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Delle antiche chiese ed oratori di Cola

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Pubblichiamo l'articolo che segue, tratto per gentile concessione del parroco don Carlo Castellini dal periodico dell'unità pastorale di Vetto.

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Trattiamone brevemente, con un titolo un po' sontuoso, copiato da quel grande storico della Chiesa reggiana che fu il canonico Giovanni Saccani. Siamo infatti abituati a parlare della chiesa di Cola, ma, anticamente, nel territorio di Cola di chiese ne avevamo ben tre: dei Santi Martiri Quirico e Giulitta, di San Michele in Giandezzo, di San Martino a Groppo.
La collocazione in posizione centrale nel territorio del gastaldato longobardo di Bismantova (una lunga striscia che tutto indica accompagnare la viabilità antica da Parma a Lucca passando per Bismantova e quindi ai valichi dell’Appennino) lascia lecitamente supporre che le chiese di Cola risalgano a prima dell’anno Mille, così come la loro stessa “matrice”, cioè la Pieve di Bismantova documentata già nel 980. Di questo parere è anche lo storico di Cola monsignor Francesco Milani.
Per leggere un documento che parli esplicitamente delle chiese di Cola dobbiamo però risalire a un documento, non datato ma riferibile a non dopo l’anno 1164 (circa) che narra di fatti ed eventi avvenuti al tempo del vescovo di Reggio Adelelmo (1123-1139), dunque ad anni immediatamente successivi alla morte di Matilde di Canossa. Il documento ci descrive una situazione di parrocchialità ancora fluttualmente, con alcune borgate (Rodogno e Tizzolo) che, essendo a mezza strada, non si sa ancora con certezza se appartengano a Cola o a Vetto. Secondo un testimone, gli homines (capifamiglia) di Rodogno ricevono dalla Chiesa di Vetto il battesimo e in essa hanno il diritto di sepoltura; nello stesso tempo pagano i tributi alle due chiese di Cola, quella del castello e quella di Giandezzo. Similmente, secondo un’altra testimonianza, gli homines di Tizzolo sono parrocchiani di Cola in tutto e per tutto.
Il documento ci dice dunque in maniera molto chiara che in quegli anni esistono in Cola una chiesa "del castello" ("de castro", corrispondente a quella dei Santi Quirico e Giulitta, e una chiesa di "Giandezzo" ("de Glandezo"), località ancor oggi nota col nome dialettale di "Giandés" . Secondo l’opinione di monsignor Milani, già da quegli anni la vita parrocchiale appare svolgersi normalmente, pur non essendoci prove che il parroco, ormai già di norma designato dall’arciprete della Pieve di Bismantova, risieda in Cola.
La chiesa dei Santi Quirico e Giulitta, ovvero "del castello"
Partiamo dalla Chiesa dei Santi Martiri Quirico e Giulitta. Il loro culto ebbe larga diffusione nelle Chiese orientali dei primi secoli. Un culto particolare avevano nella cappella di San Michele in Costantinopoli. E' un sicuro indizio di antichità anche della nostra parrocchia, come lo è di una chiesa in Garfagnana della quale lo storico Lorenzo Angelini scrive: «Il titolare San Quirico, il cui culto è sicuramente di provenienza orientale, ci conduce all'epoca anteriore all'invasione longobarda, con tutte le conseguenze storiche che se ne possono dedurre sulla diffusione e l'organizzazione del Cristianesimo nella zona». In Diocesi di Reggio solo due altre chiese hanno questa dedicazione (San Romano di Baiso e Villa Minozzo).
Dire che questa chiesa era quella "del castello" può significare: a) era la chiesa della giurisdizione civile di Cola; b) era la chiesa collocata dentro a un castello.
La seconda ipotesi (che non esclude la prima) è molto interessante e, al confronto di altri dati, molto attendibile. Il luogo in cui essa sorge ha, ancor oggi, tutte le caratteristiche del luogo fortificato; è circondato da tre lati da alti scoscendimenti (attutiti in tempi vicini a noi); dal quarto lato, a sud, si apre su un prato; la contigua canonica ha ancora un locale sotterraneo a volta che richiama a prima vista tipologie costruttive castrensi.
La disposizione è tipica di tanti altri castelli appenninici nei quali abbiamo una parte alta (la rocca, in vetta) fortificata e una parte bassa (il borgo) adibita ad abitazione di diverse famiglie.
Abbiamo le migliori ragioni per dire che questo è il castello di Brigenzone, quello in cui abita il famoso Ferrario che nel 1175 se ne va a Costantinopoli (una città, stranamente per la nostra storia, centrale nel culto dei Santi Quirico e Giulitta). Egli, per di più, si dichiara di nazionalità "romana" e il culto di questi Santi è tipico della cristianizzazione romana e romano-bizantina. Qui abita anche quel Leonardo da Brigenzone che il 10 aprile 1198 cede terre, fortezze e castelli da lui possedute nel territorio reggiano al podestà di Reggio, Baylardo. Finora la storiografia ha immaginato il Castello di Brigenzone sul monte che sovrasta il cimitero di Cola. Ma lassù ci poteva essere lo spazio abitativo richiesto dalla famiglia (moglie, figlio, servi, abitazioni e case rusticali) di Ferrario e dei suoi antenati, quali emergono dalle sue carte testamentarie? E' molto difficile sostenerlo. Forse c'era una semplice torre di osservazione o una rocca nella quale cercare un estremo rifugio nell'imminenza di un pericolo.

