Il poeta inglese Philip Larkin (1922-1985) lavorò come bibliotecario per tutta la vita, una vita che, nonostante la notorietà ed il consenso sia del pubblico che della critica, fu vissuta il più lontano possibile da qualunque tipo di riflettore. Il poeta, pur utilizzando gli strumenti tradizionali della poesia – rime, strofe e metrica – descrisse il suo mondo in modo talmente onesto e spassionato da poter risultare sgradito, fastidioso e spiacevole proprio perché terribilmente vero:
Viene, 1955
Nelle sere più lunghe,
Leggere, fresche e gialle,
Inonda le placide
Facce delle case.
Un tordo canta,
Avvolto nell’alloro
Nel profondo nudo giardino,
La sua voce appena sgranata
Sorprendendo i mattoni dei muri.
Sarà presto primavera,
Sarà presto primavera —
Ed io, la cui infanzia
E’ una noia dimenticata,
Mi sento come un bimbo
Venuto sulla scena
Di adulti riappacificati,
E non ci capisce niente
A parte la risata inusuale,
E inizia ad essere felice.
Coming
On longer evenings,
Light, chill and yellow,
Bathes the serene
Foreheads of houses.
A thrush sings,
Laurel-surrounded
In the deep bare garden,
Its fresh-peeled voice
Astonishing the brick work.
It will be spring soon,
It will be spring soon —
And I, whose childhood
Is a forgotten boredom,
Feel like a child
Who comes on a scene
Of adult reconciling,
And can understand nothing
But the unusual laughter,
And starts to be happy.
“Presto sarà primavera” dicono i versi centrali, dividendo la poesia in due parti. La prima pare una tradizionale descrizione dell’arrivo della primavera attraverso, appunto, immagini tradizionali: il tordo che canta — con voce nuova, appena ‘sbucciata’ come un frutto — sulla pianta di alloro, il giardino addormentato che presto si sveglierà, la luce serale che accende le case colorando i mattoni di luce.
La seconda parte, invece, diventa autobiografica: in un'infanzia ‘noiosa’ e ‘dimenticata’ il poeta bambino è testimone casuale della riappacificazione di due adulti, probabilmente i genitori. Non comprende nulla, il bambino, di ciò che sta accadendo, se non che una risata inattesa, insolita ed inaspettata sveglia in lui la felicità. E la felicità di allora per l’amore ritrovato dei due adulti è la stessa di oggi per il ritorno della primavera.
Ma Larkin non è mai così semplice, mai ovvio. Seppure il tordo nei primi versi possa rappresentare la monogamia e l’unione tra due persone — anticipando così i due adulti della seconda parte — e l’alloro in cui il tordo si nasconde possa essere un accenno al poeta, visto che questa pianta è l’emblema della poesia, Larkin non può fare a meno di essere irriverente. Non riesce a fare a meno di entrare nelle cose e nelle persone con precisione da microscopio e mettere ogni aspetto del vivere sotto la lente rivelatrice, indagando tra le minuscole pieghe nascoste della mente. Il “coming” del titolo ha anche il significato, in inglese come in italiano, del raggiungimento dell’orgasmo, identificando così l’arrivo della primavera con il conseguimento della soddisfazione sessuale, di una felicità non solo di sentimenti ma anche assolutamente fisica, seppur demistificatoria. Una felicità apparentemente completa, quasi si tornasse ad un’infanzia che è stata noiosa, facilmente dimenticata, ma pur sempre infanzia e quindi con la presenza della speranza, della gioia per eventi incompresi, per l’arrivo di una nuova stagione di vita, e anche per una maturazione sessuale. E’ una felicità che l’ambiente cupo, grigio e scialbo dell’Inghilterra post-bellica ha privato del colore ad essa tradizionalmente associato, dandone un sotterraneo significato dissacratore. Ed è anche una visione dell’infanzia che distrugge i cliché romantici di un periodo della vita illuminato dall’innocenza, dalla purezza e da una visione del mondo preclusa agli adulti.
