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Elda racconta: una giornata per ricordare

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E’ da stamattina che questo tempo bigio mi perseguita, in questo grande appartamento costruito per cinque persone più nonna e che io caparbiamente continuo a farlo funzionare come una volta, niente porte e finestre chiuse, deve esserci luce e ordine in ogni angolo come un tempo.

Comincio a guardarmi intorno ed ecco che la mia mente torna al passato.

Quelli di una certa età mi capiscono, i giovani un po’ meno, ma “che barba” diranno, sono stata giovane anch’io, anche se non vi sembra e li capisco benissimo, anch’io un tempo dicevo:

“Mama it le cuntada méll volti”

Traduco: “Mamma l’hai raccontata mille volte”.

Si cari miei ora sono io che continuo a raccontare, ma se non vi va potete benissimo voltare pagina, tanto nessuno vi vede.

Sono nata verso l’inizio del 1938, papà era tornato da poco dall’Africa, dove si era recato con centinaia di altri operai, per cercare di costruire qualcosa, laggiù che potesse allargare sta povera Italia, ormai troppo piccola per sfamare i suoi abitanti.

(Se qualcuno ve l’ha raccontata diversamente io sono d’accordo con loro, io non sono una politica, anzi non me ne intendo per niente, racconto solo ricordi di una bambina).

Difatti tanti anche emigravano in America, ma nessuno che io sappia è ritornato ricco, ma solo con quel po’ che serviva per pagare i debiti fatti prima di partire.

C’erano poi quelli che si recavano nell’America del Sud, ricordo che la gente Molisana, che io ho frequentato per parecchi anni, la chiamavano “l’America scurdariella”.

Questi uomini che vi emigravano, molte volte non facevano ritorno, scordavano anche le famiglie che avevano lasciato qui nella miseria.

Torniamo a me, ultima di cinque fratelli. Magra, bruttina, con lunghe gambe secche e un cespuglio biondo in testa, che nessuno riusciva a domare, riccioli ribelli che si giravano da tutte le parti, fuori che da quella giusta, tenuti fermi da un grande nastro azzurro che doveva richiamare il colore degli occhi, ma sempre slegato e penzoloni.

Fin che c’era mia sorella, cioè i primi sei anni della mia vita, ricordo vestitini (che mi cuciva lei), a pallini, a righine, a quadretti, elegantissimi, ma poi la guerra se l’era portata via e noi siamo rimasti con una mamma depressa, triste, senza più voglia di fare niente, quella malattia che l’ha perseguitata fino alla fine, anche se eravamo solo noi famigliari a saperlo.

A sei anni ho cominciato “come doposcuola” a frequentare il laboratorio di ricamo tenuto da Suor Giulia, si lo so l’avrò nominata parecchie volte questa suora, ma solo chi l’ha conosciuta e frequentata per anni come me, hanno conosciuto la dolcezza, la comprensione, quel sorriso mezzo nascosto, dalla lunga cuffia inamidata, che le teneva il viso nella penombra e quei suoi occhialini che usava e toccava come se fossero una reliquia.

Proprio Suor Giulia, mi ha fatto amare la lettura:

“Sei stanca, piccolina? Leggi a voce alta così noi ascoltiamo”.

Mi allungava un grosso libro di quelli con le pagine giallastre, grosse, un po’ sfrangiate sui bordi, per le moltissime volte che erano state girate, dal titolo:

“La tragedia di Mountheron, di F. Barret”.

Io leggevo felice di leggere la continuazione di questo romanzo, poi vi dirò anche che parecchi anni fa me lo sono anche comprato, ha il titolo diverso (La figlia del deportato), ma è lo stesso.

La casa delle suore per qualche anno era diventata la mia casa, la bottega di mio padre era a due passi, perciò uscita da scuola lasciavo la cartella li e correvo da Suor Giulia.

Questi sono i miei ricordi d’infanzia più belli, in casa mia si respirava solo dolore e mio padre cercava di tenermi lontana il più possibile, difatti la sera rientravamo insieme, mano nella mano.

Adorato papà, forte come una roccia, intelligente, affettuoso, mi ha aiutato a crescere come lui, nonostante la nuvola nera che si era posata sul tetto della nostra casa.

La mamma purtroppo si era lasciata prendere da quella depressione che ti avvolge e non ti lascia più.

In cuor mio fin da piccola ho sempre pensato:

“Io la depressione la farò venire agli altri, ma non mi lascerò mai prendere da lei”.

Fino ad ora ci sono riuscita, anche se di motivi ne avrei avuto più di uno per caderci dentro.

Mi rivolgo ai tanti che si sentono un po’ giù, non ascoltate quella “brutta bestia”, la vita è bella anche se non è perfetta, poi ricordiamo che da lassù Lui ci sta guardando e sta pesando i nostri sacrifici su una bilancia, esattissima che non sballa neanche di un millesimo.

Ecco questo tempo bigio mi ha fatto ricadere nei ricordi, ma non me li sono tenuti dentro, ho cercato di scaricarli così peseranno meno.

Elda Zannini