Il dialetto di Cola ci dà una ulteriore conferma che "Brigenzone", non è il monte, ma il castello da cui il monte dipende. In dialetto, infatti, non si diceva "Monte Brigenzone", ma "Monte di Brigenzone" (Mùnt ad Berghinsùn).
Se ammettiamo che il castello si trovasse dov'è ora la chiesa, immediatamente sotto troveremmo la "corte", cioè la sede amministrativa del territorio. Avremmo così anche la spiegazione del nome "Corte" che contraddistingue il borgo sottostante alla chiesa.
La tipologia di un insediamento simile non era per nulla rara nel medioevo. Ne abbiamo un altro esempio nella località carpinetana di Mandra, con castello, chiesa e borgo in uguale correlazione, come emerge dallo studio recente di Arnaldo Tincani.
Potremmo dire che quella dei "Signori di Groppo e Brigenzone", di stirpe romana, sia una famiglia che sopravvive dalla lontana invasione longobarda, probabili vassalli e “milites” del vescovo di Reggio. Il fatto si accorderebbe con la prevalente toponomastica latina di Cola (Casella, Villa, Brolo, Predella, Valle, Vallo, Caveriola, ecc.).
Per avere la prima notizia di una fortificazione sicuramente collocata sul Monte di Brigenzone dobbiamo attendere il 1314, allorché i Reggiani preparano un esercito per distruggere questo castello (una torre, una cisterna, poco più) nel quale Giacomo dalla Palude, la cui famiglia si era sostituita a quella di Ferrario nel dominio di Crovara e Brigenzone, teneva prigioniero il reggiano Bertolino Ruini.
Questo il castello distrutto dai reggiani nell'estate del 1314, con tanta rabbia perché si trovarono a dover combattere più contro l'astuzia che contro la potenza militare di Giacomo. Ricorderemo l'episodio delle armi rubate da Giacomo al comandante reggiano Ciaccio dei Maltagliati.
Sui ruderi di questo castello, mai più ricostruito, è nata la leggenda del tesoro nascosto e dei vari "spiriti".

Sarà questa la chiesa che avrà la cura pastorale degli abitanti di Cola i cui sacerdoti avranno il titolo di “rettori”. Il loro elenco, dapprima incerto e lacunoso fin verso il Concilio di Trento (1545-1563) , segna questi nomi:
- Gerardo da Cola: compare in un documento del 1288 come giudice in una questione riguardante la pieve di Fogliano;
- Giberto, secondo un documento del 1301 dà il possesso al nuovo parroco di Gottano;
- Gerardo, rettore nel 1318 allorché paga alla Santa sede tre soldi reggiani per la decima;
- Baldissera, rettore nel 1462;
- Giovanni Perfetti di Cervarezza, rettore fra il 1471 e il 1488;
- Bartolo Ruffini del Sole (borgata di Vetto), rettore dal 1488 al 1494;
- Domenico del Sole, dal 1494 al almeno il 1537;
- Giovanni Maria di Ca’ de Ricci (Vetto) indicato come rettore dalla visita pastorale ordinata dal vescovo di reggio cardinale Marcello Cervini nel 1543. La visita riscontra anche un grave stato di incuria della chiesa;
- Domenico Canova, rettore nel 1561;
- Giambattista Boccalari, segnalato come rettore dalla visita del vescovo Claudio Rangone nel 1594. E’ questo vescovo che impone di costruire la casa canonica così che il parroco possa risiedere in paese, accanto alla chiesa. Ma don Giambattista preferisce abitare spesso presso i suoi alla Villa o al Maore;
- Domenico Rosa, del Brolo (1624-1652), morto in quel di Valbona sotto una bufera di neve, mentre conduceva alcune manze al mercato di Fivizzano;
- Achille Rosa del Brolo (1653 – 1678):
- Giuseppe Grimelli (1714 – 1730);
- Giuseppe Azzolini (1730-1734);
- Giuseppe Nobili (1734 – 1756), benemerito per il “restauro” morale e materiale della parrocchia; svolge anche le funzioni di maestro di scuola per i bimbi del paese;
- Quirico Rosa del Brolo (1756 – 1797);
- Giuseppe Valcavi (1797 – 1820), benemerito anche lui per fare da maestro, gratuitamente, ai bimbi del paese;
- Pietro Munarini (1820 – 1842);
- Giuseppe Pagani di Rodogno (1842 – 1883), restauratore della chiesa nel 1854;
- Aurelio Camurani (1884 – 1898);
- Severino Beneventi (1899 – 1912);
- Guerrino Ferrarini (1902 – 1947). Poiché nel 1902 don Severino era stato ricoverato all’ospedale psichiatrico per malattia mentale, don Guerrino assunse la cura della parrocchia, mantenendosi del suo e di quanto gli offriva la famiglia Azzolini di Voglione fino al 1912, allorché, perduta ogni speranza che don Severino guarisse, divenne ufficialmente parroco;
- Vasco Casotti (1947 – 1988);
- Pietro Leuratti (1988 – 1996)
- Gianni Manfredini (1996 – 2000);
- Gianni Bigi (2000 – 2001)
- Carlo Castellini, rettore attuale.

