Home Cultura Elda racconta: Pasqua una settantina di anni fa

Elda racconta: Pasqua una settantina di anni fa

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Incontro molte persone che mi chiedono di raccontare ancora, va bene vi accontento, ma non scordatevi di leggere il Vangelo domani.

Questa primavera un po’ pazza mi tiene chiusa in casa e gira e rigira, ma il mio pensiero va sempre all’indietro.

Quando mio cugino Don Battista Giansoldati, veniva insediato nella parrocchia di Montebabbio, un paesino disseminato sulle alture fra il Mone Vangelo e San Valentino, io avevo circa dodici o tredici anni.

La prima volta mi ci accompagnò mio padre su quella corriera che non arrivava più a destinazione: Carpineti, sbucava a Baiso, sempre facendo tutta la vecchia strada, con quella quantità di curve che mi facevano venire la nausea, poi Viano e infine Rondinara e lì scendevamo.

Appena scesa con la testa che ancora mi girava, il papà mi indicava in lontananza una torre altissima insediata sopra a una grande “riva” me la indicava e diceva:

“Vedi dobbiamo arrivare fino lassù”.

Naturalmente a “pedibus” cinque o sei chilometri su una lunga strada bianca che iniziava con un lungo ponte, se non sbaglio, sul Tresinaro.

Allora la macchina chi ce l’aveva? Neanche mio cugino prete che cavalcava una vecchia “Guzzi” verde militare.

Ci siamo messi in cammino, attraversando la lunga pianura, su quella strada stretta e bianchissima, non incontravamo macchine, ma solo qualche carro agricolo, che poi mio padre con la sua parlantina fermava e chiedeva informazioni.

Quando cominciò la salita, poi non era così corta come sembrava da lontano, le curve non finivano mai.

Finalmente ai nostri occhi si presentò una graziosa chiesetta dipinta di rosa, un po’ spostata la vecchia torre antica e altissima e una casa di sasso punteggiata da un mucchio di finestrelle, sopra la parte opposta, della “riva” che vedevamo appena scesi dalla corriera, quella era la Canonica.

Non vi dico l’accoglienza di mia zia Cleofe che era la madre del prete, pareva che fosse arrivata una regina (le mie zie materne mi hanno sempre adorato, loro avevano avuto solo dei maschi).

Quella volta ci fermammo solo tre giorni e non ero riuscita a capire come funzionava sto paesino. Una cosa però era certa il giorno dopo era domenica e durante la messa la chiesa era strapiena, perciò era gente cristiana gran lavoratrice e educatissima.

Dal momento che si sta avvicinando Pasqua il mio ricordo va alla volta sucessiva.

La Zia Cleofe aveva detto a sua sorella, cioè mia madre:

“Prima di Pasqua mi mandi l’Elda così mi aiuta a fare le pulizie Pasquali”.

Fu il primo viaggio fatto da sola, avrò avuto si e no tredici anni, ma la parte più brutta fu il percorso a piedi, dalla fermata della corriera fin lassù, in solitudine con una piccola valigetta di cartone con dentro qualche paio di mutande, dei fazzoletti da naso e il vestito (da teòcc i dè) praticamente il vestito da lavoro.

Arrivai lassù affamata, ma non stanca e la zia era stata un po’ parca nel cibo, questo era un suo difetto:

“Questo no, che ti può far male, quell’altro no perché serviva per la cena…ecc”

Io poi mi rifacevo quando mi mandava a comprare il pane, nella parte alta del paese dove c’erano due negozi d’alimentari e un giorno andavi nel primo e il giorno dopo nel secondo, per mandarli pari.

A me piaceva quel paese, anche perché la mattina quando aprivo la finestra, di fronte c’erano altre case, vedevo subito Adriano mio coetaneo, sempre tirato a lucido, con la riga da una parte che gli divideva i capelli biondi e sua madre la signora Dilva, anche lei sorridente, diciamo che forse mi vedeva bene come erede al suo “trono”.

Poi più in là Rita con la mamma, lei a tredici anni, già andava in fabbrica a Sassuolo, ma si trovava bene con me, come l’Evangelina prima di otto fratelli era sempre in giro con uno in braccio e l’altro attaccato alla gonna, poi la Iolanda, la Siria, Dante e un po’ più grande la Rosa figli del mezzadro di don Battista.

Tutti ragazzini che aspettavano che aprissi la finestra, ero la grande novità del momento, mi trovavo in mezzo a un mucchio di amici, immaginate abituata com’ero a stare in una casa solitaria.

Si andava tutto bene per quindici o venti giorni, ma poi una mattina mi svegliavo e mi prendeva una grande malinconia e voglia di casa mia, di mia mamma e di mio papà.

Allora “decisa” come sempre, mettevo le mie cose in valigia e con questa mi presentavo in cucina per la colazione.

La zia stupefatta mi chiedeva se mi faceva male qualcosa, se qualcuno mi aveva trattato male, io la rassicuravo, allora lei mi metteva dei soldi in tasca “erano tanti”, ma non è mai riuscita a trattenermi un minuto in più.

E don Battista che per lui ero come una sorellina, conoscendo il carattere duro della madre, la interrogava:

“Mamma, cosa le avete fatto, cosa le avete detto.”

Tutto questo la prima volta che sono tornata a casa, dopo ci avevano fatto l’abitudine e di “volte” ce ne sono state tante perché dai 12 ai 20 anni, che poi mi sono sposata, ci sono stata per parecchi periodi, fin che Don Battista non è stato trasferito a Castelnovo.

Allora le mie scappate dalla zia erano veloci a casa avevo tre bambini e tre vecchi da seguire, ma negli ultimi sei mesi di vita correvo ogni mattina da lei per alzarla da letto “lei stessa non voleva nessun altro” e io l’adoravo nonostante il suo carattere duro che poi assomigliava molto al mio

Elda Zannini