rifiuta questa nuova "etichetta". Il resto cerco di metterlo in fila in quest'intervista. Ma, come ho provato ad avvisare, non è facile...

Don Giacomo, quand'è che ha iniziato a pensare di diventare prete?

All'improvviso. Avevo 22 anni e mi è entrata in testa l'idea di andare in seminario, insistentemente. Dopo appena un mese ero dentro, anche se sotto riserva...

Ma prima dei 22 anni?

Come tutti i bambini del mio paese giocavo a pallone e a ping pong, pescavo con i miei amici e frequentavo anche l'oratorio, ma non ero "di chiesa". Finite le elementari sono entrato in fabbrica, allora non c'erano le scuole medie. Adolescente ho conosciuto Anna, con cui siamo stati fidanzati per cinque anni. Poi la naja, il bar vicino alla zona del Carmine, con il quartiere "delle signorine". La sera mi fermavo spesso a mangiare un piatto di pastasciutta in un angolo di quel bar, perché avevo un amico che si era innamorato di una delle ragazze che poi uscivano a battere. Ricordo che i nostri parenti subivano le proteste dei parrocchiani perché insieme agli amici del vicolo usavamo come balera uno stanzone a cento metri dalla chiesa.

Niente, insomma, che facesse pensare ad una vocazione sacerdotale. E quando ha "sentito" quella chiamata improvvisa che cos'ha fatto?

Volevo conoscere, sperimentare la vita del seminario. Così l'ho detto al parroco di Pontoglio e lui mi ha accompagnato. La scena è stata più o meno di questo tipo: "Questo giovane vuole entrare in seminario, ma io non lo conosco". E aveva ragione...

È per questo che ha detto d'esser entrato in seminario "sotto riserva"?

Sì. I motivi "prudenziali" c'erano tutti. Al mattino, i primi tempi, arrivavo e chiedevo: "Dove sono i ragazzi?", cioè non mi veniva nemmeno da chiamarli seminaristi. Avevo tutto un altro modo di pensare.

E poi?

Mi sono messo a studiare con un gruppetto di "vocazioni mature": prima latino, francese, inglese, poi filosofia e teologia. Pian piano ho visto che mi trovavo bene, che amavo il mettermi a pregare e anche sullo studio m'è scattato un meccanismo strano nella testa per cui tutto quello che mi davano da leggere lo assimilavo. In seminario a Brescia mi hanno aiutato osservandomi ma rispettando la mia libertà,  dandomi gli strumenti per lavorare su me stesso. Gli ostacoli, semmai, li ho incontrati in famiglia, perché ho una sorella e tutte cugine e sono l'ultimo Panizza di Pontoglio... Ma io volevo andare per la nuova strada che stavo scoprendo.

Come ha incontrato il mondo della disabilità?

Ad un certo punto il Seminario mi ha chiesto un impegno maggiore di obbedienza e ho lasciato le frequentazioni serali degli amici nel quartiere malfamato delle prostitute. Mi hanno proposto di scegliere il servizio agli "handicappati", agli anziani o ai malati gravi. Così ho girato in lungo e in largo tra Lourdes, Capodarco, Oropa, scrivendo tesine... Il brano di vangelo che narra l'incontro tra Gesù e il cieco nato mi ha dato l'intuizione di stare nel giro dei disabili: capivo che in loro si manifestano le grandi opere di Dio.

Perché ha finito per emigrare da Brescia a Lamezia Terme?

Arrivato nella Comunità di Capodarco in "prestito" per cinque anni, frequentavo Teologia nel seminario di Fermo. Durante quell'esperienza sono passati di là prima un gruppo di boy scout di Bella di Lamezia Terme, per un campo di lavoro, poi un prete di Catanzaro. Era il 1976. E tutti portavano la richiesta di inserire decine di disabili nelle Marche perché in Calabria non c'era nulla. Al che in  comunità si è pensato di andare loro incontro, invece di spostarli. Serviva però qualcuno che provasse a costruire qualcosa di nuovo al Sud...

E quel qualcuno era lei.Ma l'impatto, a Lamezia Terme, non fu dei migliori...