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La chiesa di Giandezzo, alias di Monteròssolo

La chiesa di Giandezzo è ricordata ancora nelle tradizioni orali di Cola. I vecchi ricordano che dentro vi era un "coccodrillo" imbalsamato, oppure che fu distrutta da un enorme "serpente". Sono tutti elementi che ci rimandano al culto di San Michele, vincitore del "drago" infernale, cioè di Satana .
Giandezzo è un po' più a valle dell'attuale Monteròssolo (Munt-Róssl), ma ancora ben vicino (poche centinaia di metri) per poter affermare che la chiesa di Giandezzo sia la stessa di Monteróssolo, una chiesa della quale abbiamo notizie già nel secolo XII, dedicata allo stesso santo, proprietà della chiesa di Reggio che l'aveva data al monastero cittadino di San Prospero.
Gli storici reggiani, ignari di tale località che non compariva sulle carte allora disponibili, si sono sbizzarriti a cercare di capire dove fosse questa antica chiesa collocata nella curia di Bismantova. Il Saccani la suppponeva "seriamente" presso Carnola, ai piedi della Pietra.
Monteròssolo di Cola ha tutte le carte in regola per dirsi luogo di questa chiesa: è in fronte alla Pietra; la dedicazione a San Michele coincide con quella che la tradizione - correttamente interpretata - attribuisce alla chiesa scomparsa di Cola, sita appunto in Giandezzo, come ricorda anche il Milani, presso un antico borgo chiamato appunto Monte Ròssolo.
Nel 1132 ci fu una famosa controversia tra l'Abate di questo monastero e l'arciprete di Campiòla (o Bismantova, Castelnovo ne' Monti) per i diritti su questa chiesa e sui suoi possedimenti terrieri. Il Papa nominò tre commissari perché ascoltassero e giudicassero: Giovanni, abate di Marola; Federico, arciprete di Carpi e Rodolfo, prevosto di Carpineti. Essi sentenziarono che la chiesa era proprietà del monastero, ma che il suo rettore dovesse far parte dei "canonici" della Pieve e quindi dipendere dall'arciprete.
Nel 1313 ha una rendita di sei lire, ponendosi come terza nella graduatoria dei redditi fra le 18 chiese dipendenti dal monastero .
Su questa chiesa ci sono numerose notizie fino al secolo XVI. Poi inizia la decadenza. Gli anziani nati alla fine dell’Ottocenti ricordavano di avere visto, in Giandezzo, il cumulo delle sue rovine ed è tradizione che il suo portale, in pietra finemente lavorata, sia stato, in anno imprecisato del 1800, trasferito in una casa del vicino borgo di Corte, scalpellandone lo stemma nella chiave dell’arco ed altri emblemi. Ritenendo attendibile questa tradizione, la forma ultima di questa chiesa doveva essere quello di una grossa maestà (o di un piccolo oratorio) aperta per rifugio dei viandanti, come ancora si vede in Garfagnana.

