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Pietro racconta

Pietro racconta: la disuguaglianza

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Negli ultimi dieci anni sento sempre più spesso parlare di
discriminazione.
Questa parola mi angoscia, anche se so che da che mondo è
mondo questa parola esiste.
Negli anni cinquanta e i primi del sessanta io personalmente ho
provato questo nei confronti della mia persona, in diverse
situazioni.
Quelle subite da ragazzo, non le ho dimenticate, ma le ringrazio,
perché mi hanno aiutato a crescere e rinforzarmi
psicologicamente e mi hanno regalato esperienza.
Quelle invece subite da bambino e nei primi anni
dell’adolescenza, mi sono rimaste impresse come cicatrici, che
forse con la maturità le ho cancellate, ma non dimenticate.
Da bambino ero vivacissimo, forse maleducato, ma non ho mai
fatto del male a nessuno, non ho mai fatto dispetti a persone o
animali o distrutto cose.
La mia vivacità ora la ritengo come uno sfogo con me stesso per
le tante umiliazioni subite.
Con più mi umiliavano, più la mia vivacità cresceva e ho anche
tentato di spiegarle a mia madre, ma lei non mi capiva e diceva:
“Se qualcuno più grande, ti ha castigato o ti ha dato un ceffone, si
vede che lo meritavi”.
Adesso non sono qui per fare la vittima o cercare un colpevole,
perciò senza alcun rancore vi descrivo la mia disuguaglianza.

Scuole elementari, primo giorno di scuola, la signora maestra mi
faceva un insieme di domande che finivano.
“Che mestiere fa tuo padre?”
“Ha fatto un po’ di tutto, il contadino, il giardiniere e ora il
muratore”.
Lei rispondeva.
“Grazie, il tuo banco è quello là in fondo vicino al muro”.
A chi invece rispondeva che il padre era un impiegato o un
diplomato, il suo banco era in prima fila davanti alla maestra.
Se durante un’interrogazione prendevo un brutto voto, se ero
fortunato, il mio posto era con la faccia al muro dietro la lavagna,
ma facilmente, la signora mi faceva fare il giro delle altre classi,
con un paio di orecchie d’asino, ma la cosa che mi umiliava di più
era che fra gli alunni delle altre aule c’era mio fratello di due anni
più grande di me e lui era sempre fra i primi della sua classe.
Io invece ero “l’asino”.
Poi ciò che mi faceva star male, era che se lo stesso voto lo
meritava un figlio di un “signore” la conseguenza era questa:
“Torna al tuo banco, vedo che oggi non sei preparato, ti interrogo
un altro giorno”.
Alle scuole medie, cambia la musica, ma non lo spartito.
Per musica intendo che le punizioni dietro la lavagna non c’erano
più (anche perché le lavagne erano attaccate al muro). Mentre
per spartito intendo il comportamento degli insegnanti, i miei
voti venivano messi immediatamente sul registro e sul diario, per
altri invece solo un richiamo:

“Vedo che non sei preparato, studia che fra una settima ti
interrogo di nuovo”.
Adesso preparazione per ricevere il Sacramento della Prima
Comunione.
Io ero lasciato sempre da parte, solo con me stesso e chiesi al
catechista il perché.
Lui gentilmente, molto pacato e spero ingenuamente mi disse:
“Alla domenica non vedo mai tua madre a messa”.
La risposta detta molto educatamente e con dolcezza non mi
disturbò minimamente, ma secondo voi come faceva mia madre
ad andare a messa dal momento che ogni domenica e tutti i
festivi lavorava in una trattoria, come cameriera?
La cosa invece che mi faceva soffrire era vedere che gli altri
bambini nei giorni successivi, mi stavano lontani come se avessi
avuto il morbillo o la pertosse.
Tutte queste umiliazioni unite a altre differenze sociali che ho
subito, senza presunzione, penso di averle riscattate nel corso
della vita, ma purtroppo non riuscirò mai a dimenticarle.

 

Pietro Guazzetti.

1 COMMENT

  1. Ci sono in effetti umiliazioni che possono spingere ad affermarsi e a riscattarsi, come scrive l’estensore di queste righe, ma agli adolescenti andrebbero in ogni caso risparmiate mortificazioni che possono lasciare soltanto una inguaribile sofferenza, portata poi dentro, e con dolore, per tutta la vita.

    P.B. 20.01.2025

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