“La società dell’emergenza”, è il titolo del libro scritto da Francesco Fantuzzi, un saggio che offre una lettura del periodo che stiamo vivendo. L’autore sottolinea che negli ultimi anni siamo passati da un’emergenza all'altra, quindi si chiede che anno sarà? Un altro anno di emergenza e guerra permanente, ormai sempre più somigliante a un genocidio? Quale futuro ci attende?
Il libro verrà presentato domenica 2 febbraio, alle 10,30, a Cavola di Toano, con QuartaDimensione Cavola, Maria Luisa Merenda e Paola Belli.
E l'8 febbraio a Viano, alle ore 11, nella biblioteca 'Bonaventura Corti'.
Esce dopo “Dentro la Zona rossa”, dove l’autore racconta l’esperienza del lockdown e i suoi effetti sull’uomo, sul potere, sul linguaggio, sul tempo, sull’ambiente.
Fantuzzi si occupa di finanza etica, lavora alla MAg6, cooperativa di finanza alternativa che, come spiega «cerca di trasformare l’uso dei denari in un modo più consapevole e quindi di farsi che il denaro sia uno strumento e non più fine».
“Emergenza è la parola più evocata da quattro anni a questa parte, dalla politica, sui social, nelle televisioni, sui giornali, tra la gente comune. Prima l’emergenza pandemica, oggi quella bellica unita alla non completamente cessata emergenza energetica, passando per la siccità e per le inondazioni…”.
Francesco, La società dell’emergenza è più di un saggio...
C’è chi dice che sia un saggio ‘troppo ricco’ e che forse se ne sarebbero potuti anche ricavare due o tre perchè in realtà mi sono occupato di tanti temi: del senso della vita, del ruolo di Internet, delle possibili chiavi di uscita e anche della decrescita. Certo potevo fare anche una scelta diversa, però alla fine ho pensato di mantenere un dettaglio ampio perché libro fosse ancora attuale.
Infatti il libro è uscito proprio un anno fa ma, appunto, ancora attuale: c’è il tema della guerra che avevo anticipato e ho aggiunto alla fine perchè ciò che accade Gaza credo sia troppo importante.
Tanti temi, tanti concetti, ma un'unica realtà?
Sì. È la scusa per parlare della post contemporaneità. L’emergenza che dovrebbe essere un qualcosa di straordinario per caratteristiche, e di transitorio per quanto riguarda i tempi, diventa un qualcosa di permanente: dall’emergenza COVID siamo passati a quella bellica; poi c’ è stata l’emergenza dei migranti, poi la situazione di Gaza.
Sembra che l’emergenza sia una sorta di strumento a disposizione di un decisore politico, come lo definisco, sempre più separato dal potere che ormai si situa in ben altri livelli appunto di decisione e che sia diventata una sorta di filo conduttore che permette comunque a una politica sostanzialmente accreditata di avere sempre delle chiavi per tenere il controllo non dico della popolazione ma del proprio potere.
Un altro tema affrontato è che quello dei social: “siamo più social che sociali”?
Una parte del libro l’ ho dedicata proprio al rapporto con i social e all’effetto che hanno sulle nostre sulle nostre vite, alla trasformazione antropologica nei comportamenti, nella gestione delle relazioni. Il distanziamento sociale che è stato introdotto dalla pandemia è diventato qualcosa di permanente attraverso l’utilizzo delle piattaforme: la trasformazione del concetto di libertà, nel senso che c’è ormai convinzione di sentirsi liberi di dire scrivere di tutto.
Ritengo che la nostra parte peggiore non solo appunto non sia più nascosta ma sia anche esibita con fierezza. Il ruolo del social è stato anche quello di portare ‘fuori’ tutta una serie di comportamenti che almeno l’uomo ha sempre avuto la cautela e la cura di tenere nascosti. Esibiamo il narcisismo. Mi colpisce che ormai le cose che facciamo prendono vita ed esistono, se vengono esibite.
Lei dedica una parte del saggio anche all’importanza dell’uso del linguaggio: ci vuole spiegare cosa intende?
Credo che il linguaggio sia l’indubbio vincitore di questi ultimi quattro anni e mezzo passando dalle parole che sono state utilizzate. Pensando alla pandemia…distanziamento sociale è una parola che è stata utilizzata e che non ha mai avuto una spiegazione, dal mio punto di vista, plausibile. Perché se il problema è medico, ovvero il contagio, avrebbero dovuto proporre l’abbinamento di due parole in linea con quella problematica e quindi il distanziamento medico, epidemico, non so. Ma non sociale.
Quando tu utilizzi la parola distanziamento affiancando l’aggettivo sociale stai già determinando un possibile scenario futuro prefigurando possibili comportamenti: un passo alla volta, la sensazione di poter bastare a sé stessi diventa proprio una sorta di stella polare; le persone cominciano ad abituarsi a restare da sole, a restare distanziate, a non ritenere più il valore della relazione umana.
Le parole non sono mai casuali, non si limitano a descrivere i fatti ma plasmano degli immaginari ed è questo lo sforzo che ho cercato di rilanciare in questo secondo saggio approfondendo diciamo i primordi dell’analisi che fu fatta chiaramente ancora a caldo ‘Dentro la zona rossa” (uscito a settembre del 2020, ndr)
Le parole hanno un peso.
A mio vedere c’è una categoria di emergenze riguardanti eventi fortuiti, imponderabili e inimmaginabili, nonché inaspettati, di cui nessuno può essere oggettivamente indicato come responsabile, e rispetto ai quali anche i decisori politici, nei loro vari livelli istituzionali, incontrano non di rado difficoltà nel prefigurarne la durata, e talora pure l’evolversi, e semmai anche l’esito o sbocco finale, causa eventuali e sopraggiunte, nonché imprevedibili, complicanze (talché non resta dunque che “incrociare le dita”, secondo l’espressione tradizionalmente in uso).
Vi è poi una seconda categoria di emergenze, o criticità, sempre a mio opinabile punto di vista, che viene fatta discendere e dipendere da carenti o mancate azioni preventive, e spesso si fa a gara nell’individuarne le responsabilità, dimenticando tuttavia che la prevenzione, di per sé opera di indiscutibile importanza, oltre ad essere irrinunciabile, concerne una estesa pluralità di settori, il che può comportare un forte impegno di risorse talora non disponibili, giacché scarseggia o difetta la relativa potenzialità finanziaria in capo agli Enti rispettivamente preposti in materia.
Né va tralasciato che nel sentire comune sembra divenire sempre più ricorrente l’idea di insufficienti o tardivi interventi di prevenzione, allorché capita qualcosa di inatteso e indesiderabile, nel senso che nella società pare esser venuto meno il rassegnato accettare l’esistenza di fatalità difficilmente “scongiurabili” in via preliminare e preventiva, il che induce di riflesso a ravvisare o supporre una qualche responsabilità, con l’auspicio di vederla identificata (e scordando pure che talora giocano passate scelte non ottimali, e su cui pesano responsabilità per così dire collettive).
Se la mia sensazione non è infondata, e se anche la manutenzione corrente, e più complessivamente la normale e consueta gestione delle cose, va incontro ad ostacoli, e casomai intoppi, in ragione della scarsità di risorse da potersi impiegare, il conferire all’ordinario una patina di straordinarietà ed urgenza può forse accelerare l’assegnazione di risorse, evitando di incorrere in “inadempienze”, o similari, il che, a sua volta, si traduce verosimilmente in una società delle emergenze, destinata semmai a protrarsi (ove non avesse a determinarsi un cambio della nostra mentalità).
P.B. 02.02.2025