La Chiesa di San Martino in Groppo

La dedicazione della Chiesa di Giandezzo (o di Monteróssolo) a San Michele, offre nuove e inedite informazioni sul territorio antico di Cola. Di fronte ad essa, infatti, a Groppo, sorgeva un'altra chiesa dedicata a San Martino. La contrapposizione delle due chiese così dedicate costituisce un'altra tipologia caratteristica dell'età longobarda che ci rimanda al famoso gastaldato di Bismantova (secc. VI-X) e, con ogni probabilità al problema della via romano-longobarda da Parma a Lucca.
«San Michele - scrive ancora l'Angelini - sarebbe il santo dei Longobardi ariani, così come San Martino sarebbe il titolare dei Longobardi cattolici. Casi di vicinanza "a confine" dei due titolari sono presenti ... proprio in località di valore strategico».
Poco distante, poi, troviamo Regnola (Argnóla), probabile trasformazione del termine "Arimmaniòla", piccolo insediamento di arimanni, cioé "uomini" longobardi liberi e armati: in questa zona, infatti, a nord di Cervarezza, un documento del 1106 indica terreni di proprietà di una a noi ignota arimannìa "de Ruvitico" .
Se pensiamo, per continuare con l'Angelini, che «il culto di Sant'Andrea - al quale è dedicato Garfagnolo, lì vicino - fu caratteristico dei missionari orientali che mossero alla conversione dei Longobardi», la tipologia longobardo-bizantina del nostro territorio parrocchiale ritorna per intero, in modo veramente sorprendente.
Abbiamo documenti scritti che riguardano Groppo negli anni:
- 1112: Osterenda, figlia di Manfredo da Groppo, dona terre alla pieve di Campiola;
- 1175: Ferrario da Brigenzone possiede terre contemporaneamente a Groppo e a Giandezzo;
- 1184: nella “chiesa di San Martino di Groppo” ) la prima volta che viene nominata col suo titolare) è luogo in cui viene rogato un atto con il quale gli homines di Groppo danno terre in concessione perpetua all’abate di Marola;
- 1199: il longobardo Aldegerio dona XII denari alla chiesa di Groppo) .
E' difficile dire dove si trovasse la chiesa più antica. Il terreno di Groppo è notevolmente instabile e, col passare dei secoli, la chiesa ha subìto diverse ricostruzioni. Nel 1575 risulta crollata, tanto che, nella visita pastorale di quell’anno, il vescovo ingiunge di abbatterla del tutto lasciandovi sul posto una croce a ricordo. Disposizione non applicata perché la chiesa venne ricostruita una prima volta. D’una seconda riucostruzione abbiano notizia nella visita pastorale del 1752, dove leggiamo che «l'oratorio di San Martino di Groppo, di proprietà della villa, è stato recentemente ricostruito ed è abbastanza ben conservato». Quella proprietà attribuita alla villa, cioè all'intero paese, e la dedicazione ci dicono che l'oratorio si ricollega direttamente alla chiesa antica.
A partire dal 1791, in obbedienza a una direttiva del vescovo, nell'oratorio si tiene l'insegnamento della dottrina sia per i ragazzi che per gli adulti, pur senza eccessiva regolarità. Anche a Groppo, infatti, si sono sacerdoti che vivono in famiglia come, nella seconda metà del '700, un certo don Francesco Ruffini.
Probabilmente è questo del '700 l'oratorio che compare ancora in una bella fotografia di don Milani, scattata forse prima della guerra, con tanta gente - più di cento, e tanta gioventù - che esce dalla Messa.
L'oratorio attuale, come noto, è stato ricostruito da don Vasco sul finire (salvo errori) degli anni cinquanta.

Gli “oratori”

Oratorio: luogo di preghiera e di culto liturgico; minuscola chiesa collocata sulla porta di quella minuscola città che è il borgo rurale. La sua presenza diceva che quell'agglomerato di case, dove le stalle si confondevano con le abitazioni, non era un agglomerato qualunque di esseri umani, ma una comunità dotata di un ordinamento civile fondato innanzitutto sulle leggi di Dio, che volevano dire convivenza fraterna, accoglienza, rispetto della vita e della natura.
Le parole sono forse di un poeta, ma rispecchiano fedelmente il significato di quegli oratori che ancora catterizzano tante borgate del nostro territorio. E se anche, talvolta, intorno ad essi, ritroviamo fatti curiosi (talvolta anche liti e contrasti) per un lascito, per una donazione, per un "legato" di messe, aprendo però con tutta obiettività le pieghe di quella storia vi ritroviamo il cammino, non sempre facile, di persone, gruppi famigliari e vicinali che delineano la propria identità costituendosi in comunità, dandosi norme, assumendo impegni.
Viene così a costituirsi un codice di vita civile, non sempre rispettato per causa della fragilità della natura umana, ma la cui trasgressione è percepita come offesa alla convivenza - oltre che a Dio - e quindi come comportamento da superrare con un impegno educativo comunitario.
La storia degli oratori, anche quando si fonda su pochi documenti, attinge a un substrato culturale, civile e religioso molto complesso. E' vero che nella sua sostanza è un fenomeno religioso, ma si basa su valenze etniche e antropologiche perché, da che mondo è mondo, ogni comunità umana ha bisogno, per costituirsi e garantirsi, di un fondamento religioso. Così era degli imperi, così era delle famiglie e dei borghi.