La Comunità Progetto Sud, che oggi è un gruppo di gruppi, era nata come una "comune" autogestita  con una trentina di persone, la maggior parte delle quali con disabilità. Come prima sede avevamo  ristrutturato un ex asilo diroccato di Lamezia Terme, grazie ai 52 milioni di lire prestati dalla Comunità di Capodarco e regolarmente poi restituiti, senza interessi, in circa 8 anni. Come gruppo protestavamo e facevamo proposte perché alle persone con disabilità fosse riconosciuto nei fatti il diritto alla terapia riabilitativa. Arrivammo ad occupare la Ussl 17, cioè l'azienda sanitaria locale. In quel contesto di lotte sociali il vescovo, monsignor Ferdinando Palatucci, mi ha sempre difeso, mettendomi a disposizione il salone del seminario minore. Però in seguito alle occupazioni venni processato in curia con l'accusa di essere un prete "maoista"...

Condannato?

Dopo un'ora di dibattimento davanti a preti e democristiani il vicario episcopale che fungeva da accusatore ha chiesto scusa davanti a tutti. Diventammo amici.

Veniamo alla 'ndrangheta. Da bresciano, la conosceva già?

Per niente. Appena arrivato, vennero a trovarmi due ragazzi che chiedevano soldi per gli amici in carcere. Candidamente, risposi che quando andavo a confessare in carcere, i detenuti non mi avevano mai fatto quella domanda. Non avevo capito che era un modo per riscuotere il pizzo...

Poi però, 9 anni fa, sono iniziati i guai con una famiglia della 'ndrangheta. Perché?

La Comunità Progetto Sud aveva chiesto da tempo al Comune di Lamezia di poter utilizzare uno dei tanti beni confiscati. L'occasione buona venne quando il prefetto Dino Mazzorana gestì il commissariamento ordinario dell’ente comunale nell'intervallo tra due lunghi scioglimenti del Consiglio per infiltrazioni mafiose, accertate o potenziali. Il prefetto mi fece, proprio lui, uno "scherzo da prete": volle affidare alla mia Comunità la casa confiscata al clan più aggressivo, quello dei Torcasio, convinto che se fosse capitolato quello anche le altre famiglie avrebbero accettato l'esproprio.

E come andò?

Il prefetto mi accompagnò a vedere la struttura: occupanti compresi! Nel giugno 2002 avevo le chiavi della palazzina, ma nottetempo era stato montato un cancello e io ero costretto a suonare per entrare in casa mia, attorniato dalle altre case del clan e da insulti di ogni tipo. Non solo: tutte le volte che ritornavo alla nuova sede era scomparso qualcosa: una volta un termosifone, poi la vasca idromassaggio o il tavolo da biliardo. Dalla "confisca" non era mai stato fatto un inventario.

Chiese aiuto?

Due volte mi accompagnarono le forze dell'ordine, ma i Torcasio minacciavano di "far saltare in aria me e tutti i miei mongoloidi" anche davanti ai poliziotti. A quel punto mi è stato chiesto di diventare testimone di giustizia, cioè di sottoscrivere che le frasi che la polizia aveva udito e intercettato erano vere. E l'ho fatto. Le minacce di morte, anche dal carcere, si intensificarono, sicché mi hanno assegnato ad un programma di protezione. Uno di quelli che mi voleva morto, patteggiati 8 mesi di prigione, è stato ucciso a sua volta poco dopo che aveva scontato la pena.

È entrato in crisi?

Come prete no, come uomo sì. Le cose si mescolano. La paura per le minacce di morte si è trasformata in un sogno ricorrente: un uomo è inseguito da due persone armate. Alla fine si accascia stremato e i due lo raggiungono, lo squadrano e gli sparano, poi si eclissano. Io mi avvicino e mi chino sull'uomo ucciso: ha il mio volto.

Da rabbrividire. Ma la 'ndrangheta, secondo lei, sta cambiando pelle?

Credo che rispetto al passato la 'ndrangheta non cerchi più di sottomettere tutta la città incutendo paura; le basta controllare quel 12-15% di voti che le fa allungare le mani su appalti, fondi europei, infrastrutture, tutto ciò che passa attraverso decisioni politiche e uffici pubblici. Oggi hanno capito che possono farlo meglio e che al Nord è relativamente facile trovare affari puliti in cui riciclare i soldi sporchi. Certo, la 'ndrangheta non è mai solo business: è una questione di soldi, potere e violenza insieme. E se qualcuno sgarra, viene fatto "ragionare" anche al Nord...

(Edoardo Tincani – Tratto dal settimanale diocesano “La Libertà” del 15 ottobre 2011)