La felicità di Larkin non dimentica mai che alle sue spalle c’è sempre l’ombra dell'infelicità. Un'infelicità parte del vivere quotidiano. In un’intervista all’Observer del 1975, Larkin disse di essere famoso perché scriveva di infelicità, un sentimento che il lettore, evidentemente, comprendeva bene. Il poeta disse anche: “La privazione è per me ciò che i narcisi erano per Wordsworth”, ovvero il focus attorno al quale nasceva la loro poesia e la loro popolarità.
Vagavo solo come una nuvola
Vagavo come una nuvola solitaria
Che galleggia alta sopra valli e colline,
Quando d’improvviso vidi una folla,
Un esercito, di narcisi dorati;
Lungo il lago, sotto gli alberi,
A fremere e danzare nella brezza.
Senza fine come le stelle brillanti
E scintillanti sulla via lattea,
Si stendevano in una linea infinita
Lungo il margine di una baia:
Diecimila ne afferrai con uno sguardo,
Che scuotevano il capo in una danza vivace.
Le onde vicine danzavano; ma loro
Superavano nella gioia le onde brillanti:
Un poeta non poteva che essere felice,
In quella allegra compagnia:
Guardai—e guardai— ma non pensai a
Quale ricchezza la loro vista mi avesse portato:
Perché spesso, quando sono sul divano
Senza pensare a nulla o immerso nei pensieri,
Appaiono di colpo a quell’occhio interiore
Che è la gioia della solitudine;
E allora il mio cuore si riempie di felicità,
E danza con i narcisi.
I Wandered Lonely as a Cloud
By William Wordsworth
I wandered lonely as a cloud
That floats on high o'er vales and hills,
When all at once I saw a crowd,
A host, of golden daffodils;
Beside the lake, beneath the trees,
Fluttering and dancing in the breeze.
Continuous as the stars that shine
And twinkle on the milky way,
They stretched in never-ending line
Along the margin of a bay:
Ten thousand saw I at a glance,
Tossing their heads in sprightly dance.
The waves beside them danced; but they
Out-did the sparkling waves in glee:
A poet could not but be gay,
In such a jocund company:
I gazed—and gazed—but little thought
What wealth the show to me had brought:
For oft, when on my couch I lie
In vacant or in pensive mood,
They flash upon that inward eye
Which is the bliss of solitude;
And then my heart with pleasure fills,
And dances with the daffodils.
E’ la meraviglia della natura che i due poeti vivono nei primi versi di entrambe le poesie. Ed è primavera sia per Larkin che per Wordsworth, la stagione dei narcisi di giallo dorati e del canto appena nato di giovani tordi. E poi la meraviglia si sposta verso la vita personale. I narcisi sbocciano nuovamente all’occhio della mente e Wordsworth accoglie la visione del ricordo come un dono portatore di ispirazione poetica.
Larkin, però, non vede la stessa corrispondenza tra natura generosa e poesia ispirata. Il suo bambino non è come quello dei poeti Romantici, non ha una capacità di lettura del mondo naturale completo e senza filtri; non vede ciò che, sempre secondo i Romantici, solo i poeti e i bambini sanno vedere, ovvero il mondo naturale nella sua complessità e comprenderlo come nessun adulto sa fare, come solo l’innocenza di un bimbo sa fare. Il bambino di Larkin ‘non capisce’, nutre la sua felicità di una gioia tra due adulti di cui non comprende davvero nulla. Interpreta una risata insolita come portatrice di felicità, e invece chissà qual è il significato vero.
Eppure la gioia c'è. Nonostante i tanti motivi che la vita offre per essere infelici, la felicità è lì. Nonostante il fatto che il bambino, ma anche l’adulto, non capisca nulla né del mondo degli adulti né della natura, è comunque felice. Nonostante le innumerevoli ombre, le pieghe, gli angoli più o meno nascosti che conservano infiniti aspetti di infelicità, la gioia è lì. Inattesa, imprevedibile, incomprensibile, ma è lì.
Forse è proprio così che dobbiamo vivere la felicità, viverla ‘nonostante’, non ‘perché’. Viverla non perché siamo in assoluto felici, ma perché siamo felici nonostante le ragioni per non esserlo.
Ed è, comunque, felicità.