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Nella nostra storia, l'"oratorio" è vecchio quanto il cristianesimo. Risponde al bisogno della preghiera, colloquio con Dio, ma anche momento di riflessione su noi stessi, sui nostri problemi, sulle nostre gioie, sui nostri dolori. Nell'ambito famigliare era ed è risolto con la presenza di immagini sacre (icone di Gesù crocifisso, della Madonna, dei santi). Solo in famiglie abbienti era risolto anche con apposita stanza dell'abitazione.
E poiché la preghiera era un fatto essenzialmente comunitario, richiamato pubblicamente da scadenze quotidiane, settimanali, stagionali e annuali, e poiché la famiglia era allargata a diversi gruppi parentali, il "luogo della preghiera" si trasformava in vero e proprio edificio. Sono le "Eigenkirche" ("chiese proprie") dei Longobardi; sono le "cappelle" dei borghi rurali che, a, partire dai secoli XII-XIII, mediante un graduale distacco dalle Pievi, iniziano a trasformarsi nelle parrocchie odierne.
Alcune di queste cappelle - il cui edificio rimaneggiato da continue manutenzioni perde molto spesso il suo carattere originario - non avranno la trasformazione in parrocchie e resteranno "oratori". E' il caso di Groppo, per citare un esempio. Altre scompariranno del tutto, sorte toccata, come abbiamo visto, alla chiesa di Monterossolo in Cola.
La maggior parte degli oratori attuali risale ai secoli XVII o diciottesimo. Il numero massimo dovrebbe (forse) essersi toccato alla fine del 1700. Una nota dell'arciprete di Castelnovo, datata al 1796, elenca un totale di 57 oratori racchiusi nelle 22 parrocchie del suo Vicariato.
Cola ne ha cinque: in Vallo, alla Casella, al Brolo, a Rodogno. A Groppo, abbiamo visto, l’oratorio continua la storia dell’antica chiesa di San Martino. Vediamo, in sintesi, gli altri quattro.

Oratorio di San Bernardino in Rodogno

L'antichità del borgo è testimoniata dal documento non posteriore al 1164 che già abbiamo visto e che, riguardando fatti avvenuti almeno una generazione prima, ci testimonia in Rodogno un borgo popolato e attivo in piena età matildica. In questo documento un certo Guido Viscoso, con ogni probabilità residente nel borgo, testimonia che la popolazione di Rodogno riceve il battesimo nella chiesa di Vetto, ma la sepoltura in Cola, dove corrisponde primizie e decime alle due antiche chiese del luogo.
Nel borgo sopravvivono ancora tracce di antichità, non certo matildiche per quel che si vede, ma attestanti una popolazione di agricoltori e di artigiani di ottimo livello, già a partire dal secolo XV fino al secolo XVIII.
Al centro del borgo sorge l'oratorio dedicato a San Bernardino da Siena, il francescano che, nella prima metà del '400, si rese famoso in tutta Italia per le sue prediche popolari, dal linguaggio semplice e arguto, che richiamavano folle immense ad ascolatarlo.
Egli era particolarmente eloquente quando parlava del Nome di Gesù alla cui devozione diede grande impulso soprattutto diffondendone il così detto "trigramma" (IHS = Jesus Hominum Salvator = Gesù Salvatore degli Uomini), incorniciato in un cerchio fiammeggiante.
Egli lo faceva scolpire o dipingere in luogo degli stemmi o di altre raffigiutazioni di carattere pagano. Da allora ebbe larga diffusione anche nella nostra montagna, non solo sulle chiese, ma anche sugli stipiti di porte e finestre.
L'oratorio attuale in Rodogno, del tutto moderno, è stato ricostruito da don Vasco Casotti in sostituzione di quello settecentesco del quale abbiamo ritrovato i dati di fondazione.
E' nel 1730 che gli uomini di Rodogno decidono di fabbricare un oratorio in onore di San Bernardino da Siena. Sfugge il motivo particolare di questa dedicazione. In data 9 maggio di quell'anno ne ottengono l'autorizzazione dal Vescovo di Reggio Lodovico Forni, il quale - a norma del sinodo Bellincini del 1699 - impone il consueto l'obbligo di dotare poi l'oratorio di un beneficio che ne garantisca la manutenzione dell'edificio e degli arredi sacri.
Il 15 maggio 1731 i quattordici capifamiglia di Rodogno si riuniscono in casa di Cesare Pagani e, alla presenza del conte Troilo Palù arciprete di Castelnovo, donano ciascuno una pezza di terra, più o meno grande a seconda della rispettiva disponibilità economica.
La dote dell'oratorio risulta così composta di 17 pezze di terra, situate in parte al Sole di Sotto, a Rodogno e altrove, assommanti complessivamente a circa 7 biolche e mezzo, per un estimo di 191 scudi.
Ciò fatto, l'arciprete poteva benedire l'oratorio e darvi inizio alla celebrazione della Messa, avendone gli abitanti del borgo tante buone ragioni, soprattutto per la distanza dalla chiesa parrocchiale.

