Sono passati ottant’anni, ma il ricordo di quella mattina del 29 settembre 1944 non ci abbandona.
I componenti la nostra famiglia erano quasi tutti in cortile intenti a sistemare la legna per l’inverno.
Solo mio padre era assente, perché al mattino presto si era recato al Mulinello, dove funzionava un vecchio mulino ad acqua, a macinare mezzo sacco di grano.
In tarda mattinata, all’improvviso, si odono echeggiare, a breve distanza, una serie di colpi di arma da fuoco: tutti noi abbandoniamo il lavoro, alziamo la testa in ascolto e mio nonno grida: “Presto, tutti in casa!” e ci fa accovacciare nell’angolo della cucina, dove il muro è più spesso, con l’ordine di non muoversi e di non uscire per nessuna ragione.
Più tardi, forse verso mezzogiorno, Bruna, la nostra cascinaia, manda a dire che alla Bora, sulla strada, ci sono un morto e un ferito tedeschi, consiglia di fuggire, se non si vuole essere coinvolti nella possibile rappresaglia tedesca.
Subito siamo rimasti un po’ incerti, ma appena rientrato, mio padre ha attaccato le mucche al carro, caricato qualche coperta, qualcosa per cena e ci siamo avviati in silenzio lungo la strada per Faiedolo.
Celso Cosmi e la nipote Elia erano già pronti con le mucche e si sono uniti a noi. Tutti insieme, nel modo più veloce e silenzioso possibile, ci siamo incamminati lungo la strada che porta a Manfiurin, verso le Salatte e il Mulinello.
Tutto è proceduto senza intoppi, fino a quando siamo rimasti nella vallata e coperti dalla vegetazione, ma, attraversata la valle e giunti al pianoro, nonostante fossimo coperti da alcune querce che fiancheggiavano la carraia, siamo stati avvistati dai tedeschi situati sul monte Faiedolo, dove mio padre pensava ci fossero i partigiani, così siamo diventati facile bersaglio di numerosi colpi di arma da fuoco. Tutti ci siamo gettati, chi nel fosso, chi sotto gli argini, ovunque si poteva trovare un riparo. Il rischio di prendere una pallottola è stato alto, molto alto, muoversi per cercare un riparo più sicuro era impossibile.
Mia madre portava tra le braccia mio fratello Giovanni. Ha raccontato di averlo messo al riparo in una buca del terreno, poi in preda all’agitazione lo ha ripreso tra le braccia, un attimo dopo è arrivato un proiettile nella buca.
Le mucche libere sono andate a mangiare il trifoglio nel campo di Antonio, sotto i filari di viti, tranne un vitello che mio padre teneva ancora legato con la corda e aveva trascinato con sé sotto un alto argine al limitare del campo.
Finalmente gli spari sono cessati ma ci siamo trovati davanti i tedeschi. Spinti da loro, abbiamo radunato gli animali e preso la via del ritorno fino a Roncroffio.
Giunti di nuovo a casa, mia nonna aveva capito che avrebbero preso mio padre, ha avvicinato un capo tedesco, implorando la liberazione del figlio.
La risposta in perfetto italiano è stata: “Si accorgerà domani mattina cosa sarà di suo figlio”. Con animo disperato, è corsa in paese a cercare Peppino Bussi, uomo influente, stimato da tutti e tenuto in grande considerazione, per vedere se poteva mettere una buona parola per la liberazione del figlio.
Ha scoperto così l’atroce eccidio commesso dai tedeschi qualche ora prima. È ritornata sconvolta, lascio a voi immaginare il suo stato d’animo.
Era verso sera e la colonna dei tedeschi, partendo davanti al portone grande della corte dei Ceretti, si avviava verso Felina, portando via mio padre e lasciando dietro di sé profondo dolore e morte.
Giunti al caseificio, hanno prelevato mezza forma di formaggio e l’hanno consegnata a mio padre da portare, e, insieme al carretto col tedesco morto, hanno proseguito per Felina.
In località Cavicchiolo due guardie hanno prelevato mio padre e sono entrati in una casa chiamata “Ca’ d’la Ticulina”.
Salito il primo rampante di scale, la guardia che seguiva passa avanti. Sul pianerottolo c’era una finestra: il pensiero e l’azione sono stati una cosa sola, mio padre posa la forma e salta dalla finestra. Cade in un orto e via a più non posso attraverso i campi, verso Castagnedolo, sotto la Fola, la Stetta, il monte delle Case di Sopra e arriva a casa.
Noi con animo triste stavamo recitando il rosario. Si apre la porta, appare mio padre. Immensa felicità per tutti ma non c’era tempo: “Presto!” dice “perché se sono stato seguito, possono prendere qualcuno di voi in ostaggio e ricattarmi”. In fretta e furia siamo partiti tutti.
Mio nonno e mia nonna sono andati alla Casetta dalla figlia Domenica e noi, avvisato Celso se voleva fuggire, in piena notte, attraverso campi, sentieri, boschi e carraie siamo andati a passare il resto della notte in una vecchia stalla sopra a delle pannocchie di granoturco, in località La Sega, vicino al Mulinello.
Mio padre per maggior sicurezza si è nascosto in una specie di galleria chiamata “barbacan”: serviva a portare l’acqua dal torrente al mulino quando era in funzione.
Al mattino, da un bosco all’altro, da una siepe all’altra, siamo arrivati di nascosto vicino a Roncroffio a “Funtanè”. Abbiamo visto la nostra casa, la stalla e il fienile in fiamme. Siamo ritornati al Mulinello, ospiti a casa di Mario.
Dal cuore di mia mamma si è alzata una sentita preghiera di ringraziamento alla Madonna delle Piane per lo scampato pericolo di tutta la sua famiglia.
(dal Bollettino di Felina nr.4, Nello Roncroffi)
I ragazzi d’oggi che vivono nella bambagia, devono conoscere queste storie, scritte da chi le ha vissute, non invenzioni di scrittori
Grazie per averlo fatto Elda Zannini