Pietro scrive: Ecco l’Enza, quel fiume che in estate, scorreva tranquillo fra le sue rive e qua e là qualche spiaggetta e in quegli anni per chi abitava nelle vicinanze, sia sulla riva Reggiana che in quella Parmense, era considerato il loro mare.
Anch’io molte domeniche pomeriggio, partivo dalla casa dei nonni, là in alto e mi buttavo di corsa, giù per quello sterrato ripido e pieno di sassi e buche, per raggiungere una di quelle spiaggette, dove già dal mattino, un gruppetto di amici la presidiava.
Ottimo posto per fare il bagno, prendere il sole e chiacchierare indisturbati.
Quei pomeriggi mi riempivano di armonia e serenità e mi davano la forza, per iniziare una nuova settimana di duro lavoro.
Ricordo che nelle vicinanze c’era un bar, ma io non ci sono mai entrato, non ho mai avuto in tasca le venticinque lire che ci volevano per comprare un ghiacciolo.
Se mi veniva sete, mi recavo dalla signora Nella, che mi offriva una mestola di acqua o di latte appena munto e qualche volta quella cara signora mi allungava anche una fetta di pane con burro e zucchero.
Quanto era buona quella merenda! Sarà stata la fame a farmela apparire cosi?
Naturalmente crescendo, quei pomeriggi domenicali sono diventati un ricordo che ogni tanto si riaffaccia alla mia mente, nonostante il passare degli anni e il gorgogliare dell’acqua di quel fiume fra quelle rive mi è rimasto nel cuore.
Quando anni dopo tornavo alla casa dei nonni che avevano a Vetto, la sera prima di chiudere gli scuri, facevo una capatina vicino alla cappellina della “Madonna di Corbiolo” per sentire lo scorrere veloce ed agitato delle acque di quel fiume che correvano verso la foce e pensavo che anche loro forse mi salutavano dandomi il benvenuto col loro gorgogliare.
Il rumore di quelle acque, quella sensazione di compagnia e quelle emozioni le ho sempre portate con me e tenute dentro di me
Pietro Guazzetti
Carissimo, ti ho ascoltato in silenzio senza interromperti, fino alla fine, ma anche i miei ricordi si sono risvegliati, vedi, io nell’Enza portavo i miei bambini quando erano piccoli e scherzando io e mio marito lo chiamavamo “il mare dei poveri”. Ci arrivavamo in cinquecento, con palette, secchielli e merende abbondanti, erano pomeriggi diversi dal solito, ma quasi mai di domenica, dal momento che le domeniche estive erano giornate di traffico intenso, perciò Giuliano doveva svolgere il suo lavoro.
Voglio però tornare indietro coi ricordi, a quando ragazzina con un gruppetto di amiche di Carnola, che era il paese natio di mio padre, andavamo in Secchia.
Questo era l’altro fiume più vicino a noi e questo era il nostro mare, lo raggiungevamo correndo giù per la strada che allora non aveva curve, ma era dritta, stretta, sassosa con alte siepi di rovo dalle parti.
Prima incontravi il piccolo rione della Torretta dove abitavano i “signori della Torre” che vedevi passare con alti stivali di cuoio e giacche da cacciatori.
Poi a un tiro di schioppo “Bondolo” sempre questa strada dritta giù in mezzo al paese, dove qualcuno guardava questo gruppetto di ragazze, ma nessuno spiccicava una parola.
Eccoci al Pianello, due case lunghe e basse, a poca distanza dalle rive del Secchia e lì c’era anche un mulino ad acqua di proprietà del vecchio Pietro soprannominato “Pantanin”, forse perché quel posto, nella brutta stagione diventava un pantano, naturalmente questo lo pensavo io personalmente, dal momento che ho sempre cercato di dare un’origine ai soprannomi.
Finalmente il gruppo di ragazzine arrivava al fiume, nessuna di noi possedeva un costume, solo io, che già cominciavo a cucire indossavo un paio di pantaloncini corti.
Comunque ci mettevamo tutte in mutande e canottiera, ricordatevi però che anche svestite così, eravamo molto più vestite di certe ragazzine che oggi entrano in chiesa con la “mini” che copre appena le chiappe, senza contare le scollature che si allungano lungo la schiena.
Si stavolta mi è scappato detto e non chiedo neanche scusa.
Entravamo nell’acqua ristoratrice, di questo fiume, ci spruzzavamo e ridevamo felici, spensierate lontane da tutti e da tutto.
Questo fiume in quel luogo, correva liscio nel pari, non c’erano cascatelle assomigliava a un pezzo di mare entrato per sbaglio fra queste montagne che lo circondavano e proteggevano.
Poi ognuna si mordicchiava la merenda che si era portata, ma la scampagnata non finiva lì, il sole tramontava presto fra quelle alte
montagne e bisognava fare ritorno e questo era tutto in salita (circa tre chilometri) o forse più, ma nessuna se ne accorgeva.
Ma beata gioventù, spensierata e felice con così poco.
Si forse ha ragione Pietro, certe cose ti restano dentro e non puoi più scordartele.
Elda Zannini
Bellissimo, Grazie !
Ricordo che anche dalla città l’Enza attirava bagnanti, specie a Cerezzola (dove il fiume allargava il suo letto a mò di spiaggia), che in molti raggiungevano via treno fino a Ciano, per poi proseguire a piedi o in bicicletta, pure trasportata sul treno, riferendomi agli anni in cui la stessa era ancora il mezzo di spostamento più in uso, e trovo poi opportune le parole relative a chi frequenta semmai la chiesa con abbigliamenti poco appropriati per un luogo di culto e preghiera.
P.B. 16.01.2025