Oratorio di San Francesco Saverio al Brolo

Il nome del borgo richiama bellezza e abbondanza, poiché Brolo significa giardino, orto, verziere. Il luogo è esposto al sole; le rocce che lo sovrastano a nord lo proteggono dai venti e trattengono calore utile alle coltivazioni invernali; l'acqua abbondante garantisce anche nelle più secche estati l'umido necessario alle verdure.
Sopra al Brolo, la Predella, cioè la "Piccola Pietra", un luogo naturalmente fortificato che forniva sicurezza e protezione. I due borghi costituiscono un insieme tipico del vivere antico. Per lo storico sono un libro aperto che invoglia alla lettura; che lascia immaginare come il Brolo si sia sviluppato attorno agli orti che garantivano il cibo agli abitanti della Predella.
In più, il Brolo risulta attraversato dalla via principale che proveniva da Radogno, attraversava la Casella e la Villa, raggiungeva Corte, la Chiesa e proseguiva verso Voglione. Quando Cola era centrato su questa strada (fin verso il 1870), questo borgo era tra i più caratteristici del paese. Alla sua fontana si fermavano i viandanti, subito circondati dalla gente desiderosa di ascoltare notizie.
La sua "urbanistica" è ancora chiaramente leggibile nella disposizione delle case che, nonostante l'adeguamento ai nuovi tempi, lasciano intravvedere la tipologia originale a balchio, con le stalle al piano terra, l'ingresso e l'abitazione al piano superiore, con i cortili chiusi e murati.
Un borgata di tanto rispetto, benché abitata da non oltre una decina di famiglie, trovava il suo pieno assetto comunitario intorno all'oratorio. Il primo oratorio del Brolo lo troviamo infatti, in un estimo seicentesco, proprietà di Leone Rosa e dedicato alla Madonna del Caravaggio.
La visita pastorale del 1752 ci dice che l'oratorio del Brolo, ispezionato dall'arciprete di Castelnovo, don Troilo Palù, è proprietà di Giuseppe Rosa ed è dedicato a San Francesco Saverio (1506-1552); «forse il più grande missionario dai tempi di San Paolo», dicono gli storici della Chiesa).
L'arciprete lo dice "ben costruito" e questo termine ce lo fa immaginare come edificato da poco tempo, succedaneo forse al precedente oratorio.
Da un'altra visita del 1815 sappiamo che l'oratorio, di proprietà ora dei fratelli Giuseppe, Domenico e Giovanni, era sospeso; non vi si poteva più celebrare per il cattivo stato dell'edificio, della manutenzione e degli arredi. Comincia forse qui la sua decadenza, compiuta con la chiusura definitiva già entro il 1851.
La gente ha ancora ben vivo il ricordo di questo oratorio, collocato nella parte alta del borgo dove appunto sorgevano le case dei Rosa.
Quella dei Rosa era una famiglia di rango. Nell'estimo seicentesco sopra citato Leone Rosa, abitante al Brolo con altre sette famiglie, risulta possessore di quattro case ciascuna con stalla aia e fienile e oltre 80 biolche di terra, probabilmente la più ricca dell'intera parrocchia. Per fare un confronto, il beneficio parrocchiale possedeva soltanto 24 biolche e 10 quello delle Confraternite che, pure, mantenevano la chiesa.
Tra i suoi possedimenti risulta anche un oratorio dedicato alla Madonna del Caravaggio. Aveva ragione don Milani a chiedersi, nella sua storia di Cola, se mai questa famiglia potesse avere a che fare con i nobili della Rosa, signori di Sassuolo.
A questa famiglia dobbiamo diversi preti, tra i quali anche quattro rettori di Cola i quali ressero la parrocchia per complessivi 130 anni. Altri preti la famiglia diede ad altre parrocchie, sia come parroci che cappellani.
La famiglia si estinse nel 1938 con la morte di don Giovanni Rosa, parroco benemerito di Pieve San Vincenzo dal 1894.

Oratorio dell'Annunciazione in Vallo

Visto dalle alture di Cola, Vallo sembrava una freccia puntata verso il rio Atticola. E della freccia aveva l'articolazione quasi militare di borgo fortificato, come ci dice il suo nome. Due soli ingressi, una torre rimasta nel ricordo dei vecchi, da ogni parte scoscendimenti che lo rendevano imprendibile.
Insieme al Castellaro, a Corte, a Valle, a Voglione faceva parte d'una cortina di borghi la cui storia è sepolta nel tempo. Chissà mai se riusciremo a ritrovarla.
A metà del '600 vi abita la famiglia di Domenica Curini. Nel 1717, un suo nipote, Nicolò, figlio del fu Pellegrino, decide di costruire un oratorio acanto alla sua casa, nella parte sud del borgo, accanto all'aia su cui dà uno dei due ingressi del borgo. Ha il consenso del rettore di Cola don Giovanni Grimelli. Lo dedica a San Giuseppe.
L'oratorio è costruito a norma delle costituzioni sinodali: ha l'ingresso sulla via pubblica, è staccato da ogni casa di abitazione, è di struttura decente. Nicolò può costruirlo a regola d'arte perché la sua è una famiglia per quei tempi ricca e benestante; egli stesso riveste il grado di sergente nelle milizie estensi.
Solite le motivazioni: grande distanza e strada malagevole per recarsi alla parrocchia.
A costruzione ultimata, nel febbraio 1718, il sergente Nicolò, infatti, chiede licenza di potervi far celebrare una messa al mese. Per ottenere questo permesso e la relativa benedizione dell'oratorio, in ossequio alle norme sinodali, egli deve creare una dote con la quale mantenere con decenza l'oratorio, acquistare gli arredi sacri (paramenti, messali, calice ecc.) e pagare l'offerta al celebrante.
Per far questo, con rogito del 25 marzo 1718 costituisce una dotazione di tre pezze di terra (una a Groppo, una alla Vallicella di Cola, una Casella) di rendita tale da garantire le richieste sinodali. Per sua volontà le terre restano in godimento alla sua famiglia e ai suoi eredi, ai quali però resta l'impegno del mantenimento dell'oratorio e della celebrazione di una messa mensile, in perpetuo. L'impegno assunto è "sub pena dupli": se Nicolò o i suoi eredi non manterranno l'impegno, pagheranno una multa pari al doppio della rendita della dote.
L'atto viene stilato dal notaio Ippolito Moretti nella canonica di Nigone, sotto l'autorità del Vicario Foraneo don Pietro Bertoldi, alla presenza dei testimoni caporale Paolo Bombardi e Gianfrancesco Borzacchi delle Teggie.
L'oratorio ebbe in seguito vicende alterne: periodi di floridezza (come sotto don Andrea Curini che vi celebrava quotidianamente) e momenti di decadenza che portarono al suo abbattimento. Vicende delle quali parleremo appena gli archivi (e la memoria degli anziani) ci restituiranno altre notizie.

Oratorio di Santa Maria Maddalena alla Casella

Benché i rifacimenti degli ultimi anni abbiano cancellato molto della della sua antichità, il borgo della Casella di Cola contare la sua età nella cifra dei secoli.
Il Castellaro, lì accanto, col suo nome e con la sua forma di castello naturale al centro di una valle, non manca di nessuna delle tipologie solite richiamare l'attenzione degli studiosi di storia e preistoria. Nel 1426 è tra le località della montagna (insieme con la chiesa di Gottano) che i funzionari estensi propongono di fortificare per farne luogo di difesa ultima della popolazione .
Caveriola, poco distante, con il suo nome contenente l'idea di protezione e di sorveglianza (proprio come la "caveriana" che sovrasta e protegge la ruota del biroccio) ci richiama un periodo in cui il territorio era dominato e organizzato da popolazione di lingua latina.
I documenti più antichi di questo borgo ci segnalano il nome di due "homines" (= capifamiglia), Gerardino e Ugolino della Casella che nel 1197 abitano a Castelnovo in quello che oggi definiamo il "centro storico", del cui comune in quel momento faceva parte la parrocchia di Cola. Con loro, infatti, figurano altri personaggi di Cola: Enrichetto, Lambertino, Gandolfino, Guidolino, Ugolino, Guizolo, Pizo, Bobulco e Gerardino da Corte; Bernardo da Valle e altri.
Istituita l’abbazia di Marola (1102-1106) e largamente dotata dalla stessa fondatrice Matilde di Canossa, essa possiede terre e case a Cola dove pianta anche il grande castagneto che dà il nome al monte omonimo lì vicino. Il nome della borgata (“Casella”) lascia supporre che essa sia al centro di questi possedimenti abbaziali, quegli stessi che vengono diustrutti nel 1226 con grave perdita di bovini e suini.
Nel secolo XV il più famoso notaio della Lunigiana, i cui atti sono oggi attentamente studiati per la storia di quella regione, si chiama Baldassarre, figlio di Jacopo del fu "ser Corsino dei Nobili di Colla, diocesi di Reggio, ossia Castellaro».
La parrocchia di Cola è sulla strada che da Parma va al Golfo di Lerici, di primaria importanza - nel medioevo - per i commerci con Marsiglia e il sud della Francia. E proprio da Marsiglia viene il culto di Santa Maria Maddalena che, su questa strada, ha una diffusione particolare: il Ventasso, Castelnovo, Cerezzola e altre località ora in provincia di Parma.
A questa santa è dedicato anche il ben più recente Oratorio della borgata.

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Nel 1768 era parroco di Cola don Quirico Rosa, della nota famiglia del Brolo. Sono anni nei quali le famiglie del paese (Ruffini, Genitoni, Curini, Pagani, Galassi, Corti ....) ritengono onore e vanto avere un sacerdote in famiglia e, possibilmente, anche un oratorio. Nel 1751 sono otto i preti e sei i chierici, aspiranti a ricevere gli ordini sacri.
Risultano tutti di buona condotta, come annota la visita pastorale. Poteva facilmente accadere, infatti, che qualche giovane venisse spinto a farsi prete solo per godere le rendite di un beneficio ecclesiastico; dunque più per "sistemazione" che per vocazione.
Fra questi anche un Francesco Ruffini della Casella, la cui famiglia, nel 1768, ricostruisce la propria casa al centro del borgo. L'edificio, giunto pressoché inalterato fino a pochi decenni or sono, dava ben a vedere che la famiglia era di larga disponibilità economica e di buona cultura.
Al piano terra, don Francesco chiede e ottiene l'autorizzazione vescovile a ricavarvi un oratorio. Seguendo la normativa del tempo, gli viene imposto che l'oratorio, per essere pubblico, non abbia alcun collegamento con la casa d'abitazione e la sua porta si apra direttamente sulla strada pubblica.
La scelta di costruire l'oratorio al piano terra della casa è abbastanza insolita. Potrebbe indicare il timore che, costruendolo fuori del borgo, potesse non risultare adeguatamente protetto dalle insidie di una strada allora molto battuta da viandanti forestieri.
Abbondante e ricca anche la dotazione degli arredi comprendente tutto il necessario per la celebrazione della messa, un quadro su tela rappresentante santa Maria Maddalena, sei candelieri.
A costruzione ultimata, attenendosi scrupolosamente alle norme sinodali del tempo, don Francesco dona all'Oratorio una biolca di terra prativa detta ai Vignali, in quel di Groppo. Gli "estimatori" comunali di Cola, Lorenzo e Pancrazio Ruffini di Groppo, la stimano capace di una rendita dominicale annua di 24 lire reggiane.
L'atto è rogato dal notaio Giovanni Franceschini nella sua casa di Burano alla presenza dei testimoni Vincenzo e Francesco Bedini da Mozola il 17 dicembre 1768. Avuto il rescritto vescovile, don Francesco inizia finalmente a celebrare messa nel suo oratorio. E siamo al 23 gennaio 1769, come dice la lapide in marmo sulla porta d'ingresso: «D.O.M. / Sacellum hoc / Divae Mariae Magdalenae / sacrum / Franciscus Ruffini / Sacerdos / aere proprio / funditus erexit / Kalendas Februarii / MDCCLXIX». Tradotta, vuol dire: «A Dio ottimo massimo. Questo Oratorio sacro a Santa Maria Maddalena, il Sacerdote Francesco Ruffini eresse totalmente a sue spese. 23 Gennaio 1769».
Le successive visite pastorali danno atto della cura con la quale la famiglia Ruffini conserva l'oratorio.

(tratto dal bollettino parrocchiale di Vetto "